Categoria: articoli Page 5 of 15

Il Natale nell’area grecanica attraverso la gastronomia tipica

Oggi è uso comune indicare e consumare come dolci tipici della nostra area per le feste natalizie i protali e le nacàtole. Ma non è così. Infatti  da alcune ricerche fatte dallo studioso bovese Pasquale Casile e pubblicati in in uno dei suoi quaderni di cultura greco-calabra “Dèi e Zangréi” questi dolci solo di recente sono divenuti esclusivi del Natale ma  invece un passato avevano una funzione rituale di dolci prenuziali (i pretali) e nuziali (le nacàtole) in ambito magno-greco.

Secondo una descrizione del Marzano le nacàtole, di forma ellissoidale, con una piccola cuna e con una spirale dentro, che figurerebbe da bamboccio agli inizi del novecento era il dolce che veniva offerto specialmente nei matrimoni.Quindi la loro funzione dal punto di vista rituale era quella di propiziare il concepimento e la nascita di una nuova vita. Inoltre vengono prodotte in territorio bovese utilizzando il fuso e il vaglio “u crivu” che sono gli unici due attrezzi ad essere adoperati dalle massaie per comporre e modellare le nacàtole (in nessun’altra occasione li ritroviamo utilizzati insieme). La presenza di questi due attrezzi sembra che non assolva ad una funzione meramente pratica per  la preparazione del dolce  ma a quella del tutto simbolica di servire, col loro impiego, a sacralizzarlo.

Il fuso infatti nella tradizione greco-pagana rappresenta l’attributo delle Mòire, le antiche divinità del parto. Il loro compito era tessere il filo del fato di ogni uomo, svolgerlo ed infine reciderlo segnandone la morte. Queste erano tre: Cloto la “filatrice“, Lachesi la “fissatrice della sorte” ed Atropo, “la irremovibile“, particolarmente temuta dagli uomini perché colei che taglia il filo, e recide con il suo drastico gesto la vita. Mentre il vaglio è l’attrezzo rituale più importante del culto di Dioniso infatti veniva indicato pure come Dio del Vaglio.

Clotho, Lachesis and Atropos, the Greek Fates or Moirai. . Handcolored copperplate engraving engraved by Jacques Louis Constant Lacerf after illustrations by Leonard Defraine from Mythology in Prints, or Figures of Fabled Gods, Blanchard, Paris, c.1820.

I pretali invece, chiamati anche con le varianti pratàli, pretàli, petràli, pitràli, protàli ecc. la cui origine etimologica del nome indicava “le offerte prenuziali” portate al tempio dai genitori della promessa sposa.Ciò è confermato dalla Suda, un dizionario enciclopedico greco redatto intorno al X sec. d.C., che alla voce “protélia”, indica una determinata festività ateniese che precedeva in ordine temporale quella assai più nota dei “gamélia”, che cadeva nel mese di gennaio, il mese delle nozze.

Protélia: È questo il nome del giorno in cui i genitori conducono alla dea sull’acropoli la fanciulla in procinto di sposarsi, e compiono dei sacrifici. A rafforzare questa tesi dell’importanza che avevano i riti prenuziali  e nunziale nell’antica cultura magno greca  che sono giunti fino a noi vi sono i rinvenimenti archeologici di  frutta votiva in terracotta, le raffigurazioni di dolci antropomorfici che hanno per soggetto bambini, nonché la cerimonia misterica del “corredo della sposa” nelle pìnakes locresi. Infine, quindi, essendo il mese delle nozze a gennaio e comunque vicino al Natale e le nacàtole una rappresentazione della natività, con il tramonto inevitabile dei rituali greco-pagani a favore della religione cristiana, questi dolci sono accostati oggi alle feste natalizie. Tutto questo ci porta ancora una volta ad avvalorare ed a sostenere la cultura e l’identità grecanica che per fortuna ancora oggi si nasconde e si conserva tra le nostre tradizioni.

LA RICETTA NACATOLE
Ingredienti per quattro persone:

farina: 1 Kg

uova: 3
strutto: 150g
zucchero: 300g
anice: 1 bicchiere
lievito:  200 g

Man mano che le preparate sistematele tra due tovaglie in un luogo caldo e lasciatele lievitare. Sistemate la farina a fontana sulla spianatoia. Mettere dentro le uova, lo strutto, lo zucchero l’anice e il lievito sciolto in un poco d’acqua tiepida; sbattete il tutto con una forchetta quindi impastate la farina. Lavorate a lungo la pasta ottenuta, fino a farla diventare soffice e liscia, a questo punto staccate una parte dell’impasto, formate dei cordoncini abbastanza lunghi che distenderete prima sul vaglio e poi avvolgerete nel fuso (o nel manico di un cucchiaio di legno) e date la forma alle “nacatuli”. Quando diventano gonfie e leggere, friggetele in abbondante olio di oliva extravergine.

RICETTA PER I  PRETALI
Ingredienti:

Per la sfoglia
Farina: 1 kg
zucchero: 300 g
strutto: 250 g
lievito per dolci: 2 bustine
uova: 4
latte: quanto basta
bicchierini di anice: 2
buccia grattugiata di un limone

Per il ripieno:

mandorle sgusciate: 500 g
fichi secchi: 1 kg
gherigli di noci: 200 g
uva passa: 200 g
un pizzico di cannella in polvere
un pizzico di chiodi di garofano in polvere
la buccia di un mandarino tritata finemente
miele: 600 g

Per ornare:
Glassa bianca o al cioccolato, 1 busta di confettini colorati. Sgusciate le mandorle  poi pelatele e fatele tostare brevemente in forno.

Sgusciate, quindi, le noci e spezzettatele insieme alle mandorle, mescolandole insieme. Tagliare i fichi in piccolissimi pezzetti, mescolandoli poi a cinque cucchiai abbondanti di miele naturale, di castagno preferibilmente o meglio ancora locale.
Mettete tutti questi ingredienti aggiungendo i chiodi di garofano, la cannella e la buccia del mandarino, in una pentola ben capiente, a fuoco basso per circa 10 minuti e con un cucchiaio di legno mescolate spesso per evitare che si attacchino.  Lentamente, e poco alla volta, alternando, aggiungete al composto un po di caffè, e di mosto cotto.
Levatela dal fuoco, versandola in una terrina capiente e spruzzandovi dentro una dosa abbondante di liquore di anice. Coprite con un coperchio e lasciate riposare (preferibilmente per almeno un giorno).

Sfoglia di copertura:
Fate un cerchio con la farina e nel foro centrale dovete aver cura di versare tutti gli ingredienti a partire dallo zucchero, poi dalle uova,  e poi tutto il resto.
Mescolate bene e poi rapidaιrιente unitevi la farina lavorando il tutto molto delicatamente fino ad ottenere una pasta liscia e compatta.
Fatene una specie di palla. Intanto scaldate il forno a 200 gradi.
A questo punto si possono dare diverse forme. Col mattarello stendete delle fogliette  piuttosto sottili quindi tagliate dei quadrati; con un cucchiaio prendete un po’  del ripieno e sistemate su una metà, piegate l’altra metà del quadrato fino a coprire completamente il ripieno e così fino all’esaurimento degli ingredienti.
Sistemateli su una teglia unta o coperta  di carta da forno, infornate e fate cuocere fino a che non abbiano preso un buon colore dorato in superficie. Toglieteli dal forno e guarnite i petrali con i confettini colorati o con la glassa.

By Pasquale Callea

 

 

 

rocca di san fantino

La leggenda della rocca di San Phantino.

Luoghi misteriosi nella nostra Calabria, luoghi dove riecheggiano ancora strani racconti e leggende avvincenti dai significati forti che gli anziani ancora tramandano attraverso i racconti
Oggi ci soffermiamo sulla leggenda della “Rocca di San Fantino”, che ho avuto modo di visitare recentemente. Un luogo costellato da grandi rocce di arenaria rossa, e palmenti in pietra, testimonianze di grande interesse archeologico e storico di questi luoghi.

Ci troviamo a Motticella piccola frazione di Bruzzano Zeffirio, dove vi abitano poco più che una manciata di abitanti per lo più anziani che si dedicano ancora con tanta passione e determinazione alla pastorizia e all’ agricoltura. Il borgo sull’orlo del torrente Bampalona o Torno è dominato dal maestoso il Monte Scapparone (1058 mt s.l.m.).

Proprio nelle vicinanze del paese, alle pendici del monte Fasoleria nel comune di Ferruzzano, vi è una località chiamata San Fantino (o come riporta un cartello turistico posto sulla strada dove c’è scritto “Rocca di San Phantino“).
La località è caratterizzata da un monolite di arenaria che si erge come un dito in uno scenario davvero unico al mondo, non distante dai resti medievali di chiese bizantine e antiche chiesette che costellano il territorio che ricadono anche sul territorio di Bruzzano Zeffirio e Ferruzzano. Attraverso tanta curiosità, mi avventurai nel borgo di Motticella, attraverso vicoli e vicoletti che conducono alla parte più alta della collinetta su cui spicca un fabbricato che dev’essere di origini medievali. Qui il paese ha accolto il famoso cronista televisivo RAI Vincenzo Mollica che trascorse parte della sua infanzia sino al suo trasferimento nel nord Italia. La poca gente che vi abita è così cortese che la cosa che mi rimarrà sempre impressa è la bella atmosfera che ho vissuto proprio quando la signora che abita proprio sotto a quello che viene chiamato Castello o Casa Baronale di Motticella mi invitò a casa sua bere un bicchiere di vino di sua produzione con tanto di formaggio pecorino prodotto dalla loro piccola azienda agricola, mostrandomi i lavori d’intaglio su legno realizzati dal padre che è un vero maestro di questa tradizione antica che oggi è più unica che rara.

Il mio percorso però non vuole fermarsi a borgo ma trovare la strada che mi conduce alla località “Bagni”, in questa località da una fenditura di una roccia sgorga dell’acqua sulfurea dalle proprietà benefiche davvero incredibili, tanto conosciuta dai monaci Bizantini dell’epoca che in questo luogo attraverso delle vasche costruite appositamente e di cui ne rimangono tracce evidenti, curavano ogni male, tanto che fino agli anni ’50 venivano prelevati i fanghi per essere utilizzati nella prima stazione termale sita ad Antonimina nell’entroterra della città di Locri.

Mentre mi incamminai sulla strada che costeggia uno un bosco di Eucalipti, incontrai il Sign. Gianni Mafrici (originario del luogo) che mi invita a seguirlo, in quanto anche lui si stava recando presso la sorgente. Lungo il breve cammino che dal paese, tramite un agile stradella a tratti asfaltata porta alla suddetta località non mi trattengo ad interrogarlo con estrema curiosità, quasi come un bambino che vuole conoscere il mondo. E’ sempre il Signor Gianni che ad un certo punto mi narra di questa leggenda proprio mentre ci incamminiamo verso la famosa “Rocca di San Fantino”.

SI RACCONTA CHE IN LOCALITA’ “IUNCHI” TRA I PAESI DI MOTTICELLA E FERRUZZANO, NELLE VICINANZE DELLA  “ROCCA DI SAN FANTINO” VIVESSE UN FRATE EREMITA DI NOME PHENTINO O PHANTINO, ESPERTO NELLE PRATICHE MEDICHE DELLE PIANTE MEDICINALI E AGRICOLE, TANTO CHE LE GENTI DEL LUOGO SPESSO RICORREVANO A LUI PER CONSIGLI RELATIVI ALLE SEMINE, POTATURE, INNESTI ED TANTO ALTRO. A MOTTTICELLA VIVEVA UNA BELLISSIMA RAGAZZA DI NOBILE FAMIGLIA, COME IN TUTTE LE STORIE DI PAESE PARE CHE QUESTA RAGAZZA AVESSE UN AMANTE SEGRETO PER IL QUALE IL PADRE NON FOSSE D’ACCORDO ALLA RELAZIONE. UN GIORNO LA RAGAZZA SI ACCORSE DI ESSERE IN ATTESA DI UN FIGLIO, CERTA CHE IL PADRE NON SAREBBE STATO CONTENTO DECISE DI TENERE NASCOSTA LA GRAVIDANZA. UN GIORNO SI RECO’ PRESSO QUESTO FRATE EREMITA A CHIEDERE CONSIGLI, INSIEME CONVENNERO CHE POCO PRIMA DEL PARTO LA RAGAZZA SI SAREBBE RECATA PRESSO IL PICCOLO ASCETERIO CON LA SCUSA CHE SAREBBE ANDATA A TROVARE ALCUNI PERENTI IN UN PAESE LONTANO DA MOTTICELLA. E COSI’ ACCADDE, LA RAGAZZA PARTORI’ UN BEL BAMBINO, RIMASE CON IL FRATE PER PIU’ DI UN MESE FINCHE’ IL BAMBINO NON COMINCIO’ A NUTRIRSI DI LATTE DI CAPRA. DI TANTO IN TANTO LA DONNA SI RECAVA DI NASCOSTO SUL LUOGO A TROVARE IL BAMBINO CHE CRESCEVA SEMPRE PIU’ BELLO. UN GIORNO IL BAMBINO SI AMMALO’, FORSE DI BRONCHITE, ED IL FRATE NON RIUSCI’ A CURARLO CON LE SUE ERBE, TANTO CHE DI LI A POCO IL BAMBINO MORI’.

rocca di san fantino

IL FRATE DISPERATO PER L’ACCADUTO SI RECO’ IN CIMA ALLA GRANDE ROCCIA, POSE IL CORPICINO SENZA VITA DEL BAMBINO SULLA CIMA E SI MISE A PREGARE CON TUTTA LA SUA FORZA E TUTTA LA SUA FEDE, SPERANDO IN UN MIRACOLO DIVINO. DURANTE LA PREGIERA SI ADDORMENTO’ E CORVI E CORNACCHIE MANGIARONO IL CORPICINO DEL POVERO BIMBO. IL FRATE AL SUO RISVEGLIO FECE LA MACABRA SCOPERTA. DOPO ALCUNI GIORNI LA RAGAZZA SI RECO’ NUOVAMENTE A TROVARE IL FIGLIO, MA GIUNTA DA FRATE VENNE A CONOSCENZA DELL’ORRIBILE FINE, E IN PREDA AL DOLORE SI AVVENTO’ SUL FRATE PERCUOTENDOLO CON FORZA STACCANDOGLI IL NASO CON UN MORSO. LA DONNA RITORNO’ A CASA PIANGENDO DISPERATA, TANTO CHE PER IL DOLORE DIVENTO’ MATTA. INFATTI LA FAMIGLIA DELLA DONNA FU COSTRETTA A RINCHIUDERLA IN UNA STANZA DELLA CASA SENZA FINESTRE, IN PRATICA UNA VERA E PROPRIA CELLA, DOVE LA RAGAZZA VI RIMASE FINO ALLA SUA MORTE. IL FRATE INVECE , A CAUSA DELL’INFEZIONE AL NASO, DI LI A POCO MORI’ ANCHE LUI.

Un misterioso tesoro:

SEMBRA PROPRIO CHE LA ROCCIA, NASCONDA UN TESORO, PROTETTO DA UN SERPENTE (O UN DEMONE).  LA LEGGENDA VUOLE CHE, PER POTER ENTRARE IN POSSESSO DI QUESTO TESORO BISOGNA RECARSI SULLA ROCCA IN UNA NOTTE DI LUNA PIENA CON UN NEONATO MASCHIO UCCIDERLO E CUCINARLO IN UNA PENTOLA MAI USATA PRIMA, A QUESTO PUNTO, IL SERPENTE DOVREBBE APRIRE LA ROCCIA LASCIANDO ACCESSO A QUESTO GRANDE TESORO, CONTENUTO IN UN PENTOLONE DI RAME COLMO DI MONETE D’ORO E DIAMANTI E RUBINI.

QUESTA E’ LA STORIA CHE ANCORA OGGI GLI ANZIANI TRAMANDANO ORALMENTE IN PAESE.

Storie e leggende che spesso rincorrono vite e vicissitudini per i quali ci portano a chiederci: perché queste storie sono riuscite ad arrivare sino a noi oggi? Quali significati arcaici si celano dietro queste storie verosimili? Qual’è il confine tra il vero e il falso o tra storia e leggenda? Una Calabria sconosciuta, misteriosa, arcaica, celata, ricca di significati che oggi meritano di essere raccontati grazie a queste poche righe, che arrivano viaggiando attraverso l’etere, oggi fucina di cultura nel nostro tempo.

dI Carmine Verduci

cosma e damiano riace

Riace dalle origini al culto dei Santi Medici Cosma e Damiano

riaceLe origini di Riace risalgono ad epoca aragonese.Tutto il paese ne rivela l’origine in ciò che resta dell’architettura mista catalano-aragonese, nelle viuzze, negli edifici sacri e nei palazzi privati. In precedenza l’area doveva essere sede ambita dal monachesimo Basilano che pone la preghiera, con l’eremitismo alla base della vita in comune (le regole di San Basilio Il Grande, 330-379 d.C. vescovo di Cesarea dal 370). Quanto alle origini del nome, Riace non si discosta da Monasterace, Gerace, o dai paesi alle falde dell’ Etna come Aci Trezza, Aci Bonaccorsi, Aci Platani, Acireale, Aci Catena ecc.
Non si può attribuire a Riace una origine greca come facente parte del territorio di Kaulon. E` vero che ricade nel territorio della Magna Grecia, ma non esiste alcuna prova dell’esistenza di una località chiamata Riace fino a tutto il periodo normanno (1059-1194), svevo oppure angioino (XIV sec.).

Nell’Agosto del 1972 sui fondali del mare antistante Riace vennero rinvenuti i famosissimi “Bronzi di Riace” . Il rinvenimento “fortuito” avvenne il 16 agosto. Il 21 fu recuperato il Bronzo “A” e l’indomani il “B”. Secondo studi e ricerche facevano parte di un gruppo statuario che rappresentava il momento subito precedente al duello fratricida fra Eteocle e Polinice, fratelli di Antigone, del mito dei Sette a Tebe collegato con quello di Edipo.

 

Il più antico documento in cui è citata Riace e` del 1561, in cui si parla della morte, in odore di santità di Cristoforo Crisostomo, Riacese. Un altro dato sulla datazione di Riace ce la fornisce la campana della Chiesa dell’Assunta, su cui e` riportata la dicitura “Hanc fundere fecit campanam Confraternitas s.mi Sacramenti, A.D. 1596” Sino all’epoca Normanna (nel 1059 Roberto il Guiscardo ebbe il Ducato di Puglia e Calabria; la fine del dominio Normanno si ebbe nel 1194 quando Enrico VI, sposando Costanza di Altavilla, uni` alla corona imperiale anche quella di re di Sicilia) la Calabria Jonica e` sotto l’influsso culturale e artistico della civiltà Bizantina. La sua storia si fonde con quella di Stilo, di cui e` casale, almeno fino al Novembre 1666, data in cui l’autorita` centrale consente ai riacesi di pagare le tasse per proprio conto. La città di Riace era fornita di cinta murarie ed esistevano tre porte per l’accesso: la Porta di Santa Caterina, la Porta di Sant’Anna e la Porta dell’Acqua. Ad otto chilometri dall’abitato sorge la Torre di Casamona, a Riace Marina, per prevenire gli sbarchi dei Pirati turcho-barbareschi. Era costituita da due ampie stanze sovrapposte e da una terrazza merlata, ed era dotata di un cannone. L’esistenza di questa torre e` ampiamente documentata dal 1583, prove ne sono le notifiche per i pagamenti, da parte dell’ Università (un tipo di corporazione medioevale) di Riace, per il personale di guardia della torre, (capitani e cavalieri) notifiche che perdurano sino al 1707. La Torre di Casamona ha svolto una vitale funzione di sorveglianza sulle coste Riacesi per un arco di due secoli. Nel 1640 Riace risulta essere abitata da 400 persone, piu` una in mano ai saraceni!. La zona riacese non ha conosciuto, a differenza della maggior parte dell’ Italia, la civltà feudale. La presenza di miniere di ferro e di argento favorirono l’interesse del governo centrale napoletano a non infeudare il territorio. Di questi benefici godevano anche altre città, come Stilo, o Bivongi. Nonostante ciò, negli anni 1647-48 si ebbero una serie di cruenti episodi, omicidi, saccheggi, dovuti al tentativo di infeudamento di Stilo e dei suoi casali, Riace compresa, perpetrato dal Marchese d’Arena, che con un atto illegale acquisto` il casale di Stilo .Per ribadire il proprio diritto all’appartenenza al Regio Demanio ci fu anche una rivolta popolare, in Stilo, soffocata nel sangue (14 morti tra cui un bimbo di due anni). Del casale di Riace risulto` ucciso il Dott. fisico Giuseppe Politi
Nel 1756 la popolazione era costituita da 508 donne e 493 uomini (1001 persone). Di questi 132 sono coltivatori diretti, 27 massari, un guardiano di pecore, due mugnai, un tiratore di seta; ci sono anche 30 sacerdoti e 18 suore; 8 calzolai, 5 sarti, 3 barbieri, 3 fabbri, uno scalpellino, un indoratore, un servitore, un fabbricatore, un aromatario. L’assistenza medica era assicurata da 3 dottori e 2 farmacisti (speziali). L’assistenza giuridica da un giudice e due notai. Risulta che sei fanciulli fossero “addetti alle lettere”, evidentemente in forma privata, perchè la scuola pubblica ancora non era stata istituita. Nel 1773 fu edificata, in Riace Marina, la Cappella di San Biagio, che e` Monumento Nazionale. Fu eretta per ordine del barone Antonio Gagliardi. Si trova in prossimità della provinciale per Riace Superiore, vicino al passaggio a livello, e attesta che Riace Marina era abitata anche nel XVIII secolo. Nel 1783 ci fu un tremendo terremoto. Si lamento` un morto e 20.000 ducati di danni. Nel 1815 venne istituita la scuola pubblica, più volte soppressa (e ripristinata) per mancanza di scolari. Nel 1818 gli abitanti di Riace erano 1062. Gli uomini 231, le donne 362. I fanciulli erano 231, le fanciulle 208. I preti erano 8. 200 sono i contadini, 100 tra artisti e domestici. Tra disoccupati e mendicanti si contano 80 uomini e 167 donne. Si noti come, nonostante sia zona “riverasca”, e nonostante l’antica tradizione dell’università di Riace di mantenere la Torre di Casamona, non risulti esserci nessun pescatore. Con il crollo dei Borboni, Riace diviene uno dei comuni dell’Italia meridionale. Soffre i problemi del brigantaggio, dei moti reazionari, dell’emigrazione, come tutto il resto del meridione. Unica nota nel 1972 vengono ripescati in mare, di fronte alla località “Agranci” due capolavori della scultura ellenistica, i Bronzi di Riace, che hanno portato il nome della città a fama mondiale.

RIACE TRADIZIONE E DEVOZIONE

Una delle feste più sentite che caratterizza Riace è sicuramente la festa dei Santi Medici Cosma e Damiano. Le origini della festa risalgono al 1669, anno in cui sono arrivate da Roma, in dono al santuario, le reliquie dei due santi martiri dell’Oriente, mentre soltanto nel 1734 sono stati proclamati Patroni del paese. Solamente agli inizi del XIX secolo le reliquie sono state trasferite nella chiesa Matrice di Santa Maria Assunta e sistemate in un apposito braccio d’argento per far ritorno al santuario unitamente ai santi nei giorni di festa. Per la Festa dei Santi Medici vi è, ancora, una grande affluenza di fedeli delle comunità Rom e Sinti devoti dei santi medici considerati loro protettori e le cui radici sono molto antiche e profonde. Arrivano da tutta la Calabria i gitani per onorare, anche, il Beato Zeferino Giménez Malla, detto “El Pelé” (1861-1936).

CHI E’ ZEFERINO GIMENEZ MALLA?!

È un analfabeta, che si porta dietro il marchio indelebile di essere un gitano, cioè uno zingaro, “malgrado” il quale è stato elevato alla gloria degli altari. Forse, a dire il vero, più in conseguenza della morte che ha subito, che non della sua dirittura morale e della sua integrità di vita, anche se queste, da sole, già gli avrebbero meritato una corona di gloria. Ceferino Jiménez Malla nasce in Spagna nel 1861, non si sa bene dove e neppure precisamente quando, e fin da bambino conosce la precarietà della vita nomade e la povertà autentica. Fa il panieraio, tesse cioè ceste e canestri, che poi vende di villaggio in villaggio, ma le bocche da sfamare sono tante, anche perché papà ha pensato bene di andar a vivere con un’altra donna, lasciando la prima famiglia nell’autentica indigenza. A 18 anni è già sposato alla maniera gitana con Teresa Jiménez: un matrimonio felice, anche se privo di figli, che durerà più di 40 anni. Le testimonianze concordano: le condizioni di estrema povertà non riescono a fare di lui un ladro o un approfittatore. L’onestà che gli viene da tutti riconosciuta finisce per procurargli un’autorevolezza, una superiorità morale grazie alla quale acquista un ruolo di “capo” dei gitani di Barbastro e del circondario: gli chiedono consigli e lo fanno intervenire da paciere nelle liti famigliari, nelle controversie tra gitani e addirittura nelle dispute tra questi e le persone del luogo. La svolta economica della sua vita avviene per un atto di generosità: un giorno si carica sulle spalle e riporta a casa, incurante del pericolo di contagio, un ricco possidente di Barbastro, malato di tubercolosi, svenuto per strada a causa di uno sbocco di sangue. La famiglia di questi lo ricompensa con una forte somma, con la quale Zeffirino, da tutti soprannominato “El Pelè”, intraprende un redditizio commercio di muli che gli fa raggiungere un invidiabile livello di benessere. Anche nel commercio e nell’ improvvisa agiatezza si rivela però limpido ed onesto, fino allo scrupolo: chi acquista da lui sa che non avrà sorprese, perché gli eventuali difetti delle sue bestie sono messi ben in evidenza, non ammettendo frodi neppure dagli altri gitani. Eppure, un uomo così viene un giorno incarcerato perché due animali che ha comprato si sono rivelati rubati: elemento più che sufficiente per accusarlo di ricettazione o perlomeno di incauto acquisto. Pesano sul suo arresto e sul processo, certamente, la sua origine gitana ed il pregiudizio razziale che fa di ogni zingaro un potenziale disonesto. Assolto per aver dimostrato la sua buona fede e la sua completa estraneità al furto, il Pelè continua la sua redditizia attività commerciale, nonostante la quale si riduce in povertà: ha infatti le mani bucate perchè soccorre chiunque è nel bisogno ed aiuta i poveri, il più delle volte di nascosto dalla moglie che non condivide questa sua prodigalità. Prima di tutto, però, il Pelè è un cristiano convinto, che della sua fede non fa mistero: sempre con la corona del rosario in mano, attivissimo nelle associazioni religiose, impegnato nell’ adorazione notturna e nella San Vincenzo, dalla messa e dalla comunione quotidiana soprattutto da quando, regolarizzando la sua posizione anche con il matrimonio religioso, ha potuto accostarsi ai sacramenti. La rivoluzione del 1936 che scatena l’odio antireligioso, non riesce a fargli mutare minimamente la sua coraggiosa professione di fede: difatti lo arrestano nel mese di luglio, perché ha difeso un prete e perché in tasca gli han trovato la corona del rosario. Che non posa più, neppure quando amici influenti gli promettono l’immediata scarcerazione se soltanto evita di farsi vedere con la corona in mano. Lo fucilano ai primi di agosto, ancora e sempre con il rosario in bella vista, insieme al suo vescovo con il quale è stato beatificato da Giovanni Paolo II nel 1997, primo e finora unico zingaro ad essere portato sugli altari.

I SANTI COSMA E DAMIANO;

Secondo la tradizione Cosma e Damiano sono due fratelli di origine Siriana, due medici che erano detti “Santi Anàrgiri” (nemici del denaro), con questo termine sono passati alla storia, perché prestavano con assoluto disinteresse la loro opera sia ai ricchi che ai poveri, in applicazione del precetto evangelico: “Gratis accepistis, gratis date”. Inoltre, alcune scritture parlano di un loro farmaco chiamato ‘Epopira’. Sono nominati nel canone della messa e designati dalla chiesa Patroni dei medici, dei chirurghi, dei dentisti e dei farmacisti. Vissero in tempi assai difficili per il cristianesimo. Non a caso sotto l’impero di Massimiano e di Diocleziano, tra il 286 e il 305 d. Cr. si ebbero le maggiori repressioni e persecuzioni dovute al rifiuto da parte dei cristiani del paganesimo imperante e del culto dell’imperatore. In esecuzione dell’editto del 23 febbraio 303 i SS. Martiri Medici Cosma e Damiano furono arrestati con l’accusa di professare un credo religioso vietato ed il relativo processo si svolse al cospetto di Lisia, prefetto romano della Cilicia. Il loro primo biografo, il saggio Teodoreto, alla guida dell’episcopato di Ciro, dall’anno 440 al 458, ebbe a definirli ‘illustri atleti di Cristo e generosissimi martiri’. In questo luogo, sulla loro tomba, venne costruita la prima chiesa votiva, meta incessante di pellegrinaggi per venerarvi le sacre reliquie ed implorare la loro intercessione. Il Dioscoro Gentile che da pagano diviene cristiano. Egli si rivolge a Castore e Polluce, divinità greche preposte alla guarigione e li invoca per ottenere una guarigione, questi lo invitano ad avvicinarsi dicendogli, «noi non siamo quelli che tu invochi, ma siamo Cosma e Damiano».

Secondo il Martirologio Romano, erano fratelli e compagni non solo di sangue, ma anche di fede e di martirio. Studiarono assieme medicina in Siria e salirono ben presto a grande fama per la loro valentia nel curare i malati. Forse erano arabi di nascita, ma assai per tempo ricevettero un’ educazione cristiana veramente ammirabile. Animati da vero spirito di fede e di carità si servirono della loro arte per curare sia i corpi sia le anime con l’esempio e con la parola. Riuscirono a convertire al cristianesimo molti pagani . Si portavano in fretta presso chiunque li richiedesse rifiutando ogni compenso, contenti di poter per mezzo della loro arte esercitare un po’ di apostolato. In questo modo si attirarono amore e stima non solo dai cristiani, ma anche dagli stessi infedeli. Venivano da tutti soprannominati “Anàrgiri” (dal greco anargyroi, parola greca che significa “senza denaro”), proprio perché non si facevano pagare per la cura dei malati.

 

IL MARTIRIO DI COSMA E DAMIANO;

Mentre essi compivano tanto bene, ecco scoppiare la persecuzione di Diocleziano. I santi Cosma e Damiano si trovavano in quel tempo ad Egea di Cilicia, in Asia Minore. Così circa l’anno 300 i santi medici si videro arrestati e tradotti davanti al tribunale di Lisia, governatore della Cilicia. «Ho l’ordine, dice il proconsole, di far ricerca dei cristiani, punire quelli che resistono e premiare quelli che si sottomettono alle leggi dell’impero. Voi siete accusati di appartenere alla setta… Scegliete ». « La scelta è fatta, risposero i santi fratelli, siamo cristiani e come tali siamo pronti a morire ».

« Riflettete bene, soggiunse Lisia, perché si tratta di vita o di morte, non potendo, né dovendo io tollerare una ribellione alle leggi ». « Noi rispettiamo come gli altri le leggi civili, ma nessuna legge ci può costringere ad inchinarci ai vostri dei di fango; noi adoriamo il Dio vivo e ci inchiniamo a Gesù Cristo Salvatore ». Lisia sdegnato ordinò che fossero legati e flagellati. Dopo questo primo tormento, persistendo i Santi nel loro fermo proposito, ordinò che fossero gettati in mare. L’ ordine fu all’ istante, mentre una grande turba di cristiani piangeva dirottamente. Il Signore venne in loro soccorso: le onde li spinsero fino alla riva e così poterono salvarsi. A tal vista il popolo gridò : « Siano salvi i nostri medici; si rispettino quelli che il mare stesso rispetta ». Purtroppo tutte queste grida furono vane: il proconsole li voleva assolutamente morti, perciò li fece gettare in una fornace ardente. Liberati miracolosamente dal Signore, dopo altri vari tormenti, furono fatti decapitare a Egea probabilmente nel 303. Sul loro sepolcro si moltiplicarono i miracoli: lo stesso imperatore Giustiniano, raccomandatosi alla intercessione di questi santi medici, fu guarito da mortale malattia e per riconoscenza fece erigere in loro onore una sontuosa basilica.

In loro onore Papa Felice IV (525-530) fece costruire a Roma una chiesa, decorata di mosaici stupendi. I resti dei santi martiri sono custoditi nel pozzetto dell’antico altare situato nella cripta dei Ss. Cosma e Damiano in Via Sacra, dove li depose S. Gregorio Magno (590-604). Vivo il loro culto in Oriente in Occidente, dove numerose chiese e monasteri di epoche diverse sono intitolate ai santi martiri “guaritori”.

 

By Carmine Verduci

Faro di Capo Spartivento

Faro di Capo Spartivento in Calabria, tra i luoghi più a Sud del Sud, illuminato oltre un secolo e mezzo fa.

Acceso per la prima volta il 10 settembre 1867“, il Faro calabrese che domina l’immensa distesa azzurra del mar Ionio, in uno dei luoghi più a Sud del Sud (primato che in Calabria condivide con la località Lembo nel comune di Melito di Porto Salvo). Siamo a Capo Spartivento, al confine tra Palizzi e Brancaleone, sul litorale ionico della città metropolitana di Reggio Calabria, lungo la Strada Statale 106 dove i gelsomini, un tempo più copiosi, inebriano l’aria.

Sulla lapide, che sovrasta l’ingresso della torre su base quadrangolare con edificio ad un piano, è riportata anche la posizione del faro in base al meridiano di Parigi, passante per il centro dell’Osservatorio della capitale francese e situato a 2° 20′ 13,82″ a est di quello di Greenwich, che lo sostituì nel 1884 (quindi sette anni dopo l’accensione del faro) nel ruolo di meridiano zero convenzionalmente inteso. Un intervento di ammodernamento ha riguardato il Faro nel 1910. Dal 1935 alimentato con l’elettricità e dal 1995 tutto meccanizzato con l’avvento delle tecnologie, il Faro di Capo Spartivento si erge su una torre bianca ad un’altezza pari a 64 m sul livello del mare.

Ogni otto secondi (7 secondi e 7 decimi per l’esattezza) un fascio di luce illumina fino a trenta miglia nautiche di distanza e in trentadue secondi il faro compie un giro completo, scandito da quattro bagliori, da punta Stilo fino a capo D’Armi. Esso, l’unico in Calabria ad avere un’ottica rotante come i cugini siciliani di Capo Peloro e Punta San Ranieri a Messina, è annoverato tra i cinque Fari classificati di primo ordine in Italia per storia e collocazione, unitamente al Faro di Santa Maria di Leuca a Lecce, al Faro di San Vito Lo Capo a Trapani, al Faro Vittoria di Trieste e alla Lanterna di Genova.

Il Faro di Capo Spartivento ricade interamente sotto la reggenza fari di punta Capo dell’Armi, insistente nel comune di Motta San Giovanni, a sua volta facente capo al Comando Zona dei Fari e dei Segnalamenti Marittimi di Taranto (Marifari Taranto competente dalla Calabria fino a Pescara) e al ministero della Difesa. I comandi zona di Fari hanno sede anche ad Olbia, Messina, Napoli, La Spezia e a Venezia.

Anticamente era noto come l’imponente Heracleum Promontorium, denominato poi dagli Italici Erculeum Promontorium, il promontorio di Eracle (Ηράκλειον ἃκρα). Si narra, infatti, che anche Ercole, l’eroe figlio di Zeus e Alcmena, riposò pure qui durante le sue fatiche. Ad un passo dalla fiume Alex di Palizzi, che con la fiumara aspromontana dell’Amendolea si contende lo storico e antico confine tra le due colonie Magno greche di Rhegion e Lokroi Epizephirioi, si erge questo antico e suggestivo promontorio dominato da un Faro, noto per la sua strategica collocazione geografica.

Luogo intriso di fascino, storia e leggenda, di cui narrava già il geografo greco Strabone (Geografia, VI, 1, 7): “Segue poi il promontorio di Eracle, che è l’ultimo ad essere rivolto verso Mezzogiorno: infatti chi doppia questo capo naviga direttamente spinto dal Libeccio, fino al promontorio Iapigio; poi la rotta inclina sempre più verso Settentrione e verso Occidente sino al golfo Ionio (Parte meridionale dell’odierno mar Adriatico). Dopo il promontorio di Eracle si trova quello di Locri, detto Zefirio, che ha il porto protetto dai venti occidentali e da ciò ne deriva anche il nome“.

Secondo un’antica leggenda tratta dalla pubblicazione “Brancaleone tra natura e cultura”,

un tempo abitava all’interno di una grotta del medesimo promontorio un eremita, Sant’Elmo, che viveva di questua. Sant’Elmo aveva un fratello e sette nipoti. Un tragico giorno il fratello morì, e l’eremita prese con sé le sette figliuole del defunto. Ormai la questua, già appena sufficiente per lui, non bastava più. Una notte mentre meditava e pregava nel tentativo di trovare una soluzione, gli apparve un gigante con una lanterna accesa. Era San Cristoforo per dargli aiuto proprio con la lanterna. L’eremita, non capendo in che modo la lanterna potesse risolvere il suo problema, chiese informazioni. San Cristoforo rispose: “Tu sai che i contrabbandieri vanno per mare. Orbene, quando la notte e’ buia e i venti si scaricano sui flutti, accendi la lanterna, piantala sopra uno di questi scogli e fai lumi ai poveri contrabbandieri che corrono pericolo di rompere la barca”. Da quella sera, Sant’Elmo, fece come gli era stato detto e ricominciata la questua, non passò giorno che non tornasse nella grotta con le bisacce piene di ogni bene, dono dei contrabbandieri grati per l’aiuto, riuscendo così a sfamare le nipoti. Ancora oggi, dopo tanti secoli dalla sua morte, Sant’Elmo, scende dal cielo con la lanterna accesa e salva le navi che stanno per naufragare. Custode del promontorio, il bianco faro Capo Spartivento, si erge fiero e domina su un mare arrabbiatissimo, dove tre imponenti scogli emergono dalle acque. (http://www.carettacalabriaconservation.org/index.php/slide/item/401-il-faro-di-capo-spartivento).

La letteratura non è rimasta indifferente.La vita non è una serie di lampioncini disposti simmetricamente; la vita è un alone luminoso, un involucro semitrasparente che ci racchiude dall’alba della coscienza fino alla fine. Virginia Woolf, scrittrice britannica e autrice del romanzo “Gita al Faro” (tradotto più fedelmente anche “Al Faro“, “To the lighthouse”), pubblicato nel 1927, descrive l’esistenza come un’essenza avvolta in un fascio di luce, quello di cui sono alla ricerca, in mare in attesa di raggiungere la terraferma, l’imbarcazione e la persona a bordo.

Le immagini di questo stupendo faro calabrese aprono e chiudono la splendida puntata “Da Palmi a Capo Spartivento“ de “L’Italia non finisce mai”, in onda su Rai 1 alcune settimane fa e adesso disponibile su Rai Play, con Michele Dalai con Mia Canestrini e Mariasole Bianco.

Il Faro di Capo Spartivento, numero 3384 nell’elenco fari consultabile presso l’istituto idrografico della Marina – da distinguersi dall’omonimo eretto in Sardegna in località Chia, nel comune di Domus de Maria, città metropolitana di Cagliari – si accompagna in Calabria ai Fari di Scalea, Capo Bonifati, Paola, Capo Suvero, Vibo Valentia, Capo Vaticano – Ricadi, Castello Ruffo di Scilla, Punta Pezzo di Villa San Giovanni, Capo D’Armi, ed è seguito dai Fari di Punta Stilo a Monasterace Marina, Capo Rizzuto, Capo Colonna e Punta Alice a Cirò Marina nel crotonese e Capo Trionto a Rossano (quest’ultimo inattivo). Si tratta di tappe di un affascinante viaggio lungo le coste calabresi che Ivan Comi ha raccontato nel libro fotografico “I Fari di Calabria“ e nel docufilm “La Magia dei cristalli“. Il progetto è stato realizzato con il sostegno del Ministero dei Beni Culturali e della Regione Calabria ed in collaborazione con la Marina Militare Italiana e i Guardiani che hanno abitato queste splendide torri luminose.

By Anna Foti

 

calabria

Ci voleva una pandemia per far scoprire la Calabria!

“…a chi l’ha sempre snobbata o ritenuta pericolosa (no, non anneghiamo i turisti nel cemento dei piloni della Salerno Reggio Calabria; no, non correte il rischio di finire in mezzo a una sparatoria… per quanto qui in estate il “mezzogiorno di fuoco” sia una certezza, ma per ragioni climatiche!”

La Calabria, complice il bassissimo numero di contagi, quest’anno è stata presa d’assalto dai turisti (e in parte dagli stessi calabresi, che la conoscono pochissimo!). Mentre io ho continuato a viverla come ho sempre fatto: senza filtri. Che resta il miglior modo per scoprirla e capirla. La Calabria funziona per sottrazione. Tra essere e apparire qui vince sempre la prima. Nessun brand, nessuna moda, nessun Vip. Un’estate senza: niente borse da mare griffate, niente telo e pareo trendy, niente zoccoli con tacco 12. Mare e spiaggia senza vestiti, senza lidi fashion, senza lettini, senza sdraio e ombrellone, senza cappello , senza occhiali da sole. Già è tanto avere su il costume… nonostante in effetti sia un filtro anche quello!  Ciabattine rasoterra, asciugamano su una spalla, libro. Direttamente in mano, neanche una sacca per contenere il tutto. Figurarsi avere dietro soldi o portamonete, tanto non c’è niente da comprare dove vado io… non un chiosco o un bar.

Brancaleone Vetus (RC)

Il mare in Calabria per me è il telo steso direttamente sulle pietre o sulla sabbia, è camminare sui sassi senza scarpe (si diventa fachiri da piccoli! Invece di comprare sandali e scarpette gommate ai bambini lasciateli irrobustirsi a piedi nudi…). In Kenya riuscii a impressionare uno dei ragazzi locali proprio per questa mia capacità di camminare scalza sulle pietre… secondo lui, una cosa assolutamente atipica per una “mzungu”, una bianca. Per quanto bianca possa essere una calabrese!

Sarà stata la clausura forzata da Covid19 in cui una delle cose che più mi è mancata era proprio il mare, ma ora come non mai ho questa necessità fisica di sentire tutto sulla pelle. Che forse non ci avete mai pensato, ma è il nostro organo più esteso e il meno usato. In un’epoca in cui i filtri sui cellulari sono più numerosi dei rossi in una carta dei vini (e con nomi altrettanto altisonanti), io sono senza filtri come i bambini. E i matti. Senza filtro è come vivo la vita, non solo la vacanza. Niente trucchi. Neanche quelli che si mettono sul viso, tanto per capirci… la verità è nuda e cruda come un’ostrica. Il mio scrub naturale è fatto di sabbia che leviga la pelle, mentre le pietre del bagnasciuga provvedono alla pedicure. Il mio parrucchiere è il vento e la salsedine che arriccia i capelli, il mio fondo tinta è il sole che colora il viso e fa sparire i pori allargati. Il mio profumo è un distillato di acqua di mare, ginepro, brezza salmastra e tamerici. L’onda è la mia massaggiatrice. Instancabile e gratuita.
Senza filtro un pezzo di carbone residuo di qualche falò diventa utensile d’arte per disegnare sulle pietre come fossero una tela.

La Calabria senza filtri è così: selvaggia e genuina, tagliente e vellutata, inaccessibile e succulenta. Con questa luminosità africana che rende inutile qualsiasi fotoritocco, i colori vividi per natura nell’assolato mezzogiorno e morbidi al tramonto.

I filtri (pensateci ora che siete obbligati ad averne uno come la mascherina su naso e bocca) rendono schiavi: quando li usi la prima volta dovrai farlo per sempre. Perché una volta che abitui il pubblico alla versione di te “ritoccata”, con la luce giusta, con il software che snellisce o leviga le rughe chi avrà più il coraggio di farsi un selfie “naturale”? Al naturale ormai vuol dire con i difetti. In genere troppi da sopportare. L’autenticità richiede una certa dose di coraggio e spavalderia.

“Senza filtro è dire quello che si pensa, direttamente. Senza studiare una strategia. Solo perché va detto. Perché la verità è sempre senza filtro. E voi, che preferite? Una consolante bugia o la scomoda verità?”

 

MARIA ROSARIA TALARICO:

Sono nata in Calabria, vivo a Roma con un marito e una valigia sempre pronta. Ho viaggiato in una cinquantina di Paesi diversi, ma non mi sono ancora stancata di vederne di nuovi. Oltre agli articoli, sforno torte. Ho una fattoria brigantesca www.fiego.it
Ho vinto diversi premi giornalistici tra cui il Premio Maurizio Rampino (con l’inchiesta sul riciclaggio internazionale e il traffico di cash), il Premio Natale – Unione cattolica stampa italiana (per il reportage sul precariato nel mondo della scuola) e il premio Val di Sole per un giornalismo trasparente (con il sito internet www.ilbarbieredellasera.com, antesignano dei blog e di cui, con lo pseudonimo Pennina, è stata una delle colonne della redazione). Il premio più importante resta essere diventata giornalista nonostante i miei genitori non lo fossero. Giornalista professionista, portavoce, musicista, docente, militare, imprenditrice agricola. Nella mia vita sono stata molte cose. Ho un lungo curriculum e nessuna condanna in tribunale. Nonostante questo svantaggio di partenza mi sono candidata lo stesso alle ultime elezioni europee. Non ho vinto, ma è stato bellissimo partecipare! Per chi vuole saperne di più: http://www.rosariatalarico.it/biografia/

Palizzi (RC), tra un paesaggio lunare e il mare azzurro e atmosfere antiche

Il mosaico smarginato del Mar Ionio con i suoi fondali dai colori cangianti, accesi dal sole, in cui sabbia e rocce frastagliate disegnano una mappa preziosa che custodisce un tesoro ogni volta sorprendente. Un manto ondoso si infrange sugli scogli che nascono dall’acqua, prima di raggiungere la riva; qui la battigia ha il suono di un calpestio ostinato, delicato e soave oppure strepitante e burrascoso. Montagne bianche, un mare azzurro, atmosfere antiche e intenso profumo di gelsomino meravigliano chi arriva, percorrendo cinquanta chilometri di strada Statale Jonica, partendo da Reggio Calabria, città Metropolitana in cui ricade. Spiagge assaltate dall’incuria e dall’erosione delle coste che, nonostante ciò, ancora conservano, seppur in pochi preziosi tratti, un aspetto primogenito e prezioso; spiagge, nel pieno parco marino regionale Costa dei Gelsomini, scelte dalla specie di Tartaruga marina Caretta Caretta per deporre le uova e nidificare. Linee ondulate dal tempo tracciano un paesaggio lunare che l’erosione delle piogge ha modellato come uno scultore avrebbe fatto con la propria opera. L’assenza di vegetazione consente al sedimento argilloso di mostrare le sue striature e le delicate pendenze; passeggiare su di esse, dinnanzi ad una distesa azzurra e un panorama in cui gli occhi si perdono, è uno stato di grazia per nulla raro. Una via tra l’Aspromonte e il mare Jonio anima il versante meridionale dell’Aspromonte, ornato dai Gelsomini e costellato da rigogliosi e pregiati vigneti dove nasce un ottimo e generosi vino rosso, riconosciuto dal marchio IGT (Indicazione Geografica Territoriale) che vale a questo luogo la denominazione di Città del Vino. Anche qui risuonano echi antichi della floridezza e della prosperità dei vigneti che valsero ad un’ampia zona del Meridione di Italia – di cui questo è il luogo più a Sud – il nome di Enotria (dal greco ôinos vino).

“È Palizzi con il suo borgo e la sua marina a schiudersi così, come uno scrigno, ad ispirare incanto e a muovere la penna sul taccuino di un viaggiatore”

“Le strade di Palizzi, dove forse alcun inglese è ancora disceso, erano gremite di bambini completamente nudi e abbronzati (…)”. La vitalità di questo luogo ha affascinato anche l’illustratore e scrittore inglese Edward Lear, che nel suo Diario di un Viaggio a Piedi, ha descritto così il suo arrivo a Palizzi, il 3 agosto 1847: “Passando la fiumana ai piedi della cresta coronata dalla citta’ elevata, siamo ancora una volta saliti per la scura falda della collina coperta di cisti, con gigantesche querce dai rami nudi in primo piano e la vasta montagna blu d’Aspromonte coperta di foreste che chiudono tutto il lato Sud del paesaggio. Mentre il momento per la nostra sosta di mezzogiorno stava per avvicinarsi, e per il caldo cominciava ad essere fastidioso, siamo giunti in vista di Palizzi, un paese molto strano, costruito attorno ad una roccia isolata, dominante una delle tante strette vallate aperte al mare. Venendo, come noi abbiamo fatto, dall’altopiano siamo arrivati al di sopra di Palizzi, il cui castello è visibile solo dal lato nord, così, per arrivare al livello del fiume ed alla parte bassa dell’abitato, è necessario discendere una scala perfetta tra case e pergolati, aggruppati nel vero stile calabrese fra sporgenze coperte di cactus da una roccia all’altra dove sembravano crescere. (…) mi sono spostato a cercare un po’ d’ombra per ripararmi dal soffocante caldo e, raggiunto il castello, mi sono ben presto trovato al centro delle sue rovine, da cui ho colto incidentalmente una scena pittoresca, vale a dire un casolare, una pergola, sette grandi porcellini, un uomo cieco e un bambino (…)”.

Tra i siti paleolitici più antichi d’Europa, già bene del monastero di Sant’Angelo di Valle Tuccio, poi casale della contea di Bova, nel XIV secolo feudo venduto da Bartolomeo Busca a Guglielmo Ruffo di Calabria, conte di Sinopoli, possidente di un grande tenimento della Calabria Meridionale, Palizzi – la cui etimologia è contesa tra i termini greco politsion, nel senso diminutivo di polis (città), e il termine polìscin (probabilmente luogo ombroso) – è diviso dalla fiumara nelle due contrade Murrotto e Stracia e consta di quattro frazioni: Palizzi Superiore, Palizzi Marina (la più popolosa con quasi duemila abitanti) con i suoi Calanchi e il lungomare più corto d’Italia, Spropoli e Pietrapennata con il suo paesaggio alpestre alle pendici del Monte Gallo, a settecento metri di altezza sul livello del mare, con la sua silenziosa e incantata vallata dell’Alìca, con i resti di una chiesa, forse di un monastero, dedita appunto al culto della Madonna dell’Alica. Qui era custodita una statua di marmo bianco raffigurante la Madre con Bambino della scuola di Antonello Gagini che oggi si trova nella Chiesa parrocchiale.

Il borgo di Pietrapennata è antico, secondo la tradizione orale, fondato dai Cavalieri di Malta, prima che il piccolo centro venisse distrutto nel 1696, come riportato in documenti d’archivio. Il suo nome ha un’etimologia contesa tra il riferimento alla collocazione del borgo adagiato sulla ‘rocca di Sant’Ippolito’ come una ‘piuma di pietra’ e il termine dialetto ‘pinnata’, ossia ‘capanna’ al quale potrebbe corrispondere il significato ‘pietra della capanna’. Lo scrittore inglese Edward Lear, nel suo viaggio nel Sud d’Italia, ha descritto così questo suggestivo luogo, il 5 agosto 1847:

“Come era squisita la dolce luce e l’aria del giorno, il profondo burrone pieno di edera, il mulino e la discesa al lato opposto, dove i boschi incomparabili bordavano la radura come parchi, o formavano dei paesaggi magnifici con i loro grigi tronchi e rami sparsi sopra rocce e valli strette! Oh, boschi rari di Pietrapennata! Io non ricordo di aver visto un più bel posto di quello della «roccia alata», nominata appropriatamente «piumata» com’è sin dalla base alla cima”.

Palizzi rimase dei Ruffo – ramo di Palizzi – Brancaleone – per generazioni, seppur con qualche breve interruzione determinata da contese dinastiche tra Angioini e Aragonesi. Nel 1505 il matrimonio tra Geronima Ruffo e Alfonso de Ayerbo d’Aragona avviò un avvicendamento di baronati: Troiano Spinelli, Ayerbo d’Argona, Romano di Messina – Giacomo Colonna Romano si deve l’apposizione dello stemma araldico all’ingresso del castello – Arduino di Messina fino alla vendita della terra nel 1751 ai De Blasio che ne restarono proprietari fino al 1806.

“Selvaggio e straordinario, così definiva sempre lo scrittore viaggiatore inglese Edward Lear il luogo natio dei fratelli Misefari, l’anarchico e poeta Bruno, lo storico e antifascista Enzo, il calciatore Ottavio e il biologo e attivista Florindo”

Sotto il ponte tra le contrade Murrotto e Stracia, la sua fiumara, secondo alcuni, divideva l’antica Rhegion da Locri Epizefiri; un confine strategico secondo altri rappresentato invece dalla fiumara dell’Amendolea. Ne riferisce il geografo greco Strabone (I secolo a.C.): « Il fiume Alece, che divide il territorio di Rhegion dalla Locride passando attraverso una profonda valle, ha questa particolarità riguardo alle cicale: quelle sulla riva locrese cantano, mentre quelle sull’altra riva non hanno voce. Si congettura che ciò ne sia la causa: le seconde si troverebbero in un luogo ombroso, cosicché le loro membrane sarebbero sempre umide e non si distenderebbero mai; le prime, invece, stando in un luogo soleggiato, avrebbero le membrane asciutte e simili al corno, così da essere ben adatte ad emettere il suono ». (Strabone, Geografia, VI, I, 8). Alle pendici di una rupe di arenaria, incastonato il borgo di Palizzi (Superiore); in alto un antico castello, posto a 272 metri sul livello del mare, domina il comune più a Sud dell’Italia. Su una rocca di arenaria si erge, dunque, il castello di origini medievali, ricostruito alla fine del Settecento dalla famiglia Colonna e poi ristrutturato e ampliato dal barone Tiberio De Blasio nella seconda metà dell’Ottocento. Durante i bombardamenti degli Alleati su Reggio, vi si rifugiò Carlo De Blasio. Che il castello, dichiarato Monumento Nazionale dal Ministero ai Beni culturali, fosse cinto da mura con due torrioni emerge da un certificato del Mastro d’atti di Palizzi, Saverio Grimaldi, di fine Settecento. Non solo mura di cinta ma anche una grande scala con una sola finestra, la cucina, un’anticamera, poi altre stanze, magazzini e cantine e fuori le alte mura di cinta con poderosi bastioni, bocche da fuoco lungo il ciglio del costone roccioso con feritoie. Anche due torri, una cilindrica merlata sul versante est e una angolare sul versante opposto. Nella roccia viva ricavate le carceri. Vicoli stretti e caratteristici catoi segnano un percorso suggestivo che dal Castello conduce al borgo (e viceversa). Sulla piazza principale si affaccia la Chiesa di Sant’Anna (patrona del paese), con la statua in marmo della Santa con la Madonna in braccio della scuola del Mazzolo in fondo all’abside ed un complesso di statue, tra cui la scultura lignea dedicata a Sant’Anna, commissionata nel 1827 dall’ultimo barone di Palizzi, Tiberio De Blasio. Alla seconda metà del Cinquecento risale la cupola bizantina dell’edificio seicentesco con pianta a croce Latina. In questa parrocchia, il vescovo Stavriano, istituì la prima comunità latina della diocesi, dentro la quale non era consentito l’ingresso ai greci, dediti pertanto all’agricoltura e alla pastorizia. L’altra chiesa del borgo fu eretta alla Madonna del Carmelo. Essa risale alla seconda metà del 1500 e la sua denominazione spesso comprende anche la dicitura “fuori dalle mura” (“extra moenia”), poiché fu costruita dopo il completamento del tracciato delle mura di protezione.

“Il culto mariano a Palizzi nell’incontro tra la Madonna del Carmelo e la patrona Sant’Anna” A te, Carmen, legata come me a questi luoghi che già, insieme, ci custodivano

Apparsa anche sul monte Carmelo della Galilea nel 1251 essa è una delle linfe del culto mariano diffuso in tutto il mondo, dunque anche in Italia ed in Calabria. Si tratta della beata Vergine Maria del Monte Carmelo, festeggiata il 16 luglio. Una devozione che, non solo in Calabria, intreccia indissolubilmente storia, religiosità e sentimento popolare e che alimenta da secoli la devozione della Vergine Santa attraverso culti mariani tra i quali anche quello della madre di Maria, Anna. Sterile e poi graziata dalla Maternità per salvare l’Umanità, Sant’Anna fu moglie di Gioacchino e nonna di Gesù, zia di Elisabetta madre di Giovanni Battista. Il suo culto è antico e nasce in Oriente ai tempi di Giustiniano (550 d.C.) per poi diffondersi anche in Occidente. La sua festa, il 26 luglio, è occasione di celebrazione di speciale devozione in molti luoghi. Tante le comunità italiane poste sotto la sua protezione, come quella della omonima frazione di Seminara nel reggino e di Palizzi, che ancora oggi celebra questa tradizione religiosa con una festa molto sentita. A Palizzi, in particolare, la devozione alla Madonna del Carmelo e a Sant’Anna si intrecciano e, attraverso l’incontro della Madre con la Figlia in processione, danno vita ad una tradizione che, nel mese di luglio in cui ricadono entrambe le festività religiose, anima l’antico borgo. A Palizzi, infatti, già dai primi di luglio cominciano i festeggiamenti mariani che culminano, nella giornata del 26 luglio con i festeggiamenti in onore della patrona Sant’Anna, passando anche per il 16 luglio, giorno della Madonna del Carmelo. All’inizio del mese di luglio dalla chiesa di Sant’Anna di Palizzi esce la statua della Madonna del Carmelo e in processione per quattro chilometri di strada impervia giunge alla chiesa della Maria del Carmelo, accompagnata da canti, balli e dal suono di organetti e tamburelli. Il ritorno della Madonna del Carmelo a valle ha luogo la sera del 25 luglio quando la statua della madre Sant’Anna esce ad accoglierla e, anch’essa portata in processione sulle note della banda di Palizzi, va incontro alla Figlia lungo le vie del paese. Si tratta di una tradizione antica e ancora molto sentita che affonda le radici in un profondo sentimento religioso che continua a scrivere la storia di questo luogo.

 

By Anna Foti

Page 5 of 15

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén