Mese: Gennaio 2019

Storia e simbolismo della Tarantella; il ballo dei Greci.

Le sue origini non sono certe, ma affondano in quelle manifestazioni rituali legate alla cultura e alla civiltà della Magna Grecia. Probabilmente questa danza nasce come ritmo liberatorio e si sviluppa poi anche con alcune simbologie più “forti”, come  il corteggiamento, che ne determinano i particolari atteggiamenti coreografici. A viddaneddha è dunque il ballo reggino per antonomasia e secondo la tradizione ogni festa si conclude con musica e danza. Ne è un classico esempio la “tarantella della veglia” prima della processione di Festa Madonna a Reggio Calabria che, con la veglia notturna all’Eremo, costituisce un importante momento di festa e di attesa a ritmo di musica.

La danza della tarantella viene accompagnata tradizionalmente da alcuni strumenti caratteristici della tradizione calabrese che sono:  la zampogna, sostituita in seguito dall’organetto, il tamburello e in alcune zone si usavano la “pipita” o “frischiottu”. Una delle particolarità dei suoni della tarantella sono sicuramente le passate, cioè le melodie, che variano di località in località in località. Il nome di ogni tipo di suonata è dato dal paese di provenienza. Tra le più comuni troviamo la suonata “Cardola“, tipica del paese di Cardeto, quella “Mosorrofana” di Mosorrofa, o ancora la “Catafurota” di Cataforio e tante altre…

Il Simbolismo; è rappresentato dalla “rota” sta a significare il territorio di appartenenza: il paese o il rione; con la danza si va a conquistare tale spazio. Il simbolismo che si cela dietro i passi della danza a volte assume significati diversi. Nel primo caso viene a simboleggiare un vero e proprio duello per il predominio dello spazio delimitato dalla rota, nel secondo caso si mima il rituale del corteggiamento in cui la donna in maniera contenuta e pudica mostra civetteria che ricorda gli atteggiamenti della danza greca classica.

 

Passi della danza

Quando si balla generalmente si eseguono dei passi “puntati” che seguono cioè il ritmo del tamburello, ogni ballerino esprime la danza e la musica come meglio crede ma sempre restando all’interno di un linguaggio coreutico condiviso e di rispetto per la dama con cui sta ballando. Generalmente all’inizio del ballo i due ballerini sono a distanza, man mano l’uomo si avvicina fino ad arrivare a “chiedere le mani” alla donna, porgendogliele con il palmo verso l’alto, per il ballo intrecciato. In molte zone della Calabria si balla senza mai prendersi per mano o ballando spalla a spalla, cosa che comunque restava riservata alle coppie di coniugi o tra parenti stretti. Nel ballo uomo-uomo o donna-donna ci si poteva prendere dalle braccia. Una volta allacciata la coppia comincia a girare in senso antiorario eseguendo dei cerchi in cui la donna cerca di mantenere comunque il centro della rota. I passi fondamentali, che si basano su delle terzine, possono essere fatti anche sul posto, ma generalmente vi è un giro, un ruotare antiorario dei ballerini all’interno della “rota”. I passi sono spesso doppi e ondeggiati. il movimento del corpo dalla cintura in giù e dalla cintura in su sono indipendenti, il tronco è statico mentre le gambe sono freneticamente in movimento. Un passo particolare è il soprappasso o “intricciata” dove appunto i passi vengono intrecciati battendo un piede all’esterno dell’altro in maniera alternativa. Un altro passo è il passo “illi adornu” che si esegue quando si è al bordo del cerchio mimando il volo di un uccello che cerca di incantare la preda per poi ghermirla e dirigendo a spirale con l’intento di portare l’altro ballerino verso il centro della “rota”. Se l’avversario cede andrà verso il centro e verrà sostituito dal Mastro di ballo, in caso contrario potrebbe eseguire il passo: “tagghjapassu” (tagliapasso) cercando di interrompere il percorso a spirale. Il tagghjapassu è usato dalla donna per sfuggire al corteggiamento dell’astante. Quest’ultimo passo può portare alla “schermijata” ovvero il mimo con l’indice ed il medio della mano di un coltello che viene puntato prima contro l’astante e poi verso il cielo e da quel momento si mimano fendenti e affondi.

La donna può usare un foulard da agitare davanti all’avversario come sfida, mentre l’uomo per mostrare le sue capacità con i suoi passi per conquistarla e riuscire come simbolo di successo a scompigliarle i capelli (scapigghjarla), a toccarle il viso (nzigarla) o a prenderle il foulard (n’nnopiarla).

Le braccia assumono diverse posizioni a seconda se uomo o donna: l’uomo tenderà a sollevarle e muoverle maggiormente, fino -nella danza uomo-uomo ad assumere l’atteggiamento di una sfida-lotta con il coltello, mentre la donna generalmente non le solleva mai oltre la spalla muovendole leggermente, o le tiene poggiate sui fianchi con i palmi rivolti verso l’esterno simboleggiando un’anfora greca che mette in risalto i fianchi ed i seni.

 

‘u mastr’i ballu: una persona di rispetto che detta le regole della “rota”, seguite con rispetto da tutt’i partecipanti alla danza. E’ lui che dirige la tarantella. E’ lui che invita i ballerini a ballare. E’ lui che  forma le coppie e le separa; organizza, dirige e porta avanti il ballo, dando indicazioni che vanno oltre la danza in se stessa… Nessuno degli invitati al ballo, uomo o donna che sia, può rifiutare l’invito a ballare! E’ lui  che crea la cosiddetta “rota”, la quale, per quella circostanza e in quel luogo, dovrà es-sere una e una sola: in nessun caso, infatti, possono esserci due o più “mastri di ballu”.

La ruota è uno spazio circolare dentro cui si svolge la danza.

Nel passato la “rota” era il luogo dentro sui si creavano rapporti sociali particolari e momentanei che, alla fine ces-savano, si rafforzavano o potevano anche degenerare. – Facimu rota! – grida il “mastro di ballo”. E tutti i partecipanti, disponendosi a cerchio, si preparano a prendere parte al ballo  – A manu girandu! – vengono chiamati ad entrare in ballo a uno alla volta, ad un cenno del “mastro di ballo”. – Evviva cu’ balla! – nella ruota in tal caso chi guarda e chi balla sono tutti sullo stesso piano.La “ruota” è un palcoscenico dove si recita anche solamente guardando o seguendo il ballo muovendosi sulle gambe oppure battendo ritmicamente le mani. I presenti non sono una platea di spettatori, ma rappresentano una sicura presa emotiva per i ballerini che volteggiano sotto gli occhi dei parenti, degli amici e di quanti di lì a poco ne rimarranno contagiati. Dentro e attorno alla ruota tutti sono attori. Chi balla e chi no, sono tutti coinvolti nello stesso ritmo, perchè si trovano lì per vivere la stessa emozione. E’ nella ruota che ‘u mastr’i ballu si muove, si destreggia, si esibisce e detta le regole del ballo. E’ nella ruota che ‘u mastr’i ballu jett’o pedi, nel senso che, bat-tendo il tacco della scarpa destra sul pavimento, indica che la tarantella sta cambiando “passata” (ripetizione o cambio del ritmo). Fora ‘u primu! Un altro giro sta, infatti, per cominciare, per cui uno dei due ballerini (il primo ad essere entrato e quindi il più stanco) deve abbandonare la ruota per lasciare il posto ad un altro. Ed ecco lì: il nuovo ballerino entra, saluta con rispetto e riverenza il mastro di ballo che si fa da parte, esita qualche istante in attesa di prendere il ritmo, volteggia attorno al compagno o alla compagna che lo attende al centro della pista, si scatena e… il resto è un vortice di delirio, lasciato alla fervida fantasia dell’organettaru. Figure caratteristiche che nascono dalla tarantella sono, com’è stato già detto, la sfida (nel ballo tra uomini) e il corteggiamento (nel ballo uomo-donna). Nella sfida si viene ad intrecciare tra i ballerini una fitta rete di sguardi, gesti, allusioni, riferimenti particolari, sempre nei limiti del reciproco rispetto e dignità dei ballerini stessi. Nel ballo di corteggiamento la sfida non esiste in quanto i ballerini si cimentano in un susseguirsi di movimenti particolari che alludono a un fraseggio d’amore. Alla coppia non è permesso alcun contatto fisico, ma soltanto è accettato il contatto con le mani. La donna, che generalmente si muove di meno, quasi sempre occupa il centro della ruota: posizione di prestigio e di rispetto. Ovviamente da un paese ad un altro cambia il significato.

DI EUGENIO BENNATO;

Il ritmo, nelle terre dell’Italia del sud, è  da sempre legato ad un ballo maledetto, un ballo ghettizzato o proibito, la tarantella, che per vivere o sopravvivere è costretta a giustificarsi come pratica di guarigione da uno stato alterato, sorta di esorcismo in musica per scacciare il demone che invasa e possiede il tarantato. Il mito della taranta, nella leggenda del ragno nero che morde e costringe al ballo, nasce cosi proprio nell’era dell’oscurantismo medievale quando le divinità pagane della Magna Grecia sono messe a tacere dai nuovi apostoli di una religione più razionale e composta, austera e castigata. Dionisio Bacco e Apollo, divinità dei riti sfrenati dal vino, della poesia e dell’eros spariscono nella nuova cultura che rinnegherà l’edonismo classico per il misticismo medievale. E così dalle feste pubbliche del dio pagano, dalla festa del dio che balla, si passa alla festa nascosta del dio che perdona, rappresentato dal suo apostolo San Paolo protettore dei tarantati nel chiuso dei cortili o nel sagrato della basilica di Galatina che al santo è dedicata e che accoglie ed assiste le vittime della taranta nella fase finale della guarigione. La storia della tarantella è dunque storia di repressione, una repressione che parte dalla cultura egemone e si abbatte sulla cultura contadina, arcaica ed ostinatamente legata alle favole e ai riti della terra e degli astri. E la cultura egemone tollera a stento i residui di un’usanza che non riesce a sradicare del tutto e nel concilio di Trento il ritmo viene bandito dalla musica come elemento demoniaco. Ma nel frattempo la tarantella seppure nel sottobosco della civiltà contadina più emarginata, continua a funzionare, a guarire e ad indurre in tentazione. E i musici popolari continuano a suonare per ore ed ore le loro percussioni e a ricreare con i flauti con le lire o con la voce le loro sensuali melodie. E quando e dove il tarantato non c’è, quegli strumenti e quelle note risuonano ancora e si diffondono per villaggi e regioni e le voci tese e i ritmi estenuanti rimbalzano da una vallata all’altra e si spargono per tutta la penisola. E le serate nei cortili delle masserie e le feste nei villaggi sono animati dalla musica della tarantella, e del ballo che ancora tarantella anche in assenza del tarantato propriamente detto. Quindi anche nei luoghi dove il tarantismo si riduce e scompare, resta la tarantella, che lentamente si modifica tramandandosi oralmente di generazione in generazione, e si evolve nella funzione ora di ballo collettivo o di coppia, ora di processione nelle feste rituali, ora di ritmo e di forma musicale e di poetica di serenate portate alla finestra della innamorata. E’ questo il nucleo vitale della musica popolare che nascostamente lancia i suoi bagliori lontano dalle feste delle corti, dai teatri e dai salotti della nobiltà e della borghesia, dove si celebra una musica di alto livello estetico fatta di geniali melodie, di grandi orchestrazioni, di mirabili costruzioni armoniche, ma del tutto priva dell’urto viscerale del ritmo e della percussione. Bisognerà aspettare il Novecento e l’apporto tribale della musica negra d’America per assistere alla diffusione degli strumenti ritmici nella musica colta occidentale. Ma nel frattempo nelle campagne dell’Italia del sud il potere della taranta continua ad alimentare gli accordi e gli accenti di una musica alternativa orgogliosa ed incontaminata.

 

Di Carmine Verduci

FONTI: da Internet

Alla scoperta degli Armeni di Calabria attraverso l’esperienza di Massimo Tamborra

Ebbene, questa settimana vogliamo indossare i panni dei nostri più affezionati compagni di viaggio, abbiamo per questo deciso di portarvi per mano in uno dei luoghi simbolo della nostro progetto KALABRIA EXPERIENCE attraverso un accurata descrizione dei luoghi e dell’esperienza vissuta attraverso uno dei nostri più cari ed affezionati fotografi che da anni ci seguono alla ricerca di luoghi fantastici nell’immediato entroterra jonico reggino.

BRUZZANO VETERE E LA VALLE DEGLI ARMENI
Di Massimo Tamborra;

Può sembrare incredibile, eppure al giorno d’oggi molti turisti abituati a visitare qualsiasi luogo della storia dell’umanità soprattutto nel nostro paese, ignorano l’esistenza in Calabria di patrimoni culturali e storici racchiusi in questa regione già ricca di sole e bella gente. Per questo la Pro-Loco di Brancaleone, da alcuni anni si batte o meglio si prodiga per valorizzare il territorio, attraverso una serie di iniziative che portano a conoscere luoghi incantati e pieni di ricchezza storica in particolare presenti nel circondario della provincia di Reggio Calabria, affinché mediante la condivisione di foto, racconti, o con i più moderni mezzi di comunicazione odierni quale può essere il social network, si possa appunto invogliare il turista o anche le persone del luogo stesso, a visitare questi posti. Il mio viaggio in questa avventura oggi ci porta nella cittadina di Bruzzano Vecchio rinominata per l’occasione “Valle degli Armeni”.

Ma perché Valle degli Armeni? Il professore Sebastiano Stranges, ricercatore storico e archeologo Calabrese, oltre che già ispettore onorario del Ministero per i beni e le attività culturali, ci spiega che il nome è stato determinato per la presenza in loco di un Castello costruito nell’antichità, si desume proprio secondo lo stile Armeno, cosi come si può evincere dalla similitudine con le costruzioni realizzate nella città rupestre di Vardzia in Georgia ai confini proprio con l’Armenia, o nella regione turca della Cappadocia. Ma chi erano gli Armeni? Gli Armeni erano stati il primo popolo Europeo ad aver accettato il Cristianesimo come religione di Stato, ma come ancora oggi accade in gran parte del mondo, anche all’epoca vi erano forti conflitti con i paesi confinanti, dovuti proprio alla diversità di credo. Non solo, ma in quel periodo dominava il cosiddetto “Zoroastrismo” ovvero una religione oltre che filosofia, molto presente in Asia, Arabia Saudita e Pakistan, basata sugli insegnamenti del profeta iraniano Zoroastro. Religione quasi tralasciata nel tempo anche a causa del rapido affermarsi a suon di spada della religione Islamica. Difatti nella terra della quale parliamo oggi, il primo deterrente per evitare di essere attaccati dai nemici di religione Islamica, fu l’allevamento di maiali neri, proprio perché i musulmani per una questione di credo religioso, reputavano il maiale un animale impuro, sporco ed esageratamente propenso al sesso, con una indole avida e ingorda, oltre a non possedere uno spirito combattivo. Pertanto i primi tempi si guardavano bene dallo stare lontano da questi animali i quali venivano posizionati al confine, proprio per sfuggire agli attacchi. Questa mossa di difesa però non durò in eterno, difatti gli Islamici dopo un po’ di tempo cominciarono ad uccidere i maiali. La storia però racconta che in Italia era ben diverso il valore esistenziale di un maiale, e quindi qualcuno dopo la carne salata e gli insaccati ottenuti appunto dai maiali uccisi dagli Islamici, utilizzo il restante realizzando un’altra pietanza culinaria a cottura lenta che divenne di diritto una preparazione tipica di questa area, e che oggi viene ben conosciuta con il nome di “frittola”. Ma facendo un passo indietro dovremmo capire anche come e perché il popolo Armeno giunse in Italia ed in particolare in Calabria. La prima cosa da sapere è che essi erano all’epoca un esercito d’elite del periodo Bizantino, e molte Regine Bizantine erano appunto di nazionalità Armena. Sia per una questione politico-religiosa, ma anche perché ammaliati dal fascino di queste donne, molti principi Siriani, Greci ed Italiani, rimasero invaghiti sposando alcune di esse, facendo si quindi che i loro popoli giungessero successivamente nel nostro paese. Proprio in questa terra, nella roccia tenera di Bruzzano Vecchio, incavarono il primo castello.

Ma la presenza degli Armeni in questa zona è ben documentata e forse definitivamente confermata dal professore Stranges, il quale rivela da ricerche svolte, che oltrepassando la fiumara che divide i confini di Bruzzano e Brancaleone, proprio in quest’ ultima cittadina sono state trovate delle chiese rupestri, in particolare una chiesa di tipo architettonico absidato, che presenta un pilastro centrale rastremato verso l’alto, dal quale si dipartono successivamente dei motivi ad albero tipici del cultura Armena. Altra conferma che questa chiesa legata al periodo che va dallo VIII al IX secolo, appunto appartenesse allo stile di questo popolo Cristiano, lo si ha dai resti di un altare in cui si osserva una croce astile sulla cui sommità presenta a sua volta altre tre piccole croci ed un graffito di pavone. In particolare il pavone presenta le due ali, una addotta e l’altra abdotta a modo d’inchino, come ad intendere riverenza avverso la stessa croce. Perché si fa riferimento a ciò? Perché nella cultura Siriaco-Armena la figura del pavone ha sempre accompagnato la croce in quanto rappresentava l’Angelo Gabriele. Continuando il viaggio, sempre con la costante e preziosa guida storica del Prof. Stranges, ci portiamo nella località denominata San Crimi (San Crini) o Judarìu (dall’ebraico Giudeo) localizzata tra il territorio del Comune di Ferruzzano e quello di Bruzzano Zeffirio.

Questa zona come ci spiega il professore, è caratterizzata dalla scoperta di una piccolissima grotta in pietra d’arenaria caratterizzata al suo interno da un particolare manufatto. Da studi eseguiti si è poi risaliti al fatto che si trattava di una tomba a tre sedute con sepoltura a putridarium (ambiente funerario solitamente ricavati sotto i monasteri, in cui venivano sepolti i cadeveri di frati o monache), che a suo tempo era protetta sicuramente da una porta delle medesime dimensioni del passaggio, deducibile dalla presenza ancora visibile degli stipiti. Ciò che rende speciale questa tomba, è appunto quello a cui facevamo riferimento all’inizio, ovvero ad un graffito di ali d’angelo il quale in senso circolare avvolge a se come a protezione, le tre sedute. Vi è stata po’ di perplessità tra gli studiosi per l’attribuzione storica della tomba, poiché questo tipo di sepoltura era sino a poco tempo fa sconosciuta. Un aiuto però viene fornito dal sapere che proprio non molto lontano da questo luogo, erano dislocati diversi conventi femminili devoti a San Francesco, e proprio uno di questi conventi successivamente attribuito a Santa Chiara si trovava in quest’aria documentata da manoscritti del 1280 d.c. che identificavano già in quel periodo questo convento come antico, quindi facendo dedurre che una data storica da attribuire a questa tomba potesse aggirarsi intorno al 1200 d.c. Il professor Sebastiano Stranges, al quale bisogna doverosamente riconoscere gran parte di quanto sto scrivendo, proprio grazie alla sua guida orale in questi luoghi, ritiene attraverso i suoi studi e le sue ricerche, di essere riuscito ad associare il graffito rinvenuto all’interno di questa tomba con la Porziuncola di Assisi (piccola chiesa situata all’interno della Basilica di Santa Maria degli Angeli), per via dell’angelo raffigurato al suo esterno le cui ali sono molto simili per manifattura a quelle viste all’interno della tomba rupestre localizzata nell’aria del Judarìu in Calabria. La nostra giornata si conclude visitando il borgo antico di Ferruzzano ubicata nella zona collinare al di sopra dell’attuale comune marittimo, a circa 470mt. s.l.m.

Un paese oserei dire fantasma, quasi totalmente abbandonato se non fosse per la presenza di sole sette famiglie, con molte case divenute ormai fatiscenti liberamente accessibili, e quindi potenzialmente pericolose per la sicurezza dei curiosi e dei turisti, devastate dai terremoti del 1783 e oltre 100 anni più tardi, del 1907. Un luogo incredibile tra panorami mozzafiato sulla costa Jonica spaziando con lo sguardo da Africo nuovo e la marina di Bruzzano, nonché l’immortalità delle viuzze (vinelle) con alcuni anfratti che presentano oggetti di vita vissuta, frantoi, tinozze, sedie a dondolo, bici d’infanti, lasciate li come se qualcuno prima o poi dovesse ritornare in quel luogo. Proprio i resti di antiche costruzioni che come detto sono in gran parte cadenti, diventano patrimonio storico di questa area, grazie anche ad interessanti portali in granito e parti di edifici di un certo interesse risalente ai secoli XVI e XVII.

 

SI RINGRAZIA PER LA MAGNIFICA GIORNATA LA PRO LOCO DI BRANCALEONE PER L’IMPEGNO PROFUSO CON TUTTI I SUOI COLLABORATORI, E SENZA OMBRA DI DUBBIO ALLA MENTE STORICA CHE CI HA ACCOMPAGNATO RAPPRESENTANDO LE SUE SCOPERTE, IN UN POSTO PIENO DI FASCINO DA VIVERE SE VOGLIAMO ANCHE IN SILENZIO, IL PROFESSORE SEBASTIANO STRANGES.

 

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