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Il borgo Medievale di San Giorgio Morgeto; nel mito, nella storia e nella bellezza

Tra i borghi più interessanti e caratteristici dell’entroterra Calabrese in provincia di Reggio Calabria vi è sicuramente San Giorgio Morgeto, lo abbiamo percorso tante volte, e siamo rimasti colpiti dalla sua straordinaria bellezza. Soprattutto per il ricco patrimonio Storico, Archeologico e Gastronomico. Un borgo da vivere, da riscoprire attraverso le sue vie antiche, i suoi palazzi, i suoi monumenti, la sua gente..

Le origini di San Giorgio Morgeto;

Plinio, Strabone e Proclo, narrano del popolo italico dei Morgeti; essi, secondo alcune ricostruzioni, avrebbero costruito una fortificazione attorno alla quale sarebbe sorto il primo insediamento. La leggenda colloca tale evento nell’anno 2349 a.C. e lo descrive quale opera del Re Morgete, figlio del Re Italo, della stirpe degli Enotri. Si narra, che il primo abitante della Calabria sarebbe stato Aschenez, nipote di Jafet, figlio di Noè. Circa 850 anni prima della guerra di Troia, Enotrio e Paucezio avrebbero sconfitto gli Aschenazi scacciandoli dalla Calabria. Enotrio avrebbe regnato 71 anni lasciando come erede il figlio Enotrio-Italo, il cui regno sarebbe durato 50 anni e che avrebbe avuto come successore Morgete, il quale, per la consuetudine dei suoi predecessori, avrebbe cambiato il nome dell’Italia in quello di Morgezia. Fu in suo onore che venne fondata Morgeto dove egli veniva adorato come un Dio. Nel IX secolo, la diaspora dei monaci bizantini, interessò anche il territorio di Morgetum e ne influenzò l’attività economica, culturale e religiosa. Essi edificarono un monastero dedicato a San Giorgio di Cappadocia ed una chiesa consacrata a Santa Maria dell’Odigitria o di Toxadura, che divennero un punto di riferimento per l’intero territorio e per le genti che vi abitavano. Come riporta San Nilo, quando vi furono le incursioni dei Saraceni che distrussero i centri della Vallis  Salinarum e vi portarono la peste, Morgetum e il suo monastero non subirono alcun danno, anzi accolsero una parte dei profughi di Taureana. I monaci, la cui presenza era volta a convertire al cristianesimo gli abitanti (che veneravano il Re Morgete quale dio), attribuirono l’incolumità alla protezione di San Giorgio e nel 1075 il nome Morgetum venne modificato in San Giorgio.

Oggi San Giorgio è un paesino collinare di poco più di 3.000 abitanti, inserito in un contesto naturalistico e culturale che vanta una moltitudine di siti di interesse facilmente raggiungibili grazie all’ ubicazione geografica ben collegata sia dal versante ionico e sia dal versante tirrenico.

Il sito archeologico di Altano;

Non lontano dall’attuale San Giorgio Morgeto,  sul piano di Casciano o Casignano, in località Sant’ Eusebio, emergono ancora i resti di una cinta muraria e torri circolari che inducono a pensare alle origini della città di Altanum o Casignano. Controverse sono le ipotesi sulle origini di questo insediamento. Storici e antropologi hanno però studiato i reperti rinvenuti dai molteplici scavi, ipotizzando differenti versioni. Dagli studi classici risulta che, nel periodo del dominio locrese, il castello di Morgetum era in rapporto con altre due postazioni militari: Templum Musarum (l’odierna Cinquefrondi) ed Altanum che, quale avamposto locrese, subì  in varie epoche diverse incursioni. La devastazione ed il saccheggio della città fu per opera di Totila, il quale, dopo averla rasa al suolo le volle cambiare significativamente il nome in “Casegghianum”, da cui appunto derivò il toponimo “Casignano”. Nel XV secolo Casignano rientrava tra i casali della baronia di San Giorgio. Nell’800 Altanum era già oggetto dell’interesse degli archeologi,  ma nel 1921 il grande archeologo  Paolo Orsi incaricò De Cristo di dirigere gli scavi che portarono alla luce i resti di due cisterne, monete in bronzo, materiale ceramico e frammenti di ossa. Tra le diverse letture del sito, quella del Prof. Domenico Minuto, ipotizza che Altanum fosse una fortificazione bizantina, dell’età Giustinianea, molto probabilmente utilizzata come avamposto militare durante il conflitto con i Goti e Longobardi.Testi antichi fanno risalire Altanum o Casignano come luogo che diede i natali a Sant’Eusebio Papa.

“Era la Città Altano nelle pendici dell’Apennino, in un colle molto ameno, verso l’Ostro, nel sinistro lato di S. Giorgio, distante però da lui per ispatio di tre miglia in circa, dove insino ad hoggi si veggono le reliquie dell’antiche mura…”  (Girolamo Marafioti, 1601)

Il Convento dei Padri Domenicani;

Tra i più grandi conventi della Calabria, le sue fabbriche sono veramente grandiose e degne di una grande città. A volerlo è stato Battista Caracciolo conte di Gerace e signore di San Giorgio. Venne completato nel 1473 annesso alla chiesa di santa Maria Annunziata edificata dal fratello Giovanni Caracciolo nel 1393. Purtroppo parte dell’edificio crollò nel terremoto del 1783. Fu un centro di grande cultura e scuola per i novizi. Tra le sue mura vissero Fra Tommaso Campanella, il santo vescovo Piromalli e il Vescovo di Gerace Domenico Diez de Aux.

La chiesa dell’Annunziata;

E’ una delle più imponenti, eleganti chiese conventuali della Calabria. La prima fabbrica risale al 1393 ad opera dei Baroni Caracciolo di San Giorgio. Nel 1499 la chiesa venne restaurata, ma crollò a causa del terremoto del 1783. Venne poi ricostruita nel 1815 e ampliata così come si presenta oggi: con un portale imponente in granito, con al centro lo stemma della famiglia Milano. L’edificio al suo interno si presenta ad unica navata con otto cappelle laterali (quattro per lato) racchiuse da arcate dedicate ai santi domenicani. Tra le statue in legno spicca il gruppo dell’Annunciazione ad opera di Vincenzo Scrivo, posto sopra l’Altare maggiore del XVIII secolo; due statue lignee dei San Cosma e Damiano(forse della bottega dei Morani), la statua di San Domenico, San Ciro e la settecentesca effigie della Madonna del Rosario portata in processione il venerdì Santo nella tradizionale “affruntata” di Pasqua.

La chiesa di Sant’Antonio di Padova;

Fu fondata nel 1693 annessa al monastero Basiliano, venne distrutta dal terribile terremoto del 1783,  fu poi ricostruita dal Cav. Giovan Francesco Ammendolea, alla cui nobile famiglia è stato devoluto lo Jus Patronato. Sull’altare è posta la scultura lignea di Sant’Antonio di Padova (opera settecentesca) realizzata dallo scultore campano Gennaro D’Amore, voluta dal Marchese Giovanni Domenico Milano. La statua fu poi restaurata malamente nel 1983. Durante un recente restauro, nella piccola chiesetta sono riemerse le cripte gentilizie che si pensa fossero ad uso dalla famiglia Celano o forse dagli stessi monaci del monastero. 

La chiesa del Carmine;

Dedicata alla Madonna del Carmelo è annessa al Palazzo Ambesi. Sorge sul sito dell’antico Monastero dei Padri Carmelitani. Esternamente la chiesa presenta un frontone spezzato. Il portale d’ingresso è sormontato da un ampio finestrone, al suo interno si apre un’ampia navata con al centro l’altare su cui tabernacolo è collocala una pregiata tela seicentesca.

L’arco di San Giacomo;

Nel lato sud-est del Palazzo Milano possiamo ammirare l’elegante Arco Palatino in granito che ci immette alla Chiesa dedicata a San Giacomo fatta costruire nell’ultimo decennio del ‘500 dal Marchese Giacomo Milano

Il Passetto del Re “il vicolo più stretto d’Italia”;

Si tratta di un particolare vicolo largo appena 40 cm; e vanta un bellissimo primato che lo colloca sul podio del “vicolo più stretto d’Italia” si trova nelle vicinanze del castello ed è legato a una leggenda popolare. Durante le invasioni questo stretto passaggio costituiva una via di fuga per il Re Morgete, per poi far disperdere le sue tracce nei dedalo di vicoli dell’abitato di San Giorgio. Una via di fuga per la salvezza!? Forse per questo motivo, secondo la tradizione, percorrere il “Passetto del Re” è un atto che porta fortuna.

La Fontana Maggiore;

Nella Piazza principale di San Giorgio Morgeto spicca la monumentale Fontana Maggiore, Fontana Grande o detta anche “Fontana Bellissima” posta dinanzi al prospetto principale di Palazzo Milano, costituiva all’epoca un preziosissimo ornamento proprio all’interno dei giardini del Palazzo (oggi Piazza dei Morgeti) Potremmo definirla la più bella fontana pubblica della Calabria, fatta costruire dal Marchese Giovanni Milano II nel 1664. E’ realizzata in granito locale, si compone di quattro gradini alla base di forma ottagonale e si sviluppa su tre vasche sovrapposte degradanti, al cui vertice si erge una statua marmorea della Venere. La vasca alla base originariamente possedeva quattro cigni scolpiti in granito (andati purtroppo perduti) da essa sgorga un’acqua sorgiva dalle caratteristiche chimico organolettiche importanti, così come tutte le fontane del borgo di San Giorgio Morgeto a cui si attribuiscono ottimi effetti benefici .

 I Baghari

San Giorgio Morgeto è anche ricca di vicoli e vicoletti davvero caratteristici, come non perdersi tra queste viuzze strette, ma che spesso varcano i Palazzi nobiliari attraverso imponenti e maestosi archi. Vengono chiamati in dialetto locale “Baghari”. Sul Corso Giacomo Oliva, proprio nei pressi della Piazzetta dedicata a Francesco Florimo con il busto bronzeo, vi è l’accesso a Via Pasqua caratterizzata da un Bagharo che presenta una originale curiosità. Inserite tra le pareti di destra e a sinistra piccole nicchie con scolatoio, lasciano presupporre si trattino di latrine pubbliche, sicuramente di dubbia costruzione e collocazione storica, ma di sicuro è una delle particolarità che rende San Giorgio Morgeto ancora più ricco di storia, vita e vicissitudini che dall’alto medioevo hanno lasciato a questo borgo quel fascino intrigante ma al tempo stesso misterioso.

Le Dimore Storiche e Palazzi nobiliari;

San Giorgio Morgeto è ricca di prestigiosi e antichi Palazzi storici come non rimanere incantati di fronte alla maestosità di Palazzo Ammendolea-Florimo, all’interno del quale ebbe i suoi natali il famoso musicista Francesco Florimo, e poi ancora il Palazzo Fazzari proprio accanto alla chiesa dell’Annunziata di fabrica settecentesca, famoso per il suo prestigioso e ben conservato chiostro, da cui si accede attraverso un maestoso portale bugnato realizzato in pietra locale, che ormai è diventata la location preferita per gli sposi. Poi ancora; Palazzo Oliva e Palazzo Ambesi, situati lungo le vie del centro storico; Palazzo Milano, sede della famiglia feudataria che detenne il territorio di San Giorgio dal 1568 fino al sovvertimento del periodo feudale.

 La Scala Beffarda e la leggenda di Fata Morgana;

Non molto distante dalla chiesa dell’Assunta, si giunge in una delle particolarità urbanistiche medievali di San Giorgio Morgeto; Conosciuta con il nome Scala Beffarda essa è un particolare esempio di scalinata sfalsata e davvero singolare. Per la sua caratteristica unica nel suo genere, numerose leggende aleggiano attorno a questa scalinata che spesso sembra di percepire attraverso gli spifferi d’aria che tra gli stretti vicoli narrano storie e leggende incredibili.

Una delle leggende legate alla Scala narra che fata Morgana, sorellastra malvagia di Re Artù (il cui spirito aleggia da secoli tra Calabria e Sicilia e nei dintorni dello Stretto di Messina) avesse sottratto ad Artù il fodero di Excalibur “la Spada nella Roccia”, che aveva il potere di proteggerlo in battaglia. Nascose questo ai piedi dell’imponente maniero, certa che Artù sarebbe venuto a cercarlo per salvare la sua vita e continuare a lottare per l’affermazione di giustizia e verità. E così accadde, il cavaliere ivi sopraggiunto interrogò Morgana, che maestra in inganni e illusioni rispose “cercalo nel paese dei mille vicoli, laddove una gradinata si farà beffa di te”,  Artù, per preservare l’onore (che valeva più che salvar la vita), rinunziò e fece ritorno a Salsbury privo del suo fodero, consapevole del suo fatale destino, ove poi perì lottando contro Mordred (figlio della stessa Morgana). Si narra che talvolta nel vento ancora riecheggi la beffarda risata, che solo gli animi eletti dei viandanti dal cuor puro e leale riescono a udire e dalla quale sanno di dover rifuggire.

La chiesa parrocchiale dell’Assunta

La chiesa dell’Assunta di fondazione seicentesca è posta al centro del paese, fu ricostruita e rimaneggiata più volte. La struttura attuale della chiesa, risale al 1933 quando è stata nuovamente rifatta in stile romanico, con il campanile ed orologio annesso.  Ha origini antichissime, probabilmente essa apparteneva all’ Arcivescovato di Altano. Secondo fonti storiche questa chiesa venne eretta sin dai tempi degli Apostoli, quando  San Pietro e San Paolo vennero nelle Calabrie e per mezzo di vescovi da loro ordinati, diffusero la fede cristiana fra i popoli. Fu proprio Santo Stefano da Nicea, (primo Arcivescovo di Reggio) a convertire le popolazioni della provincia, tra cui anche i Morgeti.  Ci si accede alla chiesa attraverso un sistema di scale laterali, entrando dalla porta d’ingresso (posta ad occidente), si entra nell’unica navata che apre la visuale all’imponente altare maggiore (posto ad oriente). Il tempio  custodisce delle pregiatissime statue lignee dei compatroni San Giorgio e San Giacomo, un organo a canne di scuola napoletana e un altare maggiore in marmi policromi settecenteschi.

Di recente la Chiesa è stata interamente restaurata. I lavori iniziati nel 2011 sono stati terminati nel 2013. Sul retro parete esterna della chiesa in corrispondenza dell’abside è ancora possibile osservare la “Pietra Santa”. Ritornata alla luce nel corso degli ultimi restauri si pensa che probabilmente era un elemento che comprendeva l’antico altare della chiesa, su di essa è ancora visibile l’incisione di una croce. Probabilmente consumata dal bacio dei fedeli.

 San Giorgio, il Santo Patrono:

San Giorgio nacque in Cappadocia da genitori cristiani e visse nel III secolo, sotto l’impero di Diocleziano. Arruolato nella milizia imperiale salì al grado di Capitano. Combattè sotto una nobile bandiera, quella divina. Nella terribile persecuzione di Diocleziano animava i Cristiani perseguitati dai musulmani a ricevere con forza il martirio, a non cedere alle lusinghe dei tiranni, a professare sinceramente Gesù Cristo. Infatti nell’ iconografia tradizionale viene raffigurato con la lancia che uccide il drago, simbolo del male!

Il Castello Normanno di Re Morgete;

Il Castello sorge proprio sulla cima del colle di San Giorgio Morgeto è domina tutto il paese e le valli sottostanti. Per accedere al castello si percorre la scalinata del Monumento “Faro ai Caduti della Seconda Guerra Mondiale” (Opera dello scultore Fortunato Longo) da qui un piccolo sentiero ben delimitato da staccionate,  porta immediatamente  all’interno dell’area ove ricadono i ruderi delle mura di cinta e del Mastio che consente (ai più esperti) l’accesso al suo interno. Un scalinata esterna porta al piano superiore dove è possibile ammirare uno dei panorami più belli della la piana del Tauro;  qui la vista spazia dal Monte Sant’Elia fino a Capo Vaticano, e nelle giornate terse è possibile ammirare in lontananza le isole Eolie con lo Stromboli in primo piano. Altri tangibili resti sono le mura di cinta ed i basamenti delle torri, oltre alla grande cisterna, mentre il campo sottostante è una grande terrazza ai piedi dell’antico maniero e sede ormai di grandi eventi culturali e rievocativi che ospita concerti e manifestazioni culturali.

Miti e leggende di San Giorgio Morgeto;

Tra queste mura silenziose, riecheggiano ancora straordinarie quanto inquietanti leggende, che abbiamo appreso proprio dai racconti degli anziani del luogo, così cordiali che talvolta invitano a gradire un bicchiere di vino o perfino a sedere a tavola con loro.

La chioccia dai pulcini d’oro;

Pare che si nascondessero dietro un grande masso accanto alla fortezza e si farebbero vedere soltanto agli occhi dei semplici, solitamente a mezzogiorno esatto o nel cuore della notte. Per afferrarli sarebbe necessario adempiere un rito complesso, ma il fortunato possessore da lì a poco morirebbe. Per tale motivo i pennuti si troverebbero ancora lì, in attesa che qualche temerario osi catturarli.

L’oracolo di re Morgete;

Durante il paganesimo si consultavano gli Dei per una previsione, uno di questi Dei assunse le sembianze di “Re Morgete” un Dio dispensatore di oracoli. Questi, al lume di fiaccole o della luna piena, tra le mura del Castello poteva manifestare le sue visioni notturne da interpretare.

Le jovisse;

Anche le “Jovisse” (leggiadre figlie di Giove), potevano vedersi aggirare tra i boschi intorno alla fortezza o per le stanze dell’antico maniero, mandando in confusione chiunque li avesse incontrate.

L’Artigianato di San Giorgio Morgeto;

Tra le tante cose da visitare a San Giorgio Morgeto, sicuramente sono le numerose botteghe artigiane: Il Mastro Cestaio Aldo Mammoliti,  la bottega del vetraio Simone Surace, la bottega equo-solidale, la fabbrica dei profumi Carpentieri e le numerose Aziende agricole dell’Olio che da queste parti sono molto rinomate, come ad esempio l’Azienda Fazari, leader di un prodotto di qualità esportato in tutto il mondo, oltre alle numerose botteghe di Ebanisteria famose per la qualità dell’intaglio e delle tecniche.

Personaggi Illustri: Francesco Florimo;

Francesco Florimo nacque a San Giorgio Morgeto il 12 ottobre 1800 da Michelangelo e Mariantonia Oliva. Sin da piccolo Francesco manifestò attitudini musicali tali da far meravigliare lo zio omonimo, ottimo conoscitore di musica tanto che quest’ultimo “notava sorpreso, come il nipote potesse ripetere con precisione e all’istante la varie suonate, ch’egli intonava sul cembalo”. Questi motivi indussero i genitori e lo stesso zio a far allontanare Francesco dal paese natìo all’età di diciassette anni per iscriverlo al Conservatorio di San Sebastiano in Napoli (divenuto poi “San Pietro a Majella”). Ebbe come maestri: Tritto (contrappunto), Elia (pianoforte), Fumo (armonia), Zingarelli (composizione) ed il Crescentini (canto), applaudito esecutore di opere del Cirnarosa. Suoi compagni furono, tra gli altri: Vincenzo Bellini, Saverio Mercandante, Carlo Conti, Luigi e Federico Ricci, Michele Costa, Enrico Putrella, Giovanni Pacini, Carlo Coccia, Pietro Coppola. Circondato da sì grandi maestri e da validi compagni, Francesco Florido proseguì con profonda sensibilità nell’approfondimento degli studi musicali sino a conseguire nel 1823 il diploma di direttore d’orchestra e il diploma di abilitazione all’insegnamento del canto e del pianoforte.

Nel 1835 fu nominato Primo Direttore Artistico della Società Filarmonica di Napoli. Divenne quindi membro di molte accademie, fra cui: la Pontaiuiana, la Reale d’Archeologia e L’Archeologica, quella di Lettere e Belle Arti, tutte in Napoli; la Musicale di 8. Cecilia in Roma, le Filarmoniche di Palermo, Catania, Messina e Bologna. Prodigo verso tutti coloro che come lui desiderava divulgare le opere musicali, Francesco Florimo si fece promotore di un’accademia di studi belliniani e di diversi concorsi musicali intitolati allo stesso Bellini. Francesco Florimo fu anche maestro di canto e di pianoforte fino al 1850 e nel 1879 fu nominato direttore dei concerti vocali. La morte lo colse il 18 dicembre del 1888, a seguito di una polmonite causatasi uscendo da una festa d’arte.

L’ingegno e l’operosità di Francesco Florido furono fregiati da molte onorificenze; meritò infatti la Commenda dei SS. Maurizio e Lazzaro, la croce dell’ordine di San Michele di Baviera, la medaglia del busto di Simone Bolivar e. un anno prima di morire, la nomina a Grande Ufficiale della Corona d’Italia.

 

EVENTI DA NON PERDERE:

Ad Agosto; Festa medioevale
a Natale; Presepe vivente per le vie del borgo
a Pasqua; Affruntata del venerdì santo
23 Aprile; Festa Patronale di San Giorgio
23 Aprile; Giornata Mondiale del libro e del diritto d’autore, istituita e promossa dall’UNESCO 

Per visitare il borgo è possibile rivolgersi alla Pro Loco Morgetia che propone un ricco itinerario per gruppi, alla scoperta delle meraviglie del borgo e non solo…

SITO WEB: www.prolocomorgetia.iT  – email:  [email protected]

Tradizioni; Corajisima la pupa segnatempo dalle origini remote

Dopo le abbuffate del Martedì Grasso tra polpette e salsicce, risate e commozione, muore Carnevale, onorato con cortei funebri, roghi e altri riti ancora in uso in molti paesi calabresi. Resta il dolore della moglie di Carnevale, la vedova Corajisima che nell’immaginario popolare è rappresentata da una vecchia, alta e secca, dall’aspetto inquietante avvolta in stracci neri.

In molti centri della nostra regione, si tramanda che da mezzanotte di martedì grasso Corajìsima, comincia ad aggirarsi per le vie del paese ed è solita disporre, in un luogo appartato, dei pentoloni pieni di acqua bollente per scottare la gola di quanti non rispetteranno le privazioni del periodo quaresimale.

Dal mercoledì delle ceneri, ancora oggi, è molto facile vedere, fuori dalle abitazioni, alle finestre, ai balconi, sulle porte o sospese a un fino teso da una casa all’altra, delle rudimentali pupattole vestite con un lungo abitino nero, dalle faccine di stoffa bianca sulle quali risaltano gli occhietti neri, il naso e la bocca ricamati. Sono le corajìsime, fantocci rituali dalle origine remote, rappresentate nell’atto di filare, che reggono tra le mani il fuso e la conocchia, unite dal filo, che rappresenta lo scandire del tempo, di questi quaranta giorni di penitenza e digiuno dalle carni, comportamenti sobri e in generale privi di eccessi alimentari, un tempo osservati da tutti con un certo rigore.

Infatti molto spesso le corajisime sono addobbate con collane di castagne, uvetta, fichi secchi, o laddove le pupe sono sospese ad una corda, sulla stessa possiamo ritrovare sarde, aringhe, code di baccalà e altri simboli del magro.

Ai piedi, o sulla testa delle pupattole, a seconda delle località, viene posta un arancia selvatica o anche una patata, con conficcate sette penne di gallina. Ogni domenica che passa, se ne  strappa una.

Un tempo il più giovane della famiglia assumeva il compito di tirare l’ultima penna nel giorno del Sabato Santo, quando le campane riprendevano a suonare a festa per annunciare la resurrezione di Cristo.

In alcune località, era previsto un rito di eliminazione del fantoccio, un modo per vendicarsi con Corajisima per le sue dure privazioni. Era comune bruciare la bambola per allontanare le negatività, ma c’era anche chi la conservava per riesporla nell’anno seguente. Nell’immaginario popolare, quandu spara ‘a Gloria Pasqua scaccia via Corajisima dicendo:

Nesci tu sarda salata
ca trasu eu la ricriata.
Ma recriu sti zzideddhi
cu li beddhi cuzzupeddhi.

E’ finalmente possibile per i bambini, e non solo, consumare i desiderati dolci pasquali (come le gute, le cuzzupe ecc ) e ritornare a mangiare i cibi grassi.

 

Di Andrea Bressi

Tradizioni in Aspromonte; La Musulupara

Con il termine di musulupara si identifica nell’Aspromonte meridionale uno stampo per formaggio quaresimale chiamato musulupo. Intagliati solitamente in legno di gelso questi stampi raffigurano sovente una figura femminile, dai tratti stilizzati. I fori, spesso in corrispondenza dei seni, servivano a far defluire il siero, al momento della pressatura della cagliata sullo stampo, garantendo l’impressione, sul formaggio, dell’immagine intagliata.
Il nome di questo stampo si lega a quello del musulupo, una sorta di toma, il cui termine deriva dal dialetto calabrese, muso lupo, traduzione dell’espressione in greco bovese “to mousso tou likou” (muso di lupo).
Secondo il Rohlfs si tratterebbe di un arabismo, “maslûk” (cotto), importato in Calabria durante la dominazione musulmana della Sicilia. Sull’isola il vocabolo musulucu si riscontra ad indicare sia diversi tipi di formaggi, sia persone dall’aspetto molto magro, forse in allusione alla Quaresima.
Nell’Aspromonte meridionale, il musulupo si prepara infatti nel periodo pasquale, servendosi di due diverse tipologie di stampo che gli conferiscono ora una forma semisferica, simile ad una mammella, ora un’immagine femminile, priva di gambe e di grazia, vista la forte componente astratta che qualifica di norma gli intagli. Il formaggio si consuma fresco o rosolato a pezzetti, come ingrediente principale di una frittata, servita la mattina della vigilia di Pasqua. Fino agli anni Cinquanta del secolo scorso le musulupare erano un dono tipico del fidanzamento.
La foggia a seno della musulupara, in parallelo al colore bianco della toma, lasciano intendere possibili riferimenti alla maternità o più in generale alla fertilità della terra. Più complessa appare l’identificazione dell’immagine femminile, secondo alcuni allusiva alla Vergine, nei tratti stilizzati delle icone bizantine o delle enkolpia altomedioevali.
Interessanti collegamenti si riscontrano con la tipica rappresentazione della Quaresima, immaginata nel folklore dell’Italia meridionale come una vecchia magra, spesso raffigurata con la bocca chiusa, in segno di digiuno, e con sette piedi, ad indicare le sette settimane di Quaresima, (ogni sette giorni una gamba veniva recisa, per mostrare quante settimane di astinenza rimanevano fino a Pasqua).  
Non è quindi da escludere che il cerimoniale di distruzione della Quaresima si incarni nel consumo stesso del musulupo, secondo un rituale non dissimile dallo smembramento delle “pupazze di Bova”, manichini femminili, costruiti con foglie di ulivo, portati in processione la Domenica delle Palme.
Fonti: Pasquale. Faenza
scheda Musulupara in Cibi e pietanze del mondo antico: un viaggio tra quotidiano, rituali ed etnografia–catalogo della mostra, Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria,
(3 Ottobre -15 Dicembre 2015) a cura di R. Agostino, F. Lugli, Laruffa, Reggio Calabria, 2015, pp. 51-52.

Il Racconto di Caterina “La Festa della Madonna Annunziata” a Motticella

Ai piedi del monte Scapparrone (1058mt s.l.m.) incastonato tra le rocce del vallone Bambalona sorge, quello che un tempo è stato uno dei più bei paesini del nostro entroterra pre-aspromontano, tanto antico quanto caratteristico. Ricordiamo che “Motticella” diede i natali a Vincenzo Mollica (noto giornalista Rai), il poeta Luciano Nocera, la poetessa Caterina Zappia, e Domenico Marino (Noto Artista e Fumettista conosciuto anche come Mico Marino).

Oggi Motticella frazione di Bruzzano Zeffirio, è un piccolo borgo che sorge tra il Torrente Bruzzano ed il Torrente La Verde abitato poco più che da una manciata di persone, dove il monte Scapparone o “Scapparruni” (come viene chiamato in dialetto locale) lo veglia fin dalla notte dei tempi con la sua inquietante maestosità che sembra proteggerlo ed abbracciarlo.

Durante una delle mie visite al borgo, ho conosciuto la Sig. Caterina, che vista la mia curiosità interessata proprio alle antiche tradizioni popolari, dopo le presentazioni del caso e qualche breve discorso, non esitò ad invitarmi a casa sua. Eeh si….; la gente qui ha l’ospitalità , insita nel sangue tipica della cultura Greca, che caratterizza la gente della nostra meravigliosa Calabria, che affonda le proprie origini nei tempi più remoti, dove l’accoglienza era un valore primario nella vita quotidiana, in ogni casa e in ogni nucleo familiare. Entrai nella Casa, e sedendomi davanti al fuoco dove la legna scoppiettante scandiva gli attimi di un pomeriggio cupo ed uggioso, tipico di quelle giornate invernali, di quando lo scirocco irrompe dal mar Jonio creando un manto esteso e grigio che non lascia intravedere il cielo azzurro di queste parti. La Signora Caterina, dopo avermi offerto ogni ben di Dio, con voce rotta e nostalgica si rivolge a me ed inizia a raccontarmi:
<<Oggi ti parlerò di quella che una volta era l’icona più venerata della Vallata, e di cui ormai oggi non ci rimane che raccontare a voi giovani, quella che fino agli anni ’60 era una festa molto sentita e partecipata. Parlo della statua della Vergine Annunziata che si trova nella piccola chiesetta al centro del paese intitolata oggi a San Salvatore. Sull’altare minore giace la scultura lignea, risalente probabilmente al 1800, dai colori brillanti e dal volto materno che invaghiscono l’occhio. Ella, è raffigurata inginocchiata davanti all’angelo annunciatore, e porta in capo una corona, che nel corso degli anni è stata cambiata svariate volte dai devoti per grazia ricevuta. Alle spalle della statua c’è un arco con motivi decorativi di fiori in ferro battuto, argento e bronzo, anch’esso dono di devoti per grazia ricevuta. Per i suoi festeggiamenti la statua veniva deposta dall’altare il 24 Marzo di ogni anno, e portata in processione verso la chiesetta del Cimitero, a circa 1Km dal paese per iniziare così la novena.
L’armonia che si creava proprio in quei giorni di festa era incredibile…, sembrava trovarsi dentro una favola, i fedeli provenivano da tutti i paesi vicini: Samo, Bianco, Staiti, Africo, Casignana e perfino da Reggio Calabria. Proprio poco tempo fa, mi è capitato di parlare con un’anziana signora di Africo, che mi ha ricordato di quando proprio nei giorni di festa, partivano con l’asinello seguendo le mulattiere per venire a Motticella a gustare i maccheroni con la carne di capra, che proprio in quei giorni di festa erano presenti su ogni tavola, non sempre c’era la possibilità di mangiare carne, ma in onore della madonna in quell’occasione si ammazzava la migliore “dastra” (la capra).

La statua durante la processione veniva accompagnata dal suono di organetti e tamburelli, che per due giorni non cessavano mai di suonare.

Era ormai primavera… e la festa delle rondini in cielo, le gemme delle ginestre, davano quel tono di colore alle rocce spoglie dette da noi “Staghi”. Le ragazze indossavano la camicetta nuova per l’occasione, i profumi e i suoni dei campanacci delle greggi che pascolavano lungo la vallata, intonavano un armonia melodiosa, con le donne che cantavano lodi a Maria:

Annunziata Vergine Bella
Di Motticella sei la stella
Fra le tempeste deh guida il cuore
Di chi t’invoca, madre d’amore
Siam peccatori ma figli tuoi
Madre Annunziata prega per noi
La tua preghiera onnipotente
O dolce mamma tutta clemente
A Gesù buono deh! Tu ci guida
Accogli il cuore che ti confida!

Il 25 Marzo si diceva “Festa in cielo e festa in terra e mancu l’urceglia fannu a folia”,

intanto gli uomini proprietari terrieri del paese, al “Magazzeni” si riunivano per decidere il prezzo del grano da tenere durante l’anno, che ormai andava verso la mietitura. La sera intanto calava imminente sul paese, e la madonna doveva essere riportata nella chiesa principale, ricordo che prima del crepuscolo la statua doveva essere già sulla stradina adiacente alla chiesa, altrimenti doveva essere portata a Bruzzano! Quante volte hanno cercato di portarla via…(sospira Caterina), ma è andata sempre a finir male (ride). Durante la Processione gli uomini provenienti da ogni dove, facevano a gara per portare in spalla la “Vara”, ecco che ad ogni via si perpetrava “l’Incantu” (Incanto), che avveniva come un passaggio di consegne a staffetta, ogni gruppo di “portatori” dava in offerta alla Madonna dei beni, quali potevano essere: grano, olio, vino, insomma tutto ciò che si produceva nei campi a quel tempo, in una sorta di gara a chi offriva di più in onore e devozione alla Vergine Annunziata, che veniva così presa in spalla, e condotta per un’altra via del paese dove avveniva la stessa cosa con altri gruppi di fedeli.
Sul finire della processione, quando ormai stava arrivando la sera, gli organetti ed i tamburelli ormai allo stremo, continuavano ad aprire la strada semi buia alla Statua, che veniva accolta nella chiesa del paese e riposta così nel suo altare, dove le donne chiedevano le grazie per i loro cari, salutando e lodando la madonna con questo canto:

Bonasira vi dicu a vui Madonna
Alla ‘mbiata Vergini Maria
Mi ‘ndi ccumpagna la notti e lu jornu
Lu jornu comu jamu pe la via

E la matina bongiornu bongiornu
Siti regina di tuttu lu mundu
Supra l’artaru nc’è na gran signora
Maria di la Nnunziata ca si chjama
Iglia a cu cerca grazi si li duna
E cu ‘ndavi cori afflitti si li sana.
Nu indi ‘ndi jamu e stati felici
Ca ccumpagnati cu l’angili stati
E la madonna si vota e ndi dici:
Vajti bonasira e Santa paci…

La Festa della Madonna Annunziata , Continua la Sig. Caterina, era un simbolo di fede e devozione, infatti moltissime sono le persone che ancora oggi portano il nome di Annunziata-Annunziato, e non solo a Motticella, ma anche nei paesi vicini. Intorno agli anni ’30 il Parroco del paese “Todarello”, scriveva così in alcuni suoi versi :

In quel ginocchio di umiltà
La vita flettersi pura, onnipotente
Il core sospinge un dardo
Verso l’infinita sapienza eterna
Si l’eterno amore ,genera il Santo
L’umiltà computa veste
Il Verbo di carne e d’Alma;
un fiore in ogni cuore
santificando ogn’anima pentita.
La bella Icona ogni coscienza abbella
Su questa impervia roccia di Motticella

è così, dice la Signora Caterina tenendomi la mano, che dovrebbe essere tutti i giorni dentro di noi, con l’esempio della Madonna i nostri cuori dovrebbero inondarsi dell’ amore che lo Spirito Santo ha donato a lei. Con le parole di questa straordinaria poesia, continua la Sig. Caterina, composta proprio dal sacerdote Todarello, ognuno può interpretare a modo proprio le parole espresse, ravvivando il ricordo della Festa dell’Annunziata a Motticella, che è stata dagli anni ‘20 fino agli anni ’70, un momento di grande spiritualità, che univa Motticella alla Mamma Celeste, “La Vergine Annunziata”.

Parole, commoventi, profonde, suggestive, che attraverso il racconto della Sig. Caterina possono cogliere l’ essenza di un popolo devoto alla Madonna, che ha fondato una cultura religiosa radicata in quei valori culturali profondi e spiritualmente molto intensi, difficili da comprendersi oggi. Tutto questo tripudio di devozione e fede avveniva all’ombra del monte Scapparrone che alto ed imponente dominava e domina tutt’ora il paesino.

MOTTICELLA, ESPERIENZA AI CONFINI DEL TEMPO…

Un borgo, Motticella, ormai assonnato, vecchio, diruto, quasi morente…, che nonostante tutto riesce ancora a raccontarci tanto e forse non tutto…, a noi popolo di questo secolo immerso in quella modernità idealistica, che talvolta non ci fa comprendere il valore semplice di queste “scene di vita d’un tempo”, che rimangono dei racconti da scrivere, da far rivivere attraverso la semplicità di un racconto.

Motticella è un piccolo borgo abitato da 155 anime frazione di Bruzzano Zeffirio (RC). Sorge ad un’altezza di 120mt, ai piedi del Monte Scapparrone (1058mt slm). La sua particolarità è appunto la sua ubicazione; a nord l’abitato si adagia sulle colline che degradano dal Monte Fasoleria (Ferruzzano) e a sud le abitazioni sorgono sull’orlo dei crepacci del torrente Bampalona (come si evince dall’immagine). Un torrente ricco d’acqua tutto l’anno, che più a valle prende il nome di “Fiumara del Torno” o più comunemente “Fiumara Bruzzano”.
Conosciute per le sue proprietà e benefici sono le acque sulfuree di località “Bagni”, dove anticamente i monaci avevano costituito proprio un luogo per la cura di molte malattie e dove ancora oggi molta gente si reca a prelevare piccole quantità di acqua. I suoi fanghi dicono fossero miracolosi per la cura della pelle ma soprattutto per le malattie delle ossa, tant’è che fino agli anni ’60 anche le famose “Terme di Antonimina” usufruivano prelevando i fanghi nei pressi di questa sorgente.

Purtroppo il destino di questo paese, come molti dei paesi del’entroterra Aspromontano e pre-aspromontano è stato via via abbandonato per l’emigrazione della popolazione verso destinazioni nuove e all’estero. In particolare Motticella, è stato segnato da una brutta pagina di cronaca nera dove perirono numerose persone a causa di una faida scoppiata tra gli anni ’80-’90. Ma, nonostante tutto questo, sopravvive ancora di poche ed umili anime, dedite soprattutto all’agricoltura e alla pastorizia.

Da visitare nei dintorni;

Sicuramente la leggendaria quanto misteriosa “Rocca di San Fantino”, su cui aleggiano numerose storie e leggende, l’antico monastero di San Fantino infatti, sorge a pochi passi dalla rocca. Poi ci sono i mulini sulle sponde del torrente “Torno e Bampalona”, i caratteristici vicoli del borgo, che ancora conservano quei tratti medievali degni di nota. Più in alto, il Palazzo nobiliare (detto il Castello), la piccola e unica chiesa parrocchiale dedicata a San Salvatore (Patrono del borgo), che conserva un particolare cristo in croce realizzato in un unico blocco si legno, oltre a varie statue settecentesche e ottocentesche.
Sono molti gli scorci sulla vallata, da cui è possibile scorgere il mare. Motticella non ha negozi o ristoranti, tuttavia spesso ci si imbatte nelle persone che ancora vi abitano che sono molto cortesi ed ospitali. Vi è ancora un artigiano, che custodisce i segreti dell’intaglio su legno a mano libera.
Qui, vi è ancora l’usanza del saluto e dell’accoglienza come base principale della vita. Tutte brave persone, che spesso ti invitano a bere un bicchiere di vino o ti offrono un caffè. Insomma, Motticella è come una grande famiglia, è un posto per chi sa cogliere l’anima dei luoghi, non è nulla di preconfezionato, è una delle meglio rappresentazioni della Calabria autentica!

di Carmine Verduci

Brancaleone (RC) L’antica Torre di Galati ci svela il suo fascino

Uno scrigno di storia e biodiversità

A pochissimi chilometri dalla piccola e ridente frazione di Galati sorge una splendida torre che si erge su una piccola collinetta naturale a 190mt s.l.m., l’edificio probabilmente è stato costruito alla fine del ‘500 e rientrava nel sistema delle torri di avvistamento volute dal Regno di Napoli su tutte le coste del mediterraneo. Queste torri, oltre a svolgere la funzione di sorveglianza dei mari e in caso di attacchi pirateschi, dovevano comunicare non solo fra di loro, ma anche con l’entroterra, essendo molti i centri abitati che sorgevano nell’entroterra. La torre di Galati oltre ad avere avuto una funzione militare, ha sicuramente svolto un ruolo istituzionale sul territorio, grazie alla sua importante e strategica ubicazione (al confine tra i territori di Palizzi e Brancaleone) Fonti storiche riferiscono che tale edificio ricadeva all’interno delle proprietà del Governo.

L’itinerario

Un ottimo spunto per raggiungere la torre, è quello di approfittare dei periodi meno caldi, come la primavera e l’autunno. Per raggiungere la torre effettuando una piacevole camminata immersi nella natura, è possibile farlo direttamente dalla piccola frazione di Galati che si trova al 59°km sulla SS 106 ionica. Giunti presso il cimitero che sorge vicino alla grande arteria stradale si lascia l’auto nell’ampio parcheggio. Si prosegue a piedi seguendo una sterrata che costeggia un complesso residenziale semi-costruito. La stradina costeggia il piccolo torrente, quasi sempre in secca conosciuto come “vallone Pezzimenti” che ad un certo punto comincia a scavalcare la prima collinetta.

Giunti alla fine della salita, le praterie che si ammirano sono vastissime, in particolare nei mesi di Novembre/Dicembre questi prati profumano di Narcisi selvatici che un tempo venivano raccolti per estrarre l’olio essenziale per l’industria profumiera Francese. Si prosegue verso destra seguendo la mulattiera principale che di li ad 1km giunge presso a dei ruderi di una piccola chiesa che apparteneva ai possedimenti dei proprietari della torre, che sorgono su una piccola collinetta adiacente alla strada e posta in un crocevia. Si svolta a sinistra ed ecco che in cima alla strada irrompe la Torre, che solitaria e imponente appare allo sguardo come un edificio di modeste dimensioni. La natura qui è incontaminata, contraddistinta da appezzamenti di terreno coltivati ad ulivi e vigne.

La torre naturalmente non ha un custode e non vi si può accedere al suo interno, ma grazie alla documentazione fotografica della Pro Loco di Brancaleone è possibile ammirare i due arconi di pietra locale che sorreggono i piani superiori. Tutto intorno sorgono vecchie mura che ci danno l’impressione di unità abitative ed ambienti funzionali, quali ad esempio sul lato destro della torre, un ambiente conserva ancora le vasche dell’antico frantoio, e nella parte retrostante, fra rovi e vegetazione infestante si notano quello che un tempo erano le scuderie, necessarie alla custodia dei cavalli.

Ritornando indietro e ripercorrendo lo stesso itinerario è possibile effettuare una variante, che consiste nel completare l’escursione ad anello, non senza però stare attenti alle mulattiere che si dipanano dallo sterrata principale che riscende le colline e giunge proprio sulle sponde della fiumara Spartivento con sullo sfondo il Faro (che da queste parti è conosciuto col nome di Semaforo), si costeggiano le coltivazioni di una nota azienda agricola di Brancaleone e si mantiene sempre la sinistra della strada sterrata, che ad un certo punto compie una piccola salita dove alla fine con grande sorpresa e meraviglia si arriva alla strada asfaltata, qui si stagliano i Calanchi che offrono all’escursionista un paesaggio lunare a pochi passi dall’abitato e dal mare azzurro che fa da cornice.

Si prosegue scendendo la suddetta strada che di li a poco giunge alle abitazioni e fin verso la SS.106, per ritornare al punto di partenza si segue la direzione nord verso Taranto, attraversando la Chiesa dell’Addolorata, La bottega della frazione, il Bar caffetteria e percorrendo 500mt si giunge all’ingresso della stradina del cimitero che conclude il percorso. In alternativa si rifà il percorso fatto all’andata.

*(Fonti: Carmine Verduci- Kalabria Experience)

Fonti storiche e documentaristiche:

Nel 1626 il governo si vide costretto a mettere all’asta tutte le foreste, ma il principe di Roccella Fabrizio Carafa vantava dei diritti acquisiti sulle stesse, fu così che si arrivò a un accordo economico che prevedeva la cessione delle foreste ai Carafa. Queste proprietà nel secolo precedente appartennero alla Famiglia Marullo da Messina (Conti di Condojanni). Nel 1628 Fabrizio Carafa vendette il feudo di Galati al Magnifico Giovanni Antonio Genoese per 19.000ducati. Nel 1745 risulta che la foresta di Galati unitamente alla Torre, erano intestate al Barone Paolo Filocamo che l’aveva affidata al Dott. Michele Francesco Cafari (del casale di Staiti). In realtà il territorio di Galati era anche la destinazione finale della transumanza del bestiame che giungeva dalle serre Catanzaresi, inoltre nella Torre e negli edifici annessi trovavano ricovero i pastori che conducevano le greggi. Nel 1779 il pastore di Fabrizia Giovanni Monteleone, fece testamento proprio all’interno della “Torre di Galati”, il cui territorio nello stesso atto testamentario viene chiamato “Villa di Galati”. Nel 1800 la Torre ed i suoi possedimenti erano di proprietà della famiglia Retez che furono tra gli ultimi ereditari. Intorno ai primi anni del 2000 la torre in avanzato stato di abbandono venne restaurata, grazie a dei fondi europei e l’interessamento della Regione Calabria, Mibact e Comune di Brancaleone. Si evince che l’intera area della torre aveva non solo ambienti ad uso abitativo, ma anche ambienti come il frantoio, le scuderie ed altri ambienti di servizio che servivano probabilmente a dare stallo ai viandanti, pastori ecc… Ma si hanno notizie che almeno fino agli anni ’50 questa torre fu utilizzata non solo come deposito, ma anche come ricovero di fortuna per gli abitanti dell’omonima Galati.

* (Fonti: Carmine Laganà, Vincenzo De Angelis, Carmine Verduci)

CURIOSITA’

Il toponimo “GALATI” deriverebbe dall’arabo Qualat, ma è un’ipotesi alquanto surreale, se consideriamo che la costa orientale calabrese sia stata caratterizzata da influenze non solo di popolazioni di passaggio ma anche caratteri linguistici che hanno lasciato parecchie forme di derivazione greca dell’onomastica e toponomastica delle nostre zone. Quindi volendo inseguire anche la tesi più accreditabile del nome GALATI potremmo sicuramente dire che derivi dalla lingua greca, ovvero: GALA= Latte. Tesi che trova riscontro proprio con l’ubicazione del luogo che si trova in una porzione di territorio caratterizzato dalla presenza di marne bianchissime che durante le stagioni secche, appena dopo una eccezionale precipitazione abbondante e in condizioni di mare calmo, si riversa in mare l’acqua bianchissima nell’azzurro ionio, fenomeno che crea lunghe strisce bianche sul mare, dando appunto l’impressione del latte. Tesi poetica, ma più verosimile.

Sappiamo come nel periodo Mago-Greco i confini tra Locri e Reggio furono ridisegnati più volte,a distinguere questi confini erano spesso le fiumare, infatti tutta l’area intorno alla torre ed a questi territori è costellata da reperti archeologici come confermano indagini archeologiche condotte dal Prof. D. Cordiano dell’Università di Siena nel 2016, i rilevamenti archeologici e scientifici hanno indagato le località Stracozzara, Monumenti e Cafuni ed i territori tra Brancaleone e Palizzi pubblicati nel saggio: “Carta archeologica del litorale ionico aspro montano” Comuni di Palizzi – Brancaleone – Staiti e d’intorni

*(Fonti: Isidoro Bonfà, Sebastiano Stranges)

 

Sulle orme dei Bizantini, nella Vallata degli Armeni

“La storia della Calabria è una storia fatta di numerosi popoli che si sono succeduti ed hanno lasciato segni indelebili del loro passaggio in questa regione. Dai Greci ai Bizantini e dagli Armeni agli Ebrei. 

Il nostro viaggio ripropone un’esperienza a cavallo dell’ VI ed il IX secolo, quando dall’oriente giunsero religiosi provenienti dall’Armenia e dalla Cappadocia, fuggiti sotto l’incalzare delle conquiste musulmane prima e delle persecuzioni iconoclaste dopo,  per giungere  in queste terre, ricche anfratti naturali e luoghi sicuri dove fu facile condurre una vita ascetica in totale solitudine ed armonia con la natura.

Proprio da queste “rocce rosse lunari” (per citare il noto scrittore Piemontese Cesare Pavese) che a Brancaleone (RC) trascorse il suo confino politico tra l’Agosto del 1935 e Marzo del 1936 partirà il nostro viaggio, alla ricerca di quei lasciti che fanno di questo piccolo lembo di territorio, inserito nell’Area Grecanica Calabrese, un itinerario ricco di storia, fascino e mistero, alla scoperta del mondo Armeno e della spiritualità ancora palpabile e percepibile nei luoghi e nei borghi che costellano quest’area.

1- Il nostro itinerario partirà da Brancaleone Vetus un borgo ormai abbandonato ma ancora ricco di testimonianze del passaggio degli Armeni Bizantini che si insediarono all’interno di cavità naturali costituendo talvolta anche delle chiese-grotte di notevole importanza.

Brancaleone Vetus anticamente chiamata  Sperilnga o Sperolonga  dal greco Spelugx che significa: Grotta-Caverna- Spelonca,  sorge su un colle a 300mt s.l.m., le cui origini sono antichissime. Recenti studi e ricerche affermano la presenza degli Armeni nel VIII-IX  sec. d.C. di particolare pregio e interesse vi è la chiesa grotta dell’”Albero della vita” dalle caratteristiche identiche alle chiese-grotte dell’antica Armenia e Cappadocia. Sulla piazza principale del borgo si possono ammirare ancora i silos-granai, poi nella parte bassa del paesino, insiste un’altra chicca costituita dalla  grotta della “Madonna del riposo” che custodisce ancora affreschi seicenteschi e case ingrottate  prospicienti alla chiesa nuova dell’Annunziata datata 1935-36 che oggi custodisce un “centro documentazioni” di grande pregio. Sarà qui che sul finire della visita esperienziale, il panorama offerto dal contesto condurrà i nostri sensi e papille gustative verso il fantastico mondo del Bergamotto, considerato “l’oro verde della Calabria” dalle proprietà benefiche miracolose,  che oggi costituisce una risorsa delle aziende agricole del territorio che hanno riqualificato i terreni incolti su cui un tempo fiorivano i gelsomini, ma questa sarà un’altra storia da conoscere e scoprire.

2- Il viaggio proseguirà riscendendo a valle, dove raggiungeremo Rocca degli Armeni o Rocca Armenia sita nel territorio di Bruzzano Zeffiro (RC), dove poter ammirare uno dei pochi castelli del territorio pre-Aspromontano della Calabria Ionica ricavati nella roccia, che costituì nei secoli un regno florido per Principi, Marchesi e nobili Calabresi che qui costituirono uno Stato all’interno del Regno d’Italia.

Un luogo mistico e magico, dove poter ammirare straordinarie vedute su tutta la vallata oggi ribattezzata “valle degli Armeni”. Rocca Armenia ha origini antichissime. Qui è possibile ancora ammirare i resti del suo castello, del Borgo antico e un arco trionfale eretto dalla nobile famiglia Carafa di Roccella con i suoi affreschi rinascimentali che lo caratterizzano. L’occasione sarà quella di degustare “u pani conzatu” che è tipico della tradizione popolare e agropastorale di Bruzzano Zeffirio, che si consuma a freddo o appena sfornato e viene farcito di pomodoro fresco, olio extravergine d’oliva  locale e olive verdi, che ci trasporteranno in un’esperienza gastronomica dai sapori prettamente medievali.

3- Ci porteremo verso l’interno del territorio e cominceremo a risalire di quota raggiungendo il borgo medievale di Staiti, non prima di aver fatto una sosta nel tempio di epoca Bizantina e Normanna di Santa Maria di Tridetti.

L’edificio sorge nella vallate conosciuta con il suo toponimo antico di “Badìa”.  Fu scoperto dal noto Archeologo Paolo Orsi nel 1912 e dichiarato “Monumento Nazionale Bizantino dell’ XI° sec.” Qui, leggenda  e storia si fonde con il mondo Bizantino, che per molti secoli animò queste terre  in un susseguirsi i vicende  e vicissitudini  che diedero vita ai piccolo borgo di Staiti non distante da questo luogo di grande spiritualità e suggestione

 4- Risaliremo i tornanti di monte Giambatore per raggiungere il pittoresco borgo di Staiti che ha il triste primato di essere “il più piccolo Comune della Calabria”

Staiti sorge a 550mt slm, conta circa 220abitanti, ma dalle caratteristiche urbane ancora immutate, qui sarà possibile percorrere il sentiero delle chiese bizantine che è costituito da 18  bassorilievi in terracotta lungo le vie del borgo, e poi la chiesa di Santa Maria della Vittoria con il suo campanile cuspidato e la statua della vergine col bambino opera seicentesca di Martino Regi,  come non fare una visita al bellissimo museo dei Santi Italo-Greci sito all’interno del Palazzo Cordova, godere delle numerose piazzette che si affacciano sul borgo dai caratteristici vicoli dalle porte pinte che conducono  verso il punto panoramico di “Rocche di Quartu” dove poter ammirare tutta la vallata ed il mar ionio che fa da cornice al territorio. Non potremo mai andarcene senza aver gustato i famosissimi Maccheroni conditi con il sugo di capra e la buonissima ricotta biologica delle aziende locali.

5- Il nostro viaggio proseguirà verso Ferruzzano Superiore, dove sulla collina sorge uno dei borghi più interessanti del territorio, dove la natura ci ha regalato ambienti dalle caratteristiche uniche come il bosco di Rudina che custodisce numerosi palmenti rupestri di epoca ellenica e bizantina.

Il borgo di Ferruzzano Superiore sorge non lontano dal bosco di Rudina adagiato su un pianoro roccioso ad un altitudine di 470mt slm. E considerato una vera e propria terrazza sul mar ionio. Il borgo è ormai un paese semi-abbandonato, ma passeggiare tra i suoi vicoli scavati talvolta nella roccia di Arenaria è come fare un salto nel passato che con gli antichi palazzi, le sue vedute sulle vallate circostanti offrono al visitatore una narrazione storica legata alle vicissitudini di popolazioni che per sfuggire agli attacchi saraceni, decisero di porre le fondamenta proprio su queste alture, per potersi difendere meglio. Non distante dal paese è possibile ammirare i meravigliosi palmenti rupestri che costituiscono un insieme di circa 160 palmeti sparsi su tutto questo territorio, dove gran parte si trova all’interno del sito S.I.C. del “bosco di Rùdina”, un territorio che, grazie al suo particolare microclima, offre l’opportunità di poter conoscere ed ammirare  esemplari antichissimi di alberi e piante rare. Per concludere la nostra esperienza a contatto con la natura e la cultura locale, incontreremo uno degli apicoltori locali, che attraverso l’antica arte dell’allevamento delle api in arnia, produce un preziosissimo miele che si sposa egregiamente con la tradizione agropastorale del luogo, costituita da formaggi caprini dal gusto sublime.

“La Calabria è stata crocevia di popoli, che attraverso i loro lasciti archeologici e culturali rappresentano un germe di una forte di cristianità, ancora oggi viva nei luoghi che furono un rifugio, una casa e base su cui fondare nuove civiltà”

In conclusione, questo viaggio alla scoperta degli Armeni e dei loco lasciti archeologici e culturali, ci proietterà in un universo letteralmente affascinante, che ci porterà a comprendere il valore intrinseco di luoghi del tutto fuori da ogni logica e stereotipo di vacanza. Perché per meglio conoscere la Calabria è necessario affondare le proprie conoscenze attraverso una narrazione che non esclude la stratigrafia dei popoli che hanno caratterizzato i territorio

 

© Copyright Carmine Verduci

(Operatore del Turismo Esperienziale

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