Mese: Marzo 2020

Alla scoperta del borgo di Pentedattilo (RC)

Pentedattilo: cinque dita. Cosi è chiamato questo piccolo borgo arroccato sul monte Calvario nel comune di Melito di Porto Salvo. Un borgo che cattura l’attenzione anche del più distratto, non solo per la morfologia della rocca su cui sorge ma anche per la bellezza della disposizione delle case distribuite lungo una ripida e instabile scoscesa. L’immagine di questo borgo silente è suggestiva tanto da meritargli l’appellativo di “borgo fantasma”.

Dell’antico paese di Pentedattilo si hanno notizie scritte per la prima volta nel IX secolo d.C., epoca in cui era già una cittadella fortificata, e il territorio cui faceva capo era molto esteso – dalle zone marine di Saline Joniche, passando per la Valle del Tuccio e infine arrivando alle zone pedemontane di Bagaladi. Costituì anche un centro nevralgico per l’amministrazione dell’economia agricola relativa ai terreni monastici di tutto il territorio melitese.

Nel 1500 Pentedattilo ebbe per la prima volta un proprietario laico, cioè Michele Francoperta, figlio di Ferrante; nel 1509 il feudo venne acquistato dalla famiglia Alberti di Messina che furono in gran parte protagonisti del clima di rinascita culturale ed economica che il nuovo secolo portò con sé; la casata degli Alberti è diventata famosa in Calabria a causa di un evento funesto: l’eccidio della nobile famiglia, compiuto a opera del barone Abenavoli del Franco di Montebello Jonico.

La strage si consumò la notte di Pasqua del 1686 a causa di dispute sui confini e in parte del rifiuto da parte del fratello di Antonia Alberti di concedere la stessa in sposa a Bernardino Abenavoli. In quella tragica notte venne dato l’assalto al castello e gran parte della famiglia Alberti venne massacrata: non vennero risparmiati né donne né bambini. Nei secoli a seguire Pentedattilo venne dapprima danneggiata dal terremoto del 1783 e in seguito cedette il passo a Melito di P.S., diventando una sua frazione. Oggi la parte antica del borgo è parzialmente in abbandono; ma grazie all’impegno di alcune associazioni sta divenendo un suggestivo centro di cultura e per l’artigianato locale, che si può ammirare nelle casette riadattate a bottega.

Dalla statale 106 è possibile ammirare la sua particolare collocazione che, soprattutto di sera, lo trasforma in un vero e proprio presepe. E’ facilmente raggiungibile in auto ed è possibile visitarlo interamente anche attraverso un percorso di trekking ad anello che consente di ammirarlo nella sua totale bellezza. In modo particolare, al calar del sole, la punta delle dita di questo gigante dormiente si colorano di rosso mentre il tepore dell’aria si fa sempre più denso.

Lo sguardo si perde in mezzo alle infinite vallate circostanti, solcate dalla fiumara Sant’Elia che partendo dagli altopiani dell’Aspromonte e costeggiando le frazioni del comune di Montebello raggiunge la spiaggia di Melito di P.S. per poi perdersi nelle trasparenti acque del mar Jonio. L’erosione di questa rocca di arenaria causata dagli eventi atmosferici la stanno lentamente consumando; anche i ruderi del castello, visibili solo in parte, si stanno progressivamente sgretolando. Probabilmente in futuro resterà ben poco delle antiche vestigia, ma la storia e la memoria di questo borgo continuerà a viaggiare attraverso i racconti e gli scritti, perché la conoscenza non muore ma si conserva nella memoria di chi ama la propria terra.

By Cristian Politanò

La riflessione; Ritorno alla dimensione paese

È vero,  mai nessun ritorno potrà restituirci quello che avevamo lasciato nella medesima forma in cui lo ricordavamo, certo è così. È pur vero che certe sensazioni le puoi ritrovare o anche solo illuderti di farlo, nella tua mente, scavando dove la velocità di una vita normale di solito non ti permette. Ho ritrovato ad esempio un’idea di paese come la possedevo quarant’anni addietro. L’idea di un paese inteso nella sua dimensione fisica e di interazione sociale come unico orizzonte possibile, luogo di inizio e fine di tutto. Chi ha lasciato nel cassetto da tempo i calzoncini corti ricorderà perfettamente come fosse questa la dimensione paese dell’entroterra, sul finire degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta di un secolo che sembra essere volato via già da un secolo.

Era un moto circolare di vita che si esauriva e si rigenerava di continuo dentro un perimetro urbano rimasto sempre uguale, in realtà piccolissimo ma che allora mi sembrava sconfinato. Centinaia di vite e di storie incrociate che avevano un unico sfondo, un unico palcoscenico, storie che nascevano e finivano velocemente lungo quei viottoli che oggi percorro da solo nel silenzio. In questi giorni ho respirato e sto respirando un dejavu tanto acre all’olfatto quanto nitido nelle immagini che riaffiorano.

Ho ritrovato anche un’altra cosa, un’altra considerazione che ho raccolto con le mani da terra e rimesso in testa. Nel tragitto che faccio ogni pomeriggio nel tentativo di sottrarre alla narcosi le fibre muscolari e alla nevrosi quelle cerebrali, in quei quasi cinque chilometri che separano il centro storico dalla montagna e che ti fanno salire dai 900 metri del paese ai poco più di 1100 della fontana di Travi, che incontri lungo il tragitto che porta ai Campi per poi diramarsi verso i centri abbandonati di Africo, Casalinuovo e Roghudi, mi sono riscoperto cantoniere improvvisato.

Che poesia le case cantoniere, dismesse ormai da un ventennio ma inattive da molto più tempo. Poesia vera la figura del cantoniere, richiamo ad un mondo che non c’è più e che funzionava meglio. E mi ritrovo ogni giorno a ripulire la carreggiata dalle scaglie di roccia calcarea che si sfaldano ogni notte finendo sull’asfalto vittime dell’escursione termica. Moto perpetuo quello della roccia da queste parti. Si modella, si sbriciola erosa dal tempo, dalla pioggia, dal ghiaccio, dal sole. Moto perpetuo che diventava dialogo e lotta allo stesso tempo, punto di congiunzione tra uomo e natura, moto che dava un senso, un verso, una dimensione nobile al compito di una figura certo non solo poetica, anzi tutt’altro, assai utile nel suo aspetto pratico.

Oggi razionalizziamo, tagliamo, conteniamo i costi, invece di contenere I problemi, invece di dare risposte ad un territorio che chiama senza che nessuno ascolti. D’altra parte mi dico poi, a che serve questa poetica demodè, il mondo non è più quello di quarant’anni fa e questa roccia,dura tanto nella sua natura geologica quanto nel comprendonio, questo ancora non lo ha capito e forse come lei, neanche io ho capito che chinarsi a raccogliere non serve a nulla, se non a provare la tenuta della schiena.

 

By Gianfranco Marino

La riflessione; Sulla riva del fiume, riscoprendo il gusto della lentezza

E rimettiamoci, nell’accezione più ampia del termine, stante la clausura forzata, nelle mani, anzi, ai tasti del Computer, unica via possibile per dare sfogo ai pensieri. A dire il vero il Pc, virus o non virus, rimane per me e per molti, sempre uno dei migliori alleati utili a trasporre pensieri, a fissare sensazioni, a dare forma alle idee. Non è solo uno schermo quello del nostro Computer piuttosto che dell’IPad o del cellulare, è qualcosa di più, è come se in quegli schermi, in quei cristalli liquidi, su quelle tastiere si materializzasse un prolungamento di corpo, anima e cervello. E allora rimettiamoci all’opera, davanti al camino acceso, utile per una volta non solo a fare compagnia, ma anche a scaldare in questo uggioso, freddo e surreale pomeriggio di fine inverno. Sfuggiremo questa condizione onirica, questo è certo, le riprenderemo in mano le nostre vite, non so come, non so quando ma certamente ci riapproprieremo di una quotidianità che oggi, dopo appena pochi giorni di assenza ci manca già moltissimo, e non perché in realtà manchino i gesti, forse molto di più per quella condizione psicologica generata da ogni imposizione, da ogni forma di paura dilagante. Si tratta di un’assenza che ci soffoca, claustrofobica e allucinante che ci pone davanti a scenari da film ambientati in ere post atomiche. È come trovarsi di colpo sbalzati, da una quotidianità sonnolenta al set di Med Max piuttosto che di The Day After Tomorrow. Ricordate le immagini della fuga da una New York coperta da metri di neve, dove orde di lupi andavano in cerca di cibo ? ecco le ho ritrovate quelle immagini nei fotogrammi degli assembramenti alla Stazione Garibaldi a Milano, le ho ritrovate nei volti straniti della gente in fuga da una regione ormai off limits. Passerà l’ondata di piena, non senza conseguenze, non velocemente questo è bene dirselo con franchezza, senza teorie edulcorate e senza catastrofismi, con un pizzico di sano realismo che in questo caso è quantomai necessario, non fosse che per approcciare quello che verrà con la giusta dose di rassegnazione e determinazione, senza scoramenti, senza tentennamenti, con fiducia e precauzione. E così col passare dei giorni, si riducono velocemente i contatti umani, mentre proliferano in maniera esponenziale quelli virtuali, con le piattaforme dei Social prese d’assalto che diventano in questa fase, non più solo terreno di confronto ma per una volta vero e unico spazio di vita e di interazione possibile. Siamo duri di corteccia quassù in Aspromonte, avvezzi a camminare nella nebbia, abituati a sfoderare un senso di orientamento che negli anni è diventato segno distintivo, caratteristica endemica della gente di montagna.

PH. Noemi Evoli

Ci camminiamo da una vita nella nebbia quassù, senza sapere cosa ci si parerà davanti. Nascere e crescere in montagna significa abituarsi all’imponderabile, convivere con la forza della natura e con i suoi malumori, in buona sostanza significa imparare a vivere con poche certezze, senza sapere se quello che hai oggi lo ritroverai domani. Bene, ora nella nebbia ci siamo tutti, immersi in una cortina densa che si attraversa a fatica e ci consegna un senso di smarrimento cui ancora molti non hanno avuto il tempo di abituarsi. Con lo smarrimento si convive, non ignorandolo, accogliendolo ed accettandolo con la giusta dose di pazienza, mettendosi seduti ad attendere come il pastore che aspetta che passi la piena seduto su una roccia, in attesa di far passare il gregge sull’altra sponda. È giunta dunque, al netto da qualsiasi accostamento di alvariana memoria, l’ora dell’attesa e della pazienza, il momento da dedicare alla riflessione sul nostro stare al mondo, sulle nostre paure, e tanto vale dunque sforzarsi di trovare in ogni problema qualche opportunità. Pensavo ad esempio a quanto certe situazioni possano cambiare rapidamente le nostre prospettive, sulla gente, sui fatti, sulle cose e sui luoghi. Ecco parlerei proprio dai luoghi, quelli identitari, solitari, vituperati e tristi che si animano solo nelle sere d’estate quando si cerca riparo dalla calura della costa, quando si sale su spinti dall’afa e dall’inerzia. Parlerei di quei luoghi che oggi, alla luce di questa condizione paradossale possono assumere ed in parte lo stanno già facendo, un nuovo ruolo sociale, diventando valvola di sfogo, polmone utile a regalare una normalità altrove ormai quasi dappertutto preclusa. Riscoprire le periferie, la natura, piuttosto che i centri del nostro entroterra, quelli che consentono di vivere lontano dagli assembramenti, sembra pratica necessaria a far convivere sicurezza e voglia di normalità, medicina utile a combattere una claustrofobia ed un’ansia che crescono col passare delle ore e dei giorni.

Ph. Massimo Collini

È assai curioso osservare come possa cambiare rapidamente una prospettiva conferendo ad un luogo un significato differente, facendolo passare da marginale a necessario, conferendogli il crisma del luogo benedetto, dove ci si immerge come si fa con la mano nell’acquasantiera. Così può capitare che di colpo si passi da una visione di vuoto, di manchevolezza, di limitatezza, ad un’altra di benevola sicurezza, di protezione, con luoghi marginali che diventano porti franchi in cui approdare. In fondo lo dice la storia, quella di queste coste, dove la malaria spinse su per le colline e le montagne migliaia di persone che nell’aria rarefatta trovarono occasione di vita, edificando quei centri che ancora oggi, a distanza di secoli contemplano il mare da lontano. In fondo è solo la storia che si ripete ricordandoci un moto circolare da cui non si sfugge. Riscopriamo dunque il gusto della lentezza, viviamo la solitudine come opportunità e non come limitazione, cogliamo gli odori, i profumi, i paesaggi, con un ritrovato senso del tutto, gustandoli fino in fondo come unica cosa possibile, e magari alla fine di tutto, quando l’onda sarà passata, quando il gregge sarà al sicuro sull’altra sponda avremo ritrovato qualcosa che avevamo perso, perché ogni medaglia ha il suo rovescio ed ogni luogo il suo senso da riscoprire.

 

By Gianfranco Marino

 

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén