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Lettera alla Calabria di Maria Celebre

Nel momento in cui il mio cuore e la mia anima hanno guardato e scoperto per la prima volta con amore infinito la Calabria, quello che mi sia successo non saprei descriverlo. Tutto ebbe inizio dai racconti di mio figlio, ringrazierò il professore di terza media che si rifiutò di portare la sua classe in gita al nord, preferendo la Calabria. Ha fatto vivere e scoprire ai suoi studenti l’amore, la storia e l’orgoglio di essere Calabrese. Al rientro più ascoltavo le parole di mio figlio su quello che aveva visto e vissuto, più sentivo il cuore scoppiarmi dal petto, mi sussurrava e mi spingeva a scoprire di più. Decisi un giorno di incominciare a viaggiare ed a percorrere quelle strade di cui avevo tanto sentito parlare. Percorro Briatico ed entro in paradiso sono immediatamente rapita da una bellezza incredibile, colori indescrivibili, da un vento caldo, piacevole che mi dava il benvenuto, immediatamente capisco perché i Greci hanno chiamato quel tratto di mare la “Costa degli Dei”

Solo gli Dei hanno potuto creare tale meraviglia. In lontananza vedo una Rupe ,un qualcosa che mi incuriosiva, ”che cosa è, quale divinità mi attende laggiù?” ricordo che sentivo una gioia infinita, più mi avvicinavo è più stranamente percepivo la sensazione che stavo ritornando a casa. Ultima curva ed eccola in tutto il suo splendore la mia Lady Tropea, con le sue spiagge bianche, acque cristalline e palazzi. Unica ed affascinante Dea. Eccomi ritornata a casa, ho percorso le sue stradine ed ogni angolo ed ogni palazzo mi raccontava qualcosa. Pian piano mi avvicinai ad una terrazza piena di gente,non trattenevo più il mio cuore dal emozione, è in quel istante in quel pomeriggio, io mi sono totalmente e perdutamente innamorata di lei. Ho atteso che il sole tramontasse ed anche li rimasi senza parole.

Sul orizzonte c’era lui “iddu” l’isola di Stromboli che proteggeva la sua Lady, quando loro due si incontrano al tramonto è magia ,amore puro. Continua il mio viaggio a Capo Vaticano, scendo dalla macchina e le mie gambe tremano, sono stata catapultata in un mondo irreale, magico in una leggenda dove la natura primeggia e toglie il fiato.Il colore turchese che mi da il benvenuto e magnetico, lo sguardo verso l’infinito, il sole avvolge tutto, nell’aria i profumi del mediterraneo. Quanti tesori nascosti ,quanto ancora andrò a scoprire? Ogni giorno che passava mi arricchivo di più, la mia vita ha iniziato ad avere un senso. Ho iniziato a vedere col cuore,lei la mia Calabria eri li che mi aspettava ed io carica di curiosità e amore non mi sarei fermata, una regione così non può non essere vissuta. La Costa Viola dove ogni cosa si tinge con le diverse tonalità del colore viola, dando vita ogni sera, con i suoi riflessi spettacolari, ad una visione sempre nuova. Monte Sant’ Elia dove con la punta delle dita riesci a toccare l’infinito.

Il Tracciolino, sentiero azzurro sospeso tra cielo e mare con l’affascinante leggenda di Donna Canfora. Scilla meravigliosa bomboniera sul mare,dal promontorio ascolto un’ altra leggenda di pozioni magiche e mostri marini, incredibile! Ricordo che dissi fra me e me, non può tutto questo non essere condiviso, il mondo deve rendersi conto di quanto meravigliosa e la Calabria, devo fare qualcosa!

Reggio Calabria non solo il lungo mare più bello d’ Italia ma una città ricca di storia che esisteva già prima del impero romano. Ma lei la Calabria non è solo bellezze mozzafiato, quello che offre, la sua natura è immensa; mare, monti e gastronomia danno il benvenuto a una regione completa.

La scoperta di Zungri,  “la città di pietra”. Una piccola Matera in Calabria di cui in pochi ne sapevano l’esistenza. Non credevo ai miei occhi nel momento in cui ho percorso e sono entrata nelle grotte. Non è possibile un patrimonio così non può e non deve essere nascosto. Ricordo che sono ritornata al belvedere di Capo Vaticano dove ho trascorso e dove attualmente trascorro tanto tempo seduta sulla mia panchina, parlo con me stessa e ascolto lei. Ho deciso quello che farò, voglio organizzare escursioni ma niente di grande, piccoli gruppi che insieme a me come la loro accompagnatrice vivranno le loro giornate da locali, li guiderò io da Calabrese innamorata della sua regione, a trascorrere le loro vacanze in tranquillità ad abbracciare una regione umile, semplice, bella ad apprezzarla per quello che è,  solo così vivranno la loro vacanza al 100%.

Ma in tutto questo c’era un posto che mi incuriosiva più di tutte, si trovava sullo Ionio, Brancaleone Vetus con il mio gruppo su facebook lo seguivo e non vedevo l’ora di conoscere questo posto affascinante e di conoscere colui che gli ha ridato la vita. Finalmente è arrivato il momento,ricordo quando il pulmino si fermò in piazza ed io scesi per abbracciarlo. Che gioia, finalmente lo conosco il mio ultimo cavaliere, perché le persone che io ho incontrato lungo il mio cammino alla scoperta della Calabria ,persone che come me l’amano e la rispettano sono preziosi e sono i miei cavalieri. Li porterò sempre con me. La tavola rotonda “la Calabria”, e noi i suoi cavalieri, quel giorno il mio cerchio si chiuse perchè finalmente ho conosciuto Carmine Verduci.

Una giornata indimenticabile, un borgo unico, un viaggio sensoriale meraviglioso. Ma la parte più bella ancora doveva venire. Carmine si sofferma davanti alla grotta chiesa, e racconta di lei. Siamo entrati rispettando il luogo. Sono poi rimasta da sola nella grotta, dovevo fare una ripresa per le persone con cui lavoro che elaboreranno il mio tour della Calabria. Cosa mi sia successo quando rimasi da sola con l’albero della vita, lo custodirò con me per sempre.

Quando ho abbracciato l’albero lui mi ha parlato tramite il battito del suo cuore. Le sue parole sono nel mio di cuore. Io dovevo essere lì in quel momento, perchè nulla nella vita è per caso, dovevo incontrare Carmine per chiudere il mio cerchio e dare un senso alla mia vita, una carica pazzesca che non mi farà mollare. Io non sono nessuno, ma penso che nel mio piccolo darò una mano, organizzando viaggi, facendo si che le persone iniziano a conoscere la Calabria, attraverso i miei video, foto, post, racconti. Il mio desiderio più grande e fare si che le persone si innamorano della Calabria e la guardano attraverso i miei occhi. So per certo ed io ci credo che lei diventerà bellissima, siamo in tanti adesso e diventiamo sempre di più, noi non molleremo assolutamente no, il mondo ci osserva, la Calabria ci ha regalata tantissimo e noi non la deluderemo perché lei lo merita!

Sono figlia di emigranti Calabresi, consapevole di quanto la nostra terra sia amata a l’estero, voglio fare in modo che quando loro parlano della loro amatissima Calabria, le lacrime che si accumulano nei loro occhi saranno lacrime di gioia, non più di tristezza, che quella terra che loro hanno dovuto lasciare a malincuore sia un Orgoglio, che i Calabresi che hanno avuto la fortuna di rimanere a casa loro finalmente capiscano il grande valore che ha la loro regione. Una regione che in tantissimi ci invidiano, una regione completa a 360 gradi, una regione che ci chiede soltanto di essere finalmente Amata e Rispettata, questo è il mio augurio. Io Maria giuro solennemente che insieme ai miei cavalieri non la abbandoneremo mai più!

San Valentino ha un “collega” nel proteggere gli innamorati!

Ebbene sì, San Valentino ha un “collega” nel proteggere gli innamorati: il suo nome è Sargis o Sarkis ed è  il santo più venerato dal popolo armeno. A dire il vero San Sargis o Sarkis non è solo protettore degli innamorati nella tradizione del culto armeno ma è anche protettore dei giovani, probabilmente per la naturale tendenza a legare alla stagione dell’amore quella della giovinezza e viceversa.
Ricostruire  il percorso storico tradizionale del culto e della tradizione, che affondano nei secoli più antichi, è impresa non facile, nonostante Wikipedia e Google o altri motori di ricerca: il punto di vista armeno è quindi fondamentale per ricostruire, se non una versione davvero attendibile e suffragata della sua figura storica, almeno il valore e l’importanza del suo culto per questo popolo. Il suo culto è celebrato in un giorno a cadere tra l’11 gennaio e il 16 Febbraio.

Ma chi era San Sarkis per il culto armeno?! 

Viene considerato nativo della Cappadocia (anche se gli è attribuito anche l’epiteto di “Greco”), regione che si estende al centro dell’Anatolia, tra Turchia e Armenia, e sotto l’impero di Costantino il Grande fu un militare di altro rango e assai considerato e famoso per il suo valore. Con l’avvento al potere di Giuliano l’Apostata e le persecuzioni attuate contro i cristiani, la tradizione vuole che Sarkis con il figlio Mardiros (anche lui in seguito venerato come San Mardiros) abbandonò i territori romani per trovare rifugio in Armenia, terra indicatagli da una teofania a seguito delle sue preghiere. Ricevette così protezione presso il re Tiran (Tigrane VII). Sempre secondo la tradizione, mentre Giuliano e il suo esercito avanzavano verso Antiochia in Siria consumando per i territori conquistati stragi nelle comunità cristiane, il re Tiran/Tigrane esortò Sarkis e Mardiros a lasciare l’Armenia e dirigersi verso miglior rifugio offerto dall’Impero sassanide. La tradizione vuole che l’imperatore sassanide Sapore II (Shapur II) invitò Sarkis, Mardiros e altri 14 soldati, anche loro battezzati, a recarsi al suo palazzo e per poi invitarli lì ad offrire sacrifici in un tempio pagano dedicato a Zoroastro (Zarathustra). Si è rimarcata più volte e si rimarca anche adesso di come quanto scritto sia una tradizione e non si abbia pretesa di elevarla a storia, dal momento che non pochi hanno sollevato questioni di ordine cronologico e geografico.

Da cosa nasce il suo essere protettore degli innamorati?

Se per vigore e coraggio il “natural” quanto ovvio legame con la forza e la giovinezza può essere ritrovato tra le gesta che storia e tradizione attribuiscono a San Sarkis, il suo culto come patrono degli innamorati affonda invece le radici in un episodio particolare di cui raccontano le tradizione popolare armena. Secondo questa tradizione popolare, al rientro vittorioso dalla battaglia Sarkis e 39 sui fedeli compagni d’arme furono invitati, per un tranello ordito dal r,e a celebrare la vittoria nel palazzo reale.

Il re aveva infatti predisposto il loro assassinio grazie ad un piano per il quale aveva istruito 40 fanciulle: queste avrebbero dovuto far bere fino ad ubriacare il gruppo di valorosi per poi, quando caduti tutti in un sonno profondo perché satolli e ubriachi, uccidere ciascuna il proprio guerriero. 39 delle donne obbedito all’ ordine e uccisero i soldati, mentre uno di loro, vedendo la bellezza del volto di Sarkis, così sereno nel suo sonno, si innamorò perdutamente di Sarkis e, invece di ucciderlo, lo baciò.

Con il bacio della mancata assassina, Sarkis si destò e si rese conto dell’accaduto e del tranello. Presa con sé la ragazza, Sarkis tornò di soppiatto al suo cavallo e insieme alla fanciulla al galoppo più spedito si lanciò contro le porte della città che cedettero all’impeto del destriero e dei suoi cavalieri. Anche le forze della natura aiutarono i due fuggitivi: dietro di loro, infatti, una violenta tempesta di neve si materializzò come d’incanto, celandoli così alla vista degli inseguitori. Per questa ragione, salvato non tanto dalla sua forza quanto dall’ amore che, come un dono, arrivò proprio quando era più indifeso e in balìa di una morte ignominiosa per mano non di altro guerriero ma di una donna, egli è venerato come patrono degli innamorati che, con la forza del loro amore e sull’ esempio di San Sarkis e della fanciulla, possono divellere ogni tipo di ostacolo e barriera che si frapponga nel loro percorso d’amore verso la felicità.

Il fascino di un rito popolare;
La notte della vigilia del giorno di San Sarkis i ragazzi e le ragazze non fidanzati o non innamorati ma desiderosi di trovare l’amore, vanno in chiesa, portando con sé una fetta di focaccia salata o, più piccolo, un biscotto comunque salato dal nome “Aghi plit“: quanto portato con sé dovrà poi essere mangiato, di rientro a casa, prima di andare a dormire e senza aver bevuto acqua o altri liquidi. Perché? Perché così possa fare arsura in bocca durante la nottata il salato di quanto mangiato e stimolando così l’arrivo di chi, in questo eventuale sogno divinatorio, offrirà un bicchiere d’acqua: questo sarà il segno dell’arrivo dell’amore nella loro vita e chi porterà in sogno l’acqua sarà il loro futuro marito o moglie.


Occorre precisarlo, la Chiesa armena ne ha ormai nei secoli preso atto e con una certa simpatia lascia convivere il sacro con il profano amoroso, un po’ come da noi accade per San Valentino.

 

(FONTE: https://www.saidinitaly.it/ )

Storia e simbolismo della Tarantella; il ballo dei Greci.

Le sue origini non sono certe, ma affondano in quelle manifestazioni rituali legate alla cultura e alla civiltà della Magna Grecia. Probabilmente questa danza nasce come ritmo liberatorio e si sviluppa poi anche con alcune simbologie più “forti”, come  il corteggiamento, che ne determinano i particolari atteggiamenti coreografici. A viddaneddha è dunque il ballo reggino per antonomasia e secondo la tradizione ogni festa si conclude con musica e danza. Ne è un classico esempio la “tarantella della veglia” prima della processione di Festa Madonna a Reggio Calabria che, con la veglia notturna all’Eremo, costituisce un importante momento di festa e di attesa a ritmo di musica.

La danza della tarantella viene accompagnata tradizionalmente da alcuni strumenti caratteristici della tradizione calabrese che sono:  la zampogna, sostituita in seguito dall’organetto, il tamburello e in alcune zone si usavano la “pipita” o “frischiottu”. Una delle particolarità dei suoni della tarantella sono sicuramente le passate, cioè le melodie, che variano di località in località in località. Il nome di ogni tipo di suonata è dato dal paese di provenienza. Tra le più comuni troviamo la suonata “Cardola“, tipica del paese di Cardeto, quella “Mosorrofana” di Mosorrofa, o ancora la “Catafurota” di Cataforio e tante altre…

Il Simbolismo; è rappresentato dalla “rota” sta a significare il territorio di appartenenza: il paese o il rione; con la danza si va a conquistare tale spazio. Il simbolismo che si cela dietro i passi della danza a volte assume significati diversi. Nel primo caso viene a simboleggiare un vero e proprio duello per il predominio dello spazio delimitato dalla rota, nel secondo caso si mima il rituale del corteggiamento in cui la donna in maniera contenuta e pudica mostra civetteria che ricorda gli atteggiamenti della danza greca classica.

 

Passi della danza

Quando si balla generalmente si eseguono dei passi “puntati” che seguono cioè il ritmo del tamburello, ogni ballerino esprime la danza e la musica come meglio crede ma sempre restando all’interno di un linguaggio coreutico condiviso e di rispetto per la dama con cui sta ballando. Generalmente all’inizio del ballo i due ballerini sono a distanza, man mano l’uomo si avvicina fino ad arrivare a “chiedere le mani” alla donna, porgendogliele con il palmo verso l’alto, per il ballo intrecciato. In molte zone della Calabria si balla senza mai prendersi per mano o ballando spalla a spalla, cosa che comunque restava riservata alle coppie di coniugi o tra parenti stretti. Nel ballo uomo-uomo o donna-donna ci si poteva prendere dalle braccia. Una volta allacciata la coppia comincia a girare in senso antiorario eseguendo dei cerchi in cui la donna cerca di mantenere comunque il centro della rota. I passi fondamentali, che si basano su delle terzine, possono essere fatti anche sul posto, ma generalmente vi è un giro, un ruotare antiorario dei ballerini all’interno della “rota”. I passi sono spesso doppi e ondeggiati. il movimento del corpo dalla cintura in giù e dalla cintura in su sono indipendenti, il tronco è statico mentre le gambe sono freneticamente in movimento. Un passo particolare è il soprappasso o “intricciata” dove appunto i passi vengono intrecciati battendo un piede all’esterno dell’altro in maniera alternativa. Un altro passo è il passo “illi adornu” che si esegue quando si è al bordo del cerchio mimando il volo di un uccello che cerca di incantare la preda per poi ghermirla e dirigendo a spirale con l’intento di portare l’altro ballerino verso il centro della “rota”. Se l’avversario cede andrà verso il centro e verrà sostituito dal Mastro di ballo, in caso contrario potrebbe eseguire il passo: “tagghjapassu” (tagliapasso) cercando di interrompere il percorso a spirale. Il tagghjapassu è usato dalla donna per sfuggire al corteggiamento dell’astante. Quest’ultimo passo può portare alla “schermijata” ovvero il mimo con l’indice ed il medio della mano di un coltello che viene puntato prima contro l’astante e poi verso il cielo e da quel momento si mimano fendenti e affondi.

La donna può usare un foulard da agitare davanti all’avversario come sfida, mentre l’uomo per mostrare le sue capacità con i suoi passi per conquistarla e riuscire come simbolo di successo a scompigliarle i capelli (scapigghjarla), a toccarle il viso (nzigarla) o a prenderle il foulard (n’nnopiarla).

Le braccia assumono diverse posizioni a seconda se uomo o donna: l’uomo tenderà a sollevarle e muoverle maggiormente, fino -nella danza uomo-uomo ad assumere l’atteggiamento di una sfida-lotta con il coltello, mentre la donna generalmente non le solleva mai oltre la spalla muovendole leggermente, o le tiene poggiate sui fianchi con i palmi rivolti verso l’esterno simboleggiando un’anfora greca che mette in risalto i fianchi ed i seni.

 

‘u mastr’i ballu: una persona di rispetto che detta le regole della “rota”, seguite con rispetto da tutt’i partecipanti alla danza. E’ lui che dirige la tarantella. E’ lui che invita i ballerini a ballare. E’ lui che  forma le coppie e le separa; organizza, dirige e porta avanti il ballo, dando indicazioni che vanno oltre la danza in se stessa… Nessuno degli invitati al ballo, uomo o donna che sia, può rifiutare l’invito a ballare! E’ lui  che crea la cosiddetta “rota”, la quale, per quella circostanza e in quel luogo, dovrà es-sere una e una sola: in nessun caso, infatti, possono esserci due o più “mastri di ballu”.

La ruota è uno spazio circolare dentro cui si svolge la danza.

Nel passato la “rota” era il luogo dentro sui si creavano rapporti sociali particolari e momentanei che, alla fine ces-savano, si rafforzavano o potevano anche degenerare. – Facimu rota! – grida il “mastro di ballo”. E tutti i partecipanti, disponendosi a cerchio, si preparano a prendere parte al ballo  – A manu girandu! – vengono chiamati ad entrare in ballo a uno alla volta, ad un cenno del “mastro di ballo”. – Evviva cu’ balla! – nella ruota in tal caso chi guarda e chi balla sono tutti sullo stesso piano.La “ruota” è un palcoscenico dove si recita anche solamente guardando o seguendo il ballo muovendosi sulle gambe oppure battendo ritmicamente le mani. I presenti non sono una platea di spettatori, ma rappresentano una sicura presa emotiva per i ballerini che volteggiano sotto gli occhi dei parenti, degli amici e di quanti di lì a poco ne rimarranno contagiati. Dentro e attorno alla ruota tutti sono attori. Chi balla e chi no, sono tutti coinvolti nello stesso ritmo, perchè si trovano lì per vivere la stessa emozione. E’ nella ruota che ‘u mastr’i ballu si muove, si destreggia, si esibisce e detta le regole del ballo. E’ nella ruota che ‘u mastr’i ballu jett’o pedi, nel senso che, bat-tendo il tacco della scarpa destra sul pavimento, indica che la tarantella sta cambiando “passata” (ripetizione o cambio del ritmo). Fora ‘u primu! Un altro giro sta, infatti, per cominciare, per cui uno dei due ballerini (il primo ad essere entrato e quindi il più stanco) deve abbandonare la ruota per lasciare il posto ad un altro. Ed ecco lì: il nuovo ballerino entra, saluta con rispetto e riverenza il mastro di ballo che si fa da parte, esita qualche istante in attesa di prendere il ritmo, volteggia attorno al compagno o alla compagna che lo attende al centro della pista, si scatena e… il resto è un vortice di delirio, lasciato alla fervida fantasia dell’organettaru. Figure caratteristiche che nascono dalla tarantella sono, com’è stato già detto, la sfida (nel ballo tra uomini) e il corteggiamento (nel ballo uomo-donna). Nella sfida si viene ad intrecciare tra i ballerini una fitta rete di sguardi, gesti, allusioni, riferimenti particolari, sempre nei limiti del reciproco rispetto e dignità dei ballerini stessi. Nel ballo di corteggiamento la sfida non esiste in quanto i ballerini si cimentano in un susseguirsi di movimenti particolari che alludono a un fraseggio d’amore. Alla coppia non è permesso alcun contatto fisico, ma soltanto è accettato il contatto con le mani. La donna, che generalmente si muove di meno, quasi sempre occupa il centro della ruota: posizione di prestigio e di rispetto. Ovviamente da un paese ad un altro cambia il significato.

DI EUGENIO BENNATO;

Il ritmo, nelle terre dell’Italia del sud, è  da sempre legato ad un ballo maledetto, un ballo ghettizzato o proibito, la tarantella, che per vivere o sopravvivere è costretta a giustificarsi come pratica di guarigione da uno stato alterato, sorta di esorcismo in musica per scacciare il demone che invasa e possiede il tarantato. Il mito della taranta, nella leggenda del ragno nero che morde e costringe al ballo, nasce cosi proprio nell’era dell’oscurantismo medievale quando le divinità pagane della Magna Grecia sono messe a tacere dai nuovi apostoli di una religione più razionale e composta, austera e castigata. Dionisio Bacco e Apollo, divinità dei riti sfrenati dal vino, della poesia e dell’eros spariscono nella nuova cultura che rinnegherà l’edonismo classico per il misticismo medievale. E così dalle feste pubbliche del dio pagano, dalla festa del dio che balla, si passa alla festa nascosta del dio che perdona, rappresentato dal suo apostolo San Paolo protettore dei tarantati nel chiuso dei cortili o nel sagrato della basilica di Galatina che al santo è dedicata e che accoglie ed assiste le vittime della taranta nella fase finale della guarigione. La storia della tarantella è dunque storia di repressione, una repressione che parte dalla cultura egemone e si abbatte sulla cultura contadina, arcaica ed ostinatamente legata alle favole e ai riti della terra e degli astri. E la cultura egemone tollera a stento i residui di un’usanza che non riesce a sradicare del tutto e nel concilio di Trento il ritmo viene bandito dalla musica come elemento demoniaco. Ma nel frattempo la tarantella seppure nel sottobosco della civiltà contadina più emarginata, continua a funzionare, a guarire e ad indurre in tentazione. E i musici popolari continuano a suonare per ore ed ore le loro percussioni e a ricreare con i flauti con le lire o con la voce le loro sensuali melodie. E quando e dove il tarantato non c’è, quegli strumenti e quelle note risuonano ancora e si diffondono per villaggi e regioni e le voci tese e i ritmi estenuanti rimbalzano da una vallata all’altra e si spargono per tutta la penisola. E le serate nei cortili delle masserie e le feste nei villaggi sono animati dalla musica della tarantella, e del ballo che ancora tarantella anche in assenza del tarantato propriamente detto. Quindi anche nei luoghi dove il tarantismo si riduce e scompare, resta la tarantella, che lentamente si modifica tramandandosi oralmente di generazione in generazione, e si evolve nella funzione ora di ballo collettivo o di coppia, ora di processione nelle feste rituali, ora di ritmo e di forma musicale e di poetica di serenate portate alla finestra della innamorata. E’ questo il nucleo vitale della musica popolare che nascostamente lancia i suoi bagliori lontano dalle feste delle corti, dai teatri e dai salotti della nobiltà e della borghesia, dove si celebra una musica di alto livello estetico fatta di geniali melodie, di grandi orchestrazioni, di mirabili costruzioni armoniche, ma del tutto priva dell’urto viscerale del ritmo e della percussione. Bisognerà aspettare il Novecento e l’apporto tribale della musica negra d’America per assistere alla diffusione degli strumenti ritmici nella musica colta occidentale. Ma nel frattempo nelle campagne dell’Italia del sud il potere della taranta continua ad alimentare gli accordi e gli accenti di una musica alternativa orgogliosa ed incontaminata.

 

Di Carmine Verduci

FONTI: da Internet

Alla scoperta degli Armeni di Calabria attraverso l’esperienza di Massimo Tamborra

Ebbene, questa settimana vogliamo indossare i panni dei nostri più affezionati compagni di viaggio, abbiamo per questo deciso di portarvi per mano in uno dei luoghi simbolo della nostro progetto KALABRIA EXPERIENCE attraverso un accurata descrizione dei luoghi e dell’esperienza vissuta attraverso uno dei nostri più cari ed affezionati fotografi che da anni ci seguono alla ricerca di luoghi fantastici nell’immediato entroterra jonico reggino.

BRUZZANO VETERE E LA VALLE DEGLI ARMENI
Di Massimo Tamborra;

Può sembrare incredibile, eppure al giorno d’oggi molti turisti abituati a visitare qualsiasi luogo della storia dell’umanità soprattutto nel nostro paese, ignorano l’esistenza in Calabria di patrimoni culturali e storici racchiusi in questa regione già ricca di sole e bella gente. Per questo la Pro-Loco di Brancaleone, da alcuni anni si batte o meglio si prodiga per valorizzare il territorio, attraverso una serie di iniziative che portano a conoscere luoghi incantati e pieni di ricchezza storica in particolare presenti nel circondario della provincia di Reggio Calabria, affinché mediante la condivisione di foto, racconti, o con i più moderni mezzi di comunicazione odierni quale può essere il social network, si possa appunto invogliare il turista o anche le persone del luogo stesso, a visitare questi posti. Il mio viaggio in questa avventura oggi ci porta nella cittadina di Bruzzano Vecchio rinominata per l’occasione “Valle degli Armeni”.

Ma perché Valle degli Armeni? Il professore Sebastiano Stranges, ricercatore storico e archeologo Calabrese, oltre che già ispettore onorario del Ministero per i beni e le attività culturali, ci spiega che il nome è stato determinato per la presenza in loco di un Castello costruito nell’antichità, si desume proprio secondo lo stile Armeno, cosi come si può evincere dalla similitudine con le costruzioni realizzate nella città rupestre di Vardzia in Georgia ai confini proprio con l’Armenia, o nella regione turca della Cappadocia. Ma chi erano gli Armeni? Gli Armeni erano stati il primo popolo Europeo ad aver accettato il Cristianesimo come religione di Stato, ma come ancora oggi accade in gran parte del mondo, anche all’epoca vi erano forti conflitti con i paesi confinanti, dovuti proprio alla diversità di credo. Non solo, ma in quel periodo dominava il cosiddetto “Zoroastrismo” ovvero una religione oltre che filosofia, molto presente in Asia, Arabia Saudita e Pakistan, basata sugli insegnamenti del profeta iraniano Zoroastro. Religione quasi tralasciata nel tempo anche a causa del rapido affermarsi a suon di spada della religione Islamica. Difatti nella terra della quale parliamo oggi, il primo deterrente per evitare di essere attaccati dai nemici di religione Islamica, fu l’allevamento di maiali neri, proprio perché i musulmani per una questione di credo religioso, reputavano il maiale un animale impuro, sporco ed esageratamente propenso al sesso, con una indole avida e ingorda, oltre a non possedere uno spirito combattivo. Pertanto i primi tempi si guardavano bene dallo stare lontano da questi animali i quali venivano posizionati al confine, proprio per sfuggire agli attacchi. Questa mossa di difesa però non durò in eterno, difatti gli Islamici dopo un po’ di tempo cominciarono ad uccidere i maiali. La storia però racconta che in Italia era ben diverso il valore esistenziale di un maiale, e quindi qualcuno dopo la carne salata e gli insaccati ottenuti appunto dai maiali uccisi dagli Islamici, utilizzo il restante realizzando un’altra pietanza culinaria a cottura lenta che divenne di diritto una preparazione tipica di questa area, e che oggi viene ben conosciuta con il nome di “frittola”. Ma facendo un passo indietro dovremmo capire anche come e perché il popolo Armeno giunse in Italia ed in particolare in Calabria. La prima cosa da sapere è che essi erano all’epoca un esercito d’elite del periodo Bizantino, e molte Regine Bizantine erano appunto di nazionalità Armena. Sia per una questione politico-religiosa, ma anche perché ammaliati dal fascino di queste donne, molti principi Siriani, Greci ed Italiani, rimasero invaghiti sposando alcune di esse, facendo si quindi che i loro popoli giungessero successivamente nel nostro paese. Proprio in questa terra, nella roccia tenera di Bruzzano Vecchio, incavarono il primo castello.

Ma la presenza degli Armeni in questa zona è ben documentata e forse definitivamente confermata dal professore Stranges, il quale rivela da ricerche svolte, che oltrepassando la fiumara che divide i confini di Bruzzano e Brancaleone, proprio in quest’ ultima cittadina sono state trovate delle chiese rupestri, in particolare una chiesa di tipo architettonico absidato, che presenta un pilastro centrale rastremato verso l’alto, dal quale si dipartono successivamente dei motivi ad albero tipici del cultura Armena. Altra conferma che questa chiesa legata al periodo che va dallo VIII al IX secolo, appunto appartenesse allo stile di questo popolo Cristiano, lo si ha dai resti di un altare in cui si osserva una croce astile sulla cui sommità presenta a sua volta altre tre piccole croci ed un graffito di pavone. In particolare il pavone presenta le due ali, una addotta e l’altra abdotta a modo d’inchino, come ad intendere riverenza avverso la stessa croce. Perché si fa riferimento a ciò? Perché nella cultura Siriaco-Armena la figura del pavone ha sempre accompagnato la croce in quanto rappresentava l’Angelo Gabriele. Continuando il viaggio, sempre con la costante e preziosa guida storica del Prof. Stranges, ci portiamo nella località denominata San Crimi (San Crini) o Judarìu (dall’ebraico Giudeo) localizzata tra il territorio del Comune di Ferruzzano e quello di Bruzzano Zeffirio.

Questa zona come ci spiega il professore, è caratterizzata dalla scoperta di una piccolissima grotta in pietra d’arenaria caratterizzata al suo interno da un particolare manufatto. Da studi eseguiti si è poi risaliti al fatto che si trattava di una tomba a tre sedute con sepoltura a putridarium (ambiente funerario solitamente ricavati sotto i monasteri, in cui venivano sepolti i cadeveri di frati o monache), che a suo tempo era protetta sicuramente da una porta delle medesime dimensioni del passaggio, deducibile dalla presenza ancora visibile degli stipiti. Ciò che rende speciale questa tomba, è appunto quello a cui facevamo riferimento all’inizio, ovvero ad un graffito di ali d’angelo il quale in senso circolare avvolge a se come a protezione, le tre sedute. Vi è stata po’ di perplessità tra gli studiosi per l’attribuzione storica della tomba, poiché questo tipo di sepoltura era sino a poco tempo fa sconosciuta. Un aiuto però viene fornito dal sapere che proprio non molto lontano da questo luogo, erano dislocati diversi conventi femminili devoti a San Francesco, e proprio uno di questi conventi successivamente attribuito a Santa Chiara si trovava in quest’aria documentata da manoscritti del 1280 d.c. che identificavano già in quel periodo questo convento come antico, quindi facendo dedurre che una data storica da attribuire a questa tomba potesse aggirarsi intorno al 1200 d.c. Il professor Sebastiano Stranges, al quale bisogna doverosamente riconoscere gran parte di quanto sto scrivendo, proprio grazie alla sua guida orale in questi luoghi, ritiene attraverso i suoi studi e le sue ricerche, di essere riuscito ad associare il graffito rinvenuto all’interno di questa tomba con la Porziuncola di Assisi (piccola chiesa situata all’interno della Basilica di Santa Maria degli Angeli), per via dell’angelo raffigurato al suo esterno le cui ali sono molto simili per manifattura a quelle viste all’interno della tomba rupestre localizzata nell’aria del Judarìu in Calabria. La nostra giornata si conclude visitando il borgo antico di Ferruzzano ubicata nella zona collinare al di sopra dell’attuale comune marittimo, a circa 470mt. s.l.m.

Un paese oserei dire fantasma, quasi totalmente abbandonato se non fosse per la presenza di sole sette famiglie, con molte case divenute ormai fatiscenti liberamente accessibili, e quindi potenzialmente pericolose per la sicurezza dei curiosi e dei turisti, devastate dai terremoti del 1783 e oltre 100 anni più tardi, del 1907. Un luogo incredibile tra panorami mozzafiato sulla costa Jonica spaziando con lo sguardo da Africo nuovo e la marina di Bruzzano, nonché l’immortalità delle viuzze (vinelle) con alcuni anfratti che presentano oggetti di vita vissuta, frantoi, tinozze, sedie a dondolo, bici d’infanti, lasciate li come se qualcuno prima o poi dovesse ritornare in quel luogo. Proprio i resti di antiche costruzioni che come detto sono in gran parte cadenti, diventano patrimonio storico di questa area, grazie anche ad interessanti portali in granito e parti di edifici di un certo interesse risalente ai secoli XVI e XVII.

 

SI RINGRAZIA PER LA MAGNIFICA GIORNATA LA PRO LOCO DI BRANCALEONE PER L’IMPEGNO PROFUSO CON TUTTI I SUOI COLLABORATORI, E SENZA OMBRA DI DUBBIO ALLA MENTE STORICA CHE CI HA ACCOMPAGNATO RAPPRESENTANDO LE SUE SCOPERTE, IN UN POSTO PIENO DI FASCINO DA VIVERE SE VOGLIAMO ANCHE IN SILENZIO, IL PROFESSORE SEBASTIANO STRANGES.

 

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Il Progetto “La Via dei Borghi”; un anno da incorniciare!

Il progetto nato dalla sinergia tra le associazioni Kalabria Experience e Il Giardino di Morgana si è articolato in un calendario di otto escursioni suddivise in due gruppi intervallati dal periodo estivo e finalizzato a permettere una fruizione dei borghi in periodi di scarsa affluenza turistica.
Il progetto si articolato su più tappe, precisamente nell’area pedemontana e collinare dell’Aspromonte orientale, ed ha permesso una destagionalizzazione del flusso turistico attraverso una fruizione del territorio con un approccio eco-sostenibile ed esperienziale che è piaciuto ed ha fatto breccia sui giovani Calabresi.

Motta San Giovanni (RC), Gallicianò e Amendolea (RC), Brancaleone Vetus, Staiti e Bruzzano Vetere (RC), Bova (RC), Placanica (RC), Sant’Agata del Bianco (RC), Bovalino Superiore e Condojanni (RC), Mammola e Musaba (RC)  qui riassunti in queste foto ricordo.

Il turismo lento e la comprensione dei luoghi permettono una maggiore conoscenza nel territorio di residenza (nel caso di residenti) o di destinazione (nel caso di non residenti) nei fruitori del progetto, che indirettamente diventano “ambasciatori del territorio” attraverso varie forme di marketing, come ad esempio la condivisione di foto e video sui social network dei luoghi visitati opportunamente incentivati dagli stessi organizzatori Kalabria Experience e Il Giardino di Morgana.

Sono state queste le premesse che hanno portato il progetto La Via dei Borghi a diventare uno degli appuntamenti più seguiti della Calabria in questo 2018, con un ottima partecipazione registrata anche da provincie come Cosenza, Catanzaro e Vibo Valentia. Il tutto promosso attraverso i social-network che hanno dato visibilità al patrimonio storico-culturale ed archeologico di cui la fascia ionica reggina è ricca. Sono luoghi poco conosciuti dal turismo di massa, perché poco incentivati dalle politiche locali e dall’ indotto turistico in genere, che predilige altri luoghi più in voga . Il progetto mira sostanzialmente a dar vita ad un nuova concezione di territorio basato principalmente sull’ ascolto dei luoghi e sull’ apporto umano dei visitatori che giungono talvolta anche dallo stesso territorio di appartenenza, ma che in un certo senso ne escludono caratteristiche e peculiarità.

Con questo progetto abbiamo dato vita a nuovi importanti collaborazioni, abbiamo conosciuto Associazioni che come noi si spendono e si adoperano alla promozione dei borghi.Un’idea nata quasi per caso, nell’ Agosto 2017 – ci svelano gli organizzatori Domenico Guarna e Carmine Verduci- che ha avuto un periodo di gestazione lento e ponderato sulla base degli obbiettivi che volevamo raggiungere. Ancora oggi riguardando i nostri archivi fotografici e proviamo grande emozione nel vedere tanti giovani che hanno intrapreso un cammino esperienziale con noi e che assieme a noi si sono adoperati  alla promozione di quanto hanno visto e vissuto. Sono tanti i luoghi visitati e fatti conoscere ai Calabresi in questo anno trascorso, fatto di grandi risultati, in un escalation di successi che hanno movimentato l’intero territorio. La Via dei Borghi è riuscita nel suo intento a coinvolgere  tante le associazioni e amministrazioni, dando prova delle buone pratiche per il rilancio turistico e identitario di questa terra. Riteniamo opportuno ribadire la nostra apertura al territorio e alle Associazioni che operano fattivamente. Abbiamo ricevuto tantissimi inviti da parte di altri Enti e Associazioni da ogni provincia Calabrese ed è davvero difficile scegliere tra tanti luoghi bellissimi come i nostri borghi calabresi. Quello che possiamo dire è che di sicuro il progetto vuole continuare il suo cammino anche il prossimo, ancora più carico di energia, ancora più ricco di avventure e scoperte.  Luoghi che hanno bisogno di essere raccontati nella loro autentica immagine, non più intesi come destinazioni di serie C, ma proiettati nel futuro e soprattutto al nuovo turismo internazionale che avanza, e la Calabria  dovrà trovarsi pronta con le sue proposte. Siamo consapevoli che la strada è ancora lunga e difficoltosa in questo senso, ma l’amore vince su tutto e la voglia di cambiare le sorti di una terra martoriata da anni di cattiva interpretazione è tanta, come tanti sono i borghi pronti ad incantarci con i loro scorci, le loro storie e i loro personaggi. Al Momento stiamo lavorando per impostare un programma 2019  altrettanto interessante, sarà sicuramente un ulteriore prova del il nostro operato, che intende crescere ancor più in qualità e contenuti.

Due Associazioni; Kalabria Experience e Il Giardino di Morgana che sono riuscite ad unire i propri ideali in un unico intento comune, che è diventata una vera e propria missione di vita, per le due Associazioni supportata da importanti riconoscimenti come il Consiglio Regionale della Calabria, La Città Metropolitana di Reggio Calabria e vari partners che hanno creduto nel progetto, ritenendolo di grande prestigio per il territorio Calabrese.

 

A cura di Anna Barisano

 

 

Le spettacolari immagini di Etna in piena attività, dalla costa Ionica Calabrese.

L’eruzione del monte Etna in Sicilia da spettacolo, provoca anche disastri, ma d’altronde gli abitanti della vicina sicilia sanno conviverci.

Anche se questo straordinario vulcano ha sede nella terra di sicilia, in un certo senso anche i Reggini (sul lato jonico) convivono con questa presenza inquieta ed affascinante allo stesso tempo, che a volte da spettacolo di se in tutte le sue svariate forme.

L’eruzione di Natale 2018 (come verrà ricordata) è stata davvero incredibile, una nuova bocca si è aperta sul cratere di Nord-Est la mattina del 24 Dicembre ed ha cominciato a sputare cenere vulcanica in cielo, tanto da regalarci straordinari tramonti che abbiamo ampiamente documentato grazie agli utenti del web che hanno postato delle foto davvero belle VEDI QUI 

Anche stavolta le straordinarie immagini del vulcano che continua a “fumare” dal giorno di Natale, non smettono di incantare la costa jonica e gli utenti del web, ci regalano ogni giorno straordinarie immagini che stanno facendo il giro del mondo.

Il vulcano Etna o Mongibello è uno dei “monumenti naturali” che caratterizzano lo stretto, e caratterizza il paesaggio del basso-jonio che va da Scilla a Palizzi Marina, sia che si tratti dell’innevamento, sia che si tratti di un attività eruttiva l’immagine dell’Etna è sempre una delle figure più fotografate ed amate nel mondo!

Ecco alcuni dei meravigliosi scatti di questi giorni di attività del vulcano:

Il nome Etna potrebbe risalire alla pronuncia del greco antico del toponimo Aitna (Aἴτνα-ας), nome che fu anche attribuito alle città di Catania e Inessa, che deriva dalla parola greca aitho (bruciare) o dalla parola fenicia attano (fornace). L’Etna era conosciuto nell’età romana come Aetna. Gli Arabi si riferivano ad essa come la montagna Jabal al-burkān o Jabal Aṭma Ṣiqilliyya (“vulcano” o “montagna somma della Sicilia”); questo nome fu più tardi mutato in Mons Gibel cioè: la montagna due volte (dal latino mons “monte” e dall’arabo Jebel (جبل) “monte”) proprio per indicarne la sua maestosità. Il termine Mongibello rimase di uso comune praticamente fin quasi ai nostri giorni (ancora oggi qualche anziano chiama l’Etna in questa maniera). Secondo un’altra teoria il nome Mongibello deriva da Mulciber (qui ignem mulcet), uno degli epiteti con cui veniva chiamato, dai latini, il dio Vulcano, che serviva a placare la forza distruttiva dell’Etna. Le popolazioni etnee, per indicare l’Etna, usano  il termine ‘a muntagna, semplicemente nel suo significato di montagna per antonomasia.

Oggi il nome Mongibello indica la parte sommitale dell’Etna; l’area dei due crateri centrali, nonché i crateri sud-est e nord-est.

 

 

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