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Sulle orme degli Armeni nella Brancaleone Antica

Popoli solo apparentemente lontani che in un passato più o meno recente, comunque ricco e degno di una terra crocevia del Mediterraneo, hanno vissuto e lasciato tracce ancora oggi da riscoprire, studiare e interpretare nella nostra Calabria e oltre. E’ il caso degli Armeni, vittime della persecuzione ottomana durante la Prima guerra mondiale e del primo genocidio del Novecento.

Durante la nuova ondata anti cristiana di siriani e turchi islamizzati, verso la fine dell’ottavo secolo d.C., gli Armeni approdarono anche sulla coste calabresi, in particolare sul litorale reggino, per rifugiarsi sulle alture. Pare che un gruppo si fosse raccolto in solitaria preghiera tra le montagne – secondo le regole del monachesimo orientale diffusosi anche in Armenia grazie all’opera di San Basilio – per sfuggire alle incursioni degli arabi provenienti dal mare. Qui coltivarono usi e tradizioni religiose e intrapresero attività agricole come la vinificazione, con la creazione di veri e propri Silos per custodire le derrate alimentari.

Di questi ultimi tracce esistono ancora tra i ruderi di Brancaleone, a Reggio Calabria. Segni significativi di questo passaggio armeno sopravvivono oggi nella toponomastica (la Discesa Armena a Bova o la Rocca Armena a Bruzzano Zeffirio), nell’onomastica e nell’archeologia, con alcuni reperti che richiamano i motivi religiosi della Croce e dei Pavoni rinvenuti negli attuali comuni di Ferruzzano, Casignana e Staiti, sempre nel reggino. Tra questi luoghi in Calabria, uno ha rievocato, proprio nel 2015 in cui ricorreva il centenario del primo genocidio del XX secolo che ebbe come vittime gli armeni, il primo popolo Cristiano della storia, la presenza di questa antica Comunità.

Questo luogo è stato Brancaleone (anticamente denominato Sperlinga dal termine latino e greco significante caverna), di fondazione greca, culla dei Locresi prima del loro avanzamento, promontorio strategico unitamente a Reggio, Gerace e Bruzzano Zeffirio, dove oggi il rudere di un antico castello, denominato proprio Rocca Armenia, custodisce in una grotta segni di celebrazioni religiose tipiche della cultura del più antico popolo Cristiano. Brancaleone superiore con lo sviluppo della Marina, nella seconda metà del Novecento, fu abbandonato. Oggi conserva il fascino di un luogo antico che custodisce anche i ruderi di una chiesa rupestre, probabilmente unica nel suo genere a queste latitudini e di cui ne esisterebbe una simile solo in Georgia.

All’interno di essa, nell’ambito dell’attività di valorizzazione e promozione del territorio della Pro Loco di Brancaleone guidata da Carmine Verduci, al seguito degli appassionati come il medico scrittore Vincenzo De Angelis e Sebastiano Stranges, già ispettore onorario del Ministero dei Beni Culturali, si è svolta nel 2015 una cerimonia con canti armeni e fiori di ginestra posti dove un tempo sorgeva l’altare e dove ora è possibile intravedere, su un muro di antica arenaria, una Croce armena e un Pavone adorante. Al centro della grotta l’emblematico Albero della Vita. Una delle tracce più significative che attestano l’antica presenza del popolo armeno in questi luoghi. Oggi tale chiesa rupestre appare posta sotto il castello Ruffo eretto ne 1300, di cui divenne la prigione. Accanto ad essa dei cunicoli scavati nella roccia (silos).

Poco più su, ciò che rimane della Chiesa proto papale che sorgeva nell’antica Brancaleone e che, secondo le ricostruzioni, era di stile romanico con campanile e orologio, tre navate e affreschi ai lati. Essa crollò nel 1944, ma già nel 1935 era stata edificata quella dell’Annunziata poco più giù, abbandonata unitamente all’intero borgo in modo definito nel 1956.

In quello che oggi è ormai il parco archeologico urbano di Brancaleone Vetus, accanto alle tracce armene, vi è anche ciò che resta della devozione alla Madonna del Riposo. E’ un legame antico quello tra la Calabria e il popolo Armeno. Tra i tanti punti di contaminazione anche la storia di Paolo Piromalli, arcivescovo cattolico e missionario, originario di Siderno, e autore nel Seicento del dizionario Armeno.

Una storia da riscoprire che contribuisce a riscattare l’identità di un popolo di cui – pensando alla ostinata e intransigente posizione negazionista della Turchia sul genocidio – si perseguita anche la memoria.

 

Si ringrazia Anna Foti per questa straordinaria testimonianza

 

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il terremoto del 1783

Il grande terremoto del 1783 attraverso i documenti.

Il terremoto del 1783 fu una delle più gravi crisi sismiche della Calabria che colpì con violenza ogni città, ogni villaggio, ogni zona montuosa, collinare, costiera o pianeggiante della calabria. Un sisma che ebbe una durata davvero significativa, con 11 mesi di scosse continue e magnitudo considerevoli se pensiamo che registrò scosse comprese fra il 10°  e 11° grado della “scala Mercalli”.

Con questo articolo racconteremo uno stralcio di cronaca e più precisamente ci si concentrerà sul territorio di Bagnara, Scilla, Reggio Calabria, Palmi e Seminara (per citarne alcuni). Uno spaccato di storia che ancora vive attraverso la cronaca dei documenti antichi, che ne descrivono scenari inquietanti, arricchiti di particolari che ancora oggi fanno venire i brividi.

 Il Presagio:

I segnali premonitori da una Natura inquieta. Ma cosa stava per accadere nel Canale di Sicilia ? E’ sufficiente richiamare qualche episodio per rendersi conto della situazione.

Dopo un fine Inverno freddo e ventoso, ai primi di Maggio del 1782, l’aria sul Canale cominciò a stabilizzarsi verso una calma totale. Non una nuvola e alito di vento per tutta l’estate. La siccità s’impadronì di boschi e colture e durante gli assolati pomeriggi di luglio e agosto, cominciarono a manifestarsi autocombustioni; bruciavano ampie zone delle colline sistemate a vite che da Bagnara salivano verso Solano e Seminara, le costiere di Scilla e Palmi. Chi usciva durante le ore assolate, veniva investito da folate di afa rovente e avvertiva pesantezza nel camminare, quasi che l’aria fosse di consistente spessore e s’opponesse allo sforzo d’incedere. Linee di calore,quasi delle lingue di fuoco, salivano con alternante continuità verso i paesi delle Serre, fino a oltre Tiriolo.

Fra la fine di Settembre e l’inizio di Ottobre, brezze fresche cominciarono a incunearsi nella secca di calore che attanagliava la Calabria meridionale. Il mare del Canale s’andava increspando per vasti tratti, finché venti impetuosi investirono le anse e le colline trasportando ripetuti temporali. Fra Novembre e Dicembre le piogge divennero violente. Le prime furono assorbite dal terreno come se fosse costituito da sabbia, finché cominciò a saturarsi. Il 6 e 7 dicembre un muro di pioggia si rovesciò sul Canale, fra Scilla e Bagnara, e nella notte del sette i temporali rafforzarono e in mezzo a un turbinare di lampi e tuoni, i torrenti strariparono. Il Canaletto ruppe a Bagnara gli argini invadendo il Borgo con sassi, fango e detriti boschivi d’ogni genere. A Nicastro il Terravecchia sorprese gli abitanti nel sonno trascinandone alcuni nella piena di fango e acqua e distruggendo infrastrutture e abitazioni attigue agli argini. Alluvioni si stavano verificando anche in altre aree calabresi, tant’è che a metà Gennaio 1783 risultavano isolati numerosi villaggi dell’interno a causa delle frane e dei ristagni d’acqua a che non defluivano correttamente. A metà Gennaio inoltre, si avvertì una leggera scossa di terremoto, una specie di “brivido” che sorvolò le anse del Canale risalendo fino ad Aspromonte. Ma non provocò danni e dunque passò pressoché inosservata. Fra Gennaio e Febbraio 1783, il tempo si calmò. L’aria «si fermò» e ora sembrava costituita da strati sovrapposti: fra un primo, fermo e grave e un terzo di eguale natura, ne correva uno costituito da caligine che si muoveva da Palmi e Bagnara verso il centro del Canale.

Solo un fenomeno, iniziato verso la metà di gennaio, seguitava a preoccupare i pescatori: le correnti del Canale non erano più regolari. I pescatori guardavano il mare e non riuscivano a capire quello sconvolgimento di orari fra Flusso e Riflusso e le stesse caratteristiche delle correnti.

Nella notte fra il 4 e 5 Febbraio, i marinai di una nave svedese che s’apprestava a doppiare il Capo Peloro per uscire dallo Stretto di Messina, osservarono che in profondità nel mare scuro, improvvisamente apparivano strani bagliori e globi luminosi si spostavano velocemente per poi scomparire, fenomeno frammisto a lingue di fuoco che dalla profondità raggiungevano la superficie. In quei frangenti il Capitano della nave svedese s’accorse che l’acqua del mare era divenuta calda.

Ci fu chi scorse nella notte un bagliore che provenendo dal Nord, “invase” lo Stretto diradandosi quasi subito. Ne scrisse anche un testimone oculare, Alberto Corrao.

Mercoledì 5 Febbraio, la caligine si compattò in nuvoloni che stazionavano a poca altezza dal suolo e riflettevano l’immagine sul mare grigio. La nebbia avvolgeva il Sant’Elia e il promontorio di Scilla. Difficile scorgere Messina perfino dalla vicina Reggio. Il sole appariva pallido e torbido. L’aria pesante provocava una caduta di umidità, una specie di pioggerellina monotona che ancora a mezzogiorno non mostrava d’allentare. Gli animali infine, mostravano inquietudine finché a metà giornata cominciarono a dare segni di nervosismo. Gli uccelli si radunavano in stormi e volteggiavano formando ampi cerchi cinguettando con fragore; le galline non stavano ferme e starnazzavano come impazzite; i cani abbaiavano in continuazione e tentavano di svincolarsi dai guinzagli che li fermavano alle pareti o nelle cucce; i maiali neri erano divenuti aggressivi e infine i buoi non si lasciavano avvicinare, vagando innervositi sui prati recintati. Il mare continuava ad avere comportamenti disomogenei; a riva calmo ma non trasparente; al largo e verso lo Stretto, percorso da correnti e «palombelle», tant’è che i pescatori di Bagnara ritennero prudente non “varare”.

A Reggio erano in molti ad essere “in aspettativa” di una grande calamità. Una vergine di un monastero ebbe una rivelazione in tal senso e dunque il Padre Salvo Votano fondatore dei Filippini a Reggio, uscì a predicare energicamente sulle piazze intimando il popolo alla severa penitenza.

Poco dopo mezzogiorno, un contadino s’apprestava a rientrare dai campi sui Piani della Corona,sopra Bagnara, in località Covala di Seminara o meglio in un sito poi detto Lago del Monte. Improvvisamente avvertì un fiero boato proveniente dalle viscere della terra e che si propagò per l’aria unito a colpi battenti della durata di almeno due minuti. La “romba” giungeva da “jusu”,dal Canale e pareva proseguire verso “susu”, seguendo le montagne. Simultaneamente, circa due moggia di terra si misero a ruotare per 180° e poi correre andando a fermarsi quattro miglia a sud. Il movimento lasciò indenne lo sbigottito contadino, rimasto aggrappato a lungo a un piede d’olivo anche dopo cessato il parossismo. Stava accadendo che una serie di scosse della durata di circa tre minuti, faceva precipitare lo sperone calcareo ove stavano adagiate Palmi e Seminara. La coda montuosa si spaccava a forbice: un primo troncone andava spostandosi verso la bassa valle del Petrace scivolando sullo zoccolo granitico che sta nel sottosuolo dello Stretto e sul quale poggia la struttura argillosa delle montagne aspromontane e della Costa. Un secondo troncone scorreva verso Oppido. Dai Piani di Zervò fra Delianova e Platì, la spinta sismica stava producendo una forza enorme sopraOppido, Cosoleto, Castellace, Sitizano e Acquaro. Gli sciami sismici di magnitudo fra il 6,5 e i 7,5 della Scala Richter, si susseguivano variando diposizione e quasi sempre vaste aree furono interessate da sovrapposizioni di epicentri, da Bagnara a tutta la fascia pre-aspromontana da San Luca a Catanzaro. Questa fase si caratterizzò dunque per i biblici movimenti del suolo:insieme al gigantesco avvallamento che si stava formando nel circondario di Oppido, colline e altopiani come Mojo, Croce, Zervò,vennero giù come fuscelli mentre franavano le vette dei monti Jeio,Sagra, Caulone, Esope.

Ove il terreno era compatto, l’urto aprì fenditure, crepacci e oscuri burroni  mentre falde idriche si seccavano oppure ribollimenti portavano in superficie acque evapori che formavano putridi stagni.

A Santa Cristina ci fu un cambiamento di sito: una vigna in cima a una collina, si ritrovò in pianura in un luogo ove sorgeva un oliveto che occupò il suo posto in cima alla collina, il torrente Cumi si“colmò”, così come il Boscaino. Mentre questo avveniva, un gruppo di contadini si vide inghiottire dal terreno e poi rigettare senza che alcuno avesse subito escoriazioni. Una spaccatura lunga 10 miglia si osservò da San Giorgio Morgeto fino alla stessa Santa Cristina. Un cambiamento di sito avvenne anche a Cosoleto: la piana di Cineti sprofondò di ottocento metri, una valle prese dunque il posto di un’ampia pianura. Nel sommovimento, i Principi perirono nello sprofondamento della loro casa. Tutta la famiglia precipitò nei sotterranei del palazzo per il crollo del pavimento ma il Principe ebbe il tempo di scaraventare da una finestra del pianterreno,  il piccolo primogenito, avvolto in un materasso. Si salvò invece a Palmi Pasquale Zaffiati, allievo di Genovesi che risultò poi l’unico a esser stato estratto vivo dalle macerie dell’abitato.

Lo spostamento provocò una variazione di posizione del terreno fra Setizano e la stessa Cosoleto,si ostruì così il corso di una fiumara che allagò parte della regione. Oppido dalle alture che l’ospitavano,si smembrava franando verso il basso da tutti i lati,e si “colmarono” i torrenti Tricozio e Calabrò (o Boscaino). Distrutte a Oppido le famiglie Malarbì, Grillo e Migliorini. Le spallate che dal Sant’Elia salivano verso Aspromonte o scendevano verso la Piana, dopo Polistena e Casalnuovo raggiunsero Terranova che “slamò” nel Metauro con una velocità sorprendente. La tragedia di Casalnuovo e della sua Principessa, fu narrata di voce in voce a Napoli, ove la Principessa risiedeva e da qui in Italia.  Il Palazzo di Donna Teresa Grimaldi, Principessa di Gerace era stato costruito a un piano e spiccava per la sua graziosa architettura fra le sparse case di Casalnuovo, tuffata in mezzo al folto di oliveti secolari. La Principessa stava ultimando i preparativi per trasferirsi nell’altro suo palazzo di Gioja, per soggiornarvi dopo la Quaresima.

Il radiante della Piana colpì Casalnuovo in pieno, inghiottendo gli abitanti. Il palazzo signorile crollò “in un botto” non consentendo alla Principessa e alla sua corte, di salvarsi.

Ci vollero più giorni prima di rinvenire il cadavere della dama, scoperto in un disperato gesto di fuga. Incredibile l’avventura del cuoco di palazzo. Stava lavorando dentro una loggia di legno ov’era sistemata la cucina, addossata alle mura. Quando le mura crollarono, la loggia “scivolò” insieme ad essi, col cuoco dentro, ridotto a un uccello in gabbia. Eppure si salvò. Le spoglie di Maria Teresa Grimaldi furono successivamente tumulate nella Cappella dell’Immacolata,all’interno della Chiesa Madre, fatta edificare da Maria Antonia Grimaldi dopo il 1783. A Casalnuovo (poi riedificata come Cittanova) gli avvallamenti del terreno non furono accentuati. Si trattò soprattutto di un vero e proprio abbassamento generale, tant’è che le rupi ele altre formazioni rocciose, rimasero scoperte. Si salvò solo la bellissima Fontana dell’Olmo, costruita nel 1730 e fu un’ ecatombe: il 5 febbraio in brevi momenti distrusse il lavoro di molta industria umana e cangiò in una scena di compiuto lutto ciò che dianzi sembrava il soggiorno della pace, e delle grazie. I tempi, i ricchi edifici, le umili case divennero in un fiato solo prede fatali di un terremoto, che confuse e annientò tutto in orribile modo.

 

Invece fra Casalnuovo, Radicena e il torrente Vacale, si verificarono avvallamenti repentini e “solenni”. La floridissima area agricola con i suoi molini, trappeti e fabbricati per la lavorazione e conservazione del prodotto agricolo, scomparve radicalmente. La terra sulla quale poggiava Seminara col suo Casale di Sant’Anna,si mosse come se bollisse,formando avvallamenti che si spostavano in continuazione, anche con movimento rotatorio. Questo è quanto accadde alle colline dei Piani della Corona, di Oppido, del Sant’Elia, della fascia pre-aspromontana e di Bagnara: si accasciarono.

A quel punto la furia s’arrestò. Nelle ore successive solo qualche piccola scossa; niente più. Una calma sinistra aleggiò fra le vie dei paesi diroccati mentre dalle macerie fumanti salivano i lamenti dei sotterrati e chi era scampato,  vagava piangendo di disperazione. La sera piombò sul Canale come un incubo.

Nella notte fra il 5 e il 6 febbraio infatti, un’altra scossa investì la zona terremotata. Il radiante sismico attraversò il Canale piegando sulla Piana per poi frustare la zona delle Serre. Da qui si diresse verso lo Jonio scaricando a mare una forza violenta. A seguito di questo evento, crollò a Bagnara il ponte sullo Sfalassà, costruito nell’ambito del progetto per la “Regia strada litorale”. La frana trascinò anche la grande torre di guardia o “specola” che sovrastava Bagnara, a ridosso dell’antico Passo di Solano,costruita a guardia del passo medesimo e “difesa contro i ladroni”. A fianco di Cocuzzo, proseguendo verso nord, dalla collina Giangreco si staccava una frana di un miglio quadrato e, sempre proseguendo, accadeva lo stesso per le colline rasolate; Acquaranci, Canalello, Caciapullo e Malarosa.Il movimento della Malarosa seccò il millenario corso del Gazziano, che aveva garantito l’approvvigionamento idrico della Città e del comprensorio agricolo a nord del Paese. Sopra la Malarosa, il grandioso comprensorio del Mastio di Barano si abbassò di livello sotterrando parte del bacino idrico che alimentava l’Altopiano. Il radiante sismico raggiunse da qui anche il monte Sirena che s’accasciò su se stesso coinvolgendo il quartierino orbitante intorno alla chiesa delle Anime del Purgatorio. In poco più di due minuti, a seguito di questa seconda scossa, Bagnara venne annullata nell’intera struttura produttiva, cambiata nella fisionomia, cancellati i cognomi di moltissime famiglie. Il cielo era rischiarato dagli incendi. Bruciavano: le rovine della Reale Abbazia, il Convento sede dell’antico, nobile Priorato voluto dall’Imperatore Federico II, la chiesa del Carmine eretta a Congregazione di Spirito il 16.9.1683 dal Duca D. Carlo Ruffo, San Nicola, eretta a Congregazione di Spirito nel 1710 dal Cardinale D. Antonio Ruffo, San Francesco di Paola e il Convento dei PP. Paolotti fondato nel 1683 da D. Enrico Ruffo, la chiesetta di San Sebastiano di jus patronato dei Signori Sciplini, la chiesa di S.Maria degli Angeli e parte del Convento dei PP. Cappuccini, fondato nel 1590, la Cappella di San Giacomo appartenente alla Commenda di San Giovanni di Malta dei Nobili Cavalieri difensori della Sacra Religione. Incendi anche fra le rovine dei magazzini del Duca, i palazzi signorili del Borgo che pure erano parzialmente resistiti al sismo diurno,  il fasciame delle baracche; perduti i depositi di grano, gelso,vino, olio e legname. Grave la situazione dell’approvvigionamento idrico perché le fontane non ricevevano più acqua e dei collegamenti viari coll’esterno ma anche all’interno del Paese ove le stradine Croce e Pinno, franate, erano state fino a quel momento il raccordo fra Borgo e Purello.

Nessuno poté ricevere soccorso perché gli scampati, usciti allo scoperto con circospezione e piangendo di terrore perché atterriti dai ciclopici movimenti del suolo e delle colline, non pensarono che a riparare sugli spianati di Martorano o lungo la via del Mare.

Molte scosse di bassa e media intensità iniziarono a manifestarsi, con repliche poi per tutta la notte,rischiarata dai bagliori degli incendi a Bagnara: una storia millenaria testimoniata da opere, uomini e fatti, strutturata per perpetuare la colossale opera dei padri, tutta dedicata per rendere felice la terra natia, era stata cancellata. Era stato neutralizzato il nesso passato-presente verso il futuro che, attingendo dal ciclo naturale della vita che per indole evolve accumulando esperienze e opere delle generazioni, aveva a Bagnara innescato un ciclo economico in progresso, poggiante su un senso di civile comunità della gente,ereditato dal cosciente coinvolgimento degli avi che bene avevano saputo coniugare le necessità della vita civile con le coscienze spirituali e la vocazione di essere in tanti in un’unica comunità.

IL Maremoto: “il massacro continua”

Giunse la sera anche sulle altre anse del Canale. Nessuno dei terrorizzati abitanti della Costa, si rammentò di quanto avvenuto nel pomeriggio. L’abbassamento dell’altopiano della Corona, del Mastio di Barano e del Sant’Elia, stava formando ondate di flusso e riflusso lungo la costa. Al largo fra Nicastro e Gioja nel pomeriggio, s’erano formati due cavalloni di circa 25 metri,l’uno si perse verso il largo, l’altro investì Nicotera mentre il mare si ritirava fra Gioja e il Mésima, ritornando poi come valanga d’acqua, cavalloni di venti metri, che devastò la foce del Metauro riempiendo di sabbia il Pacolino. Né rammentò che il mare era deserto perché al mattino del 5, i pescatori da Bagnara a Palmi, Bivona e Pizzo, avevano guadagnato gli scali e portato a secco le imbarcazioni, spaventati per aver notato allargo il mare sconvolgersi in un miscuglio di onde che ribollivano e gorgogliavano.

Una specie di torpore s’era impossessato dei terremotati che altro non facevano, nei momenti a ridosso dei parossismi, che cercare spazi aperti ove gettarsi a terra a faccia in giù per tentare di sfuggire al terrore.

A Bagnara la gente aveva abbandonato Purello. Il quartiere normanno, costituito da antiche abitazioni contadine di povera fattura, i “Pagghiari”, frammisti a case “solarate” magnatizie, era crollato con un effetto domino: le case della Livara erano crollate addosso a quelle del Borgo dell’Immacolata e queste su quelle del Pinno e del Castello. Le strette viuzze si erano così riempite di macerie e l’abitato divenne impraticabile per i primi tentativi di soccorso. I Bagnaroti erano sulla spiaggia a osservare gli ultimi focolai della Città che era bruciata per un giorno intero o si dedicavano a preparare grandi pire ove collocare i cadaveri. Quando sopraggiunse la notte, la spiaggia di Bagnara sembrava un cimitero all’aperto ove le cerimonie delle cremazioni, fra pianti e tremolii di terrore, si susseguivano senza interruzione. Anche a Scilla, la gente non si rammentò di alcune particolarità accadute nel pomeriggio, pervasa com’era, dal terrore per i crolli e le scosse. Domenico Puntillo (o Pontillo. Si trovava alla Chianalea (gergo attuale dell’antica denominazione Piano della Galea) e colto dal terremoto di mezzogiorno, aveva cercato rifugio su uno scoglio grande ed esteso, che raggiunse annaspando in mare. Lo seguirono colà la sorella e due nipoti. Da quel sito Puntillo s’accorse che il mare stava ritirandosi. Altro terrore ma nessuno osava saltare a riva, dove il terrore era maggiore e regnava sovrano fra gli scillesi che urlando, tentavano di mettersi in salvo.

Arrivava in quel momento da Bagnara la barca di Totò Costa, cognato del prete, colto dal terremoto al largo della stessa Bagnara. Preoccupato per la sorte della moglie, aveva vogato da esperto e con la forza della disperazione, ma non riusciva ad avvicinarsi allo scoglio perché il mare seguitava a ritirarsi e cominciava ad agitarsi. Poi il mare iniziò a bollire e la marea avanzò gradatamente verso la riva. La cerniera della Chianalea smorzò l’effetto sulla rada. Costa riuscì a governare durante il reflusso del mare, fu mandato distante dalla marea ma riuscì a tornare e caricare la moglie e il Puntillo raggiunsero la riva, ora distante e il prete condusse tutti in alto chiamandosi dietro numerosi cittadini terrorizzati. L’episodio parve occasionale e intanto giungeva la sera. Durante il giorno poi, s’erano verificati sprofondamenti sulla costiera scillese e le antiche caverne “ululanti” erano scomparse negli abissi. Alla Marina Grande gli Scillesi attrezzarono una specie di grande accampamento, utilizzando tende e coperte stese fra una barca e l’altra o ricoverandosi nelle palamatare più grandi. Sull’arenile aveva trovato rifugio anche il Principe D.Fulcone A. Ruffo. Don Fulcone non era riuscito a raggiungere la sua tenuta del Parco, sull’altopiano San Gregorio perché la strada era ostruita dalle rovine del Palazzo dei Signori Nizza, alla salita di San Giorgio.Voleva comunque abbandonare il Palazzo della Chianalea, dopo aver assistito al crollo di un’ala, e al crollo dell’antica Chiesa di S. Pancrazio. L’ottantunenne Don Fulcone, in lettiga, raggiunse dunque la Marina accompagnato da Don Carlantonio Ruffo, abate di Sinopoli, ricoverandosi nella grande paranza di Padron Mommo Baviera,che era stata tirata a secco accanto alla Chiesa dello Spirito Santo. Don Fulcone piangeva disperato. Chiamò da parte Padron Mommo, prese la mano al capo dei Marvizzi  e la chiuse fra le sue cercando, implorante, il suo sguardo: “Perdono!” scongiurò il vecchio feudatario a Padron Mommo. In quella che sembrò più di una confessione, Don Fulcone si pentiva peri mali causati agli Sciglitani e adesso li abbracciava tutti come figli ritrovati, adesso che il dolore tutti accomunava.

Quando la notte avvolse la Marina Grande, bruciava ancora l’altura di San Giorgio con la vicina Chiesa del Rosario.

I sinistri bagliori rischiaravano la spiaggia consentendo così agli Scillesi di finire di ricoverarsi fra le barche in secca, seguendo l’esempio del Principe Ruffo e del suo seguito. Iniziò a piovere e verso l’una e mezza la pioggia spense l’incendio di San Giorgio.I duemila scillesi della spiaggia, rimasero nel buio totale. Silenzio assoluto che faceva ben percepire il leggero scroscio della pioggerella sulle tende e gli armamenti di legno dei navigli. Ma all’improvviso ecco un fiero boato: la scossa fu violentissima, repentina, e falcidiante per Bagnara,come abbiamo notato. Tre minuti di terrore fecero assestare le precedenti frane. A Tiriolo, le punte di una croce di ferro che sovrastava l’entrata della chiesa dei Sette Dolori, le catene di ferro che l’assicuravano al tetto e i fili di ferro delle campane, furono pervase da «scosse scintillanti». Scintille scaturenti dalle strutture metalliche degli edifici, simili a quelle delle catene del campanile a ridosso dell’Abbazia di Bagnara, furono notate ovunque nei paesi terremotati, così come esplosioni di grossi macigni e fuoruscite di vapori dai terreni. Poi un piccolo intervallo di grande silenzio. Quindi dalla parte di Capo Pacì s’udì un fragore immenso che rimbombò nelle orecchie degli scillesi per lo spostamento d’aria che accompagnò l’orrendo rumore. Rumore che fu percepito come se una grandissima macina fosse nell’atto di tritare pietre e poi movimenti d’acqua frammisti a tonfi e fragori di grandi impatti di scogli l’uno contro l’altro. Ma fu questione di secondi.

Gli scillesi ebbero appena il tempo di voltare gli sguardi verso la sorgente di quei fragori biblici per rendersi conto di cosa fosse, quando videro venire verso di loro un altissimo e fragoroso muro d’acqua alto trenta metri, colla velocità di oltre 6 chilometri al minuto. Il maremoto s’era innescato all’imbocco del Canale, a seguito delle sollecitazioni delle numerose e continue scosse di piccola e media entità e del parossismo finale sul radiante sismico che dalle falde pre-aspromontane era sfogato sul Canale e nei fondali dello Jonio dall’altra parte,ove colpì impietosamente Roccella. Qui il mare raggiunse, in alto,il convento dei Minimi depositandovi numerose barche di pescatori. Intere borgate di pescatori furono stravolte da Grotteria a Bova a Giojosa.

In Ricordo delle 50.000 persone vittime della più grande catastrofe che colpì l’Italia meridionale nel XVIII secolo.

 

TRATTO DA:

Civiltà dello stretto “Quaderni Bagnaresi” di Clemente Puntillo

amendolea

Amendolea; bagliori d’argento di una storia millenaria

Uno scrigno lucente in cui ogni ciottolo è pietra preziosa che risplende dal passato, incastonata in una valle antica; un affresco luminoso in ogni stagione dell’anno, anche in attesa del sole e illuminato dalla luna; un narratore silenzioso di Storie di popoli e culture al cospetto delle maestose montagne dell’Aspromonte. Un lungo e sinuoso filamento d’argento di giorno e un affascinante cratere lunare di notte: così la vallata dell’Amendolea si mostra in tutto il suo incanto e, nel cuore dell’area grecanica che la custodisce, narra millenni di storia. C’è una magia palpabile in questo luogo saldato tra cielo e terra.

AMENDOLEA

Frazione del comune di Condofuri, Amendolea (Amiddalia – Amigdala in greco di Calabria mandorleto) deve con ogni probabilità il suo nome ai mandorli in fiore che un tempo copiosi popolavano gli argini. La fiumara, il corso d’acqua più importante della provincia di Reggio Calabria, lungo 36 chilometri, un tempo navigabile secondo la penna antica e autorevole di Strabone, ha lasciato tracce vive in quello scroscio leggero e armonioso delle acque e in quel flusso trasparente che scorre delicatamente sopra le pietre a mormorare, a sussurrare instancabilmente che la storia da lì è passata lasciando segni. Oggi quel che sopravvive di questo torrente è traccia suggestiva, capace di ispirare rievocazioni intense di quanto maestosa essa sia stata al tempo dei Greci.

E’ ancora controversa se fosse questa o la fiumara di Palizzi a dividere le due gloriose colonie Magno greche di Rhegion e Lokroi Epizephirioi.

Dall’Aspromonte fino al mar Ionio, la fiumara dell’Amendolea approda al mare dopo aver bagnato Roccaforte del Greco, Roghudi e Condofuri, mentre Bova resta a dominare la valle ellenofona. Attraversa gole e dirupi, delinea curve e pendii, fluttua nelle cascate di Maesano e nel lago Olinda, in prossimità della contrada Santa Triada di Roccaforte del Greco, fino alla sua massima espansione in larghezza (pari a 500 metri) quando incontra il torrente Colella. Accoglie le acque del Menta nel suo incedere a valle e, giuntovi, accoglie la fiumara di Condofuri segnando nella montagna la Rocca del Lupo.

A dominare la vallata, il suo borgo di cui vi è traccia documentata dal 1099. Raggiunto a piedi dopo una salita ripida e addolcita da una flora variegata e pregna di tradizioni e memorie e dalla storia delle ere geologiche impresse sulle rocce, esso si presenta con un piazzale dal quale è possibile guardare ai ruderi dell’abside della chiesa di Santa Caterina, al campanile della chiesa di San Sebastiano, ai resti delle abitazioni private e a quelli della chiesa dell’Annunziata, orientata ad est, secondo la tradizione religiosa orientale.

Domina la vallata anche il Castello di epoca normanna che attraversò secoli e casate fino a giungere ai Ruffo di Bagnara, che la abitarono per ultimi quasi fino al 1800. Di esso restano rovine parlanti, come le avrebbe definite il giornalista e scrittore viaggiatore triestino Paolo Rumiz (qualora si fosse recato nel reggino anche lì oltre che ad Africo e Ferruzzano nei suoi viaggi tra le Dimore nel Vento); rovine che incorniciano il cielo e conducono ai resti di una cappella costruita in età normanna che nel suo secondo livello rivela la presenza di una chiesetta a pianta absidale, bizantina e pertanto orientata a sud.

Sui muri nessuna traccia degli affreschi, che pure ci saranno stati ad adornarla, e lì anche i resti di una piccola cisterna, anch’essa molto antica. Un grande camino fu costruito tra il XIII e il XV secolo. I suoi resti, con le altre rovine, sono sopravvissuti ai sismi del 1783 e del 1908.

Da vedere anche la chiesa nuova dell’Annunziata, con la Madonna con Bambino in marmo bianco della scuola del Montorsoli.

Il paesaggio, i colori e anche i sapori tra i bergamotti la cui essenza naturale è commercializzata nel mondo tramite il consorzio Bioassoberg, con sede a Melito Porto Salvo e di cui fa parte anche Ugo Sergi che, con la sua passione e la sua determinazione, valorizza la molteplicità dei prodotti derivanti dall’essenza naturale del nostro oro verde.

Non è solo la storia di questi luoghi a dover essere riscoperta e tramandata, a dover arricchire la nostra conoscenza e sanare la nostra smemoratezza; è anche la nostra economia a doversi interrogare sulla capacità di generare sviluppo, negato in loco e conquistato solo lontano, pur avendo a chilometro zero risorse di primo ordine come il bergamotto e talenti capaci di rispettarne l’essenza e di trarre un profitto etico, in armonia con la natura e l’ambiente.

By Anna Foti

LA VERDE

I segreti più profondi della Fiumara La Verde

 LA FINESTRA TETTONICA DI AFRICO (CALABRIA MERIDIONALE ASPROMONTE)

Dell’Aspromonte conosciamo la sua bellezza, la sua straordinaria capacità di rapirti il cuore, e sappiamo anche le storie, le leggende, le credenze popolari che aleggiano in uno dei territori più mistici dell’intera penisola. Certamente tutto questo non può che far accrescere in noi la consapevolezza di trovarci dinnanzi ad una delle formazioni appenniniche davvero particolari. Il perchè? Lo spiegheremo in questo articolo di carattere scientifico redatto grazie agli studi del geologo Isidoro Bonfà, che traccia un profilo geologico davvero dettagliato, che ci aiuta ad immergerci (se pur virtualmente) all’interno di uno dei Canyon più incredibili della bassa Calabria – Versante Ionico Reggino. Stiamo parlando della Fiumara “La Verde” che dall’interno del suo ventre, scavato per milioni di anni dalla potenza delle acque ci apre un mondo fatto non solo di Calabria…

LA VERDE

L’Aspromonte é l’estremo settore sud della catena Alpina, ed è costituito da frammenti crostali profondi di metamorfiti originatesi in età paleozoica, appartenenti a tre unità tettoniche giustapposte e sovrapposte da faglie inverse ed estesi sovrascorrimenti alpini aventi vergenza a Nord Ovest. Quello che vediamo in questa immagine sono Filladi con plaghe quarzitiche e scisti che affiorano sui ripidi versanti delle gole della fiumara La Verde nel versante ionico dell’Aspromonte.

Il basamento cristallino del margine meridionale della zolla europea che affiora nella Calabria meridionale.

 

Le Unità tettoniche in affioramento nel massiccio dell’Aspromonte dalle più superficiali alle più profonde:

1 – Unità di Stilo: che borda l’Aspromonte dal lato orientale, affiorando lungo il versante ionico del massiccio e si estende ancora più a nord, bordando il rilievi montuosi delle Serre; è l’unica che conserva frammenti della originaria copertura sedimentaria di calcari giurassici
2 – Unità dell’Aspromonte: che costituisce l’ossatura del rilievo montuoso.
3 – Unità di Mandanici: che affiora unicamente un una piccola zona attraversata dalle gole della Fiumara La Verde, nella finestra tettonica di Africo

I litotipi metamorfici di queste tre unità tettoniche si sono originati in età paleozoica nella crosta europea in corrispondenza del suo margine meridionale.
Questo era costituito dalle tre microzolle di Sardegna,Corsica e Calabria che, dall’Oligocene ad oggi, si sono staccate dal golfo del Leone (Marsiglia – Francia meridionale) e sono state dislocate nel mediterraneo, con moti crostali rotazionali e traslativi, dovuti all’interazione tettonica tra le zolle europea ed africana.

Queste tre microzolle, per le rilevanti migrazioni tettoniche subite occupano le attuali posizioni e la Calabria risulta essere un frammento della più antica catena Alpina, che si trova oggi incassata invece tra la più giovane catena appenninica che è posta a nord della linea vulcano-tettonica di Palinuro-Sangineto e quella siculo magrebide, che è posta a sud della linea vulcano-tettonica di Taormina.

Questa nuova catena, con il frammento crostale della Calabria interposto, viene oggi a costituire un unico sistema di rilievi montuosi e collinari, che si estendono con continuità dalla Liguria alle coste dell’Africa settentrionale tunisino-algerine. I terreni delle unità tettoniche metamorfiche, tra cui quelli dell’unità di Mandanici, la più bassa delle tre in affioramento nell’Aspromonte, si sono originati a diversi km di profondità in età paleozoica e sono stati successivamente riesumati e portati in affioramento nel corso dell’orogenesi alpina.

Le metamorfiti delle immagini si sono originate dalla trasformazione, in un ambiente tettonico di medio-alta pressione e bassa temperatura, metamorfismo di seppellimento a partire da una successione di terreni sedimentaria costituita da alternanze di strati di argille limi e sabbie. Dal metamorfismo dei livelli sabbiosi, ricchi di quarzo derivano le plaghe di colore bianco che si vedono nelle immagini, che sono a volte dislocate da faglie dovute alla intensa fratturazione delle unità, che è occorsa durante le fasi di trasporto e di sollevamento tettonico.
Le rocce infatti si presentano intensamente fratturate, a luoghi ossidate e incrostate da mineralizzazioni dovute alle risalite, dalle profondità, di fluidi arricchiti in metalli e solfuri. Tutto questo deriva dalla lunghissima e tormentata storia geologica della Calabria a partire dagli ultimi 350 milioni di anni.

Tectono-stratigraphic and kinematic evolution of the southern Apennines/Calabria–Peloritani Terrane system (Italy) – Evoluzione tectono-stratigrafica e cinematica dell’Appennino meridionale / sistema terrestre Calabria-Peloritani (Italia) Articolo in Tectonophysics – 583: 164–182 · gennaio 2013

 

L’attività sismica di questo territorio è, infatti, tra le più rilevanti dell’intera penisola.

Dall’esame dei dati sismologici storici, infatti, è possibile riscontrare che l’area calabro-peloritana, ivi compresa quella di Aspromonte è stata interessata da frequenti e forti eventi sismici connessi alle strutture tettoniche che attraversano il territorio. Tra gli eventi più energetici e distruttivi, che hanno interessato anche l’Aspromonte Geopark (Figura 4), si fa menzione della sequenza sismica che colpì la Calabria meridionale nei mesi di febbraio-marzo del 1783, caratterizzata da cinque scosse telluriche di notevole magnitudo (5.9 £ M £ 6.9) con epicentri variamente distribuiti lungo l’allineamento tettonico che dal graben del Mesima porta allo Stretto di Messina, e l’evento sismico, con annesso tsunami, del dicembre 1908 (M > 7) sullo stesso Stretto, uno tra i più disastrosi della storia sismica italiana, che provocò circa 200.000 vittime tra Reggio Calabria e Messina e che distrusse parecchi centri abitati nell’immediato entroterra della provincia di Reggio Calabria. Tra gli eventi più recenti, ma comunque contraddistinti da una minore severità rispetto ai precedenti, è da ricordare il terremoto del gennaio 1975 con epicentro sempre sullo Stretto di Messina (catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a.c. al 1990, 2° edizione; da Boschi et alii, 1997).

 

BUON VIAGGIO CON QUESTA CLIP…

Credit:
Carta geotettonica – Aspromonte Calabria
http://www.luniversoeluomo.org/ge…/calabr/immagini/bon2b.jpg

Vedi anche:
http://www.luniversoeluomo.org/geolog/calabr/arco-c.htm

La pubblicazione da cui è tratta la figura della migrazione:
https://www.researchgate.net/publication/256860241_Tectono-stratigraphic_and_kinematic_evolution_of_the_southern_ApenninesCalabria-Peloritani_Terrane_system_Italy

 

By Isidoro Bonfà

 

 

Alla scoperta del borgo di Pentedattilo (RC)

Pentedattilo: cinque dita. Cosi è chiamato questo piccolo borgo arroccato sul monte Calvario nel comune di Melito di Porto Salvo. Un borgo che cattura l’attenzione anche del più distratto, non solo per la morfologia della rocca su cui sorge ma anche per la bellezza della disposizione delle case distribuite lungo una ripida e instabile scoscesa. L’immagine di questo borgo silente è suggestiva tanto da meritargli l’appellativo di “borgo fantasma”.

Dell’antico paese di Pentedattilo si hanno notizie scritte per la prima volta nel IX secolo d.C., epoca in cui era già una cittadella fortificata, e il territorio cui faceva capo era molto esteso – dalle zone marine di Saline Joniche, passando per la Valle del Tuccio e infine arrivando alle zone pedemontane di Bagaladi. Costituì anche un centro nevralgico per l’amministrazione dell’economia agricola relativa ai terreni monastici di tutto il territorio melitese.

Nel 1500 Pentedattilo ebbe per la prima volta un proprietario laico, cioè Michele Francoperta, figlio di Ferrante; nel 1509 il feudo venne acquistato dalla famiglia Alberti di Messina che furono in gran parte protagonisti del clima di rinascita culturale ed economica che il nuovo secolo portò con sé; la casata degli Alberti è diventata famosa in Calabria a causa di un evento funesto: l’eccidio della nobile famiglia, compiuto a opera del barone Abenavoli del Franco di Montebello Jonico.

La strage si consumò la notte di Pasqua del 1686 a causa di dispute sui confini e in parte del rifiuto da parte del fratello di Antonia Alberti di concedere la stessa in sposa a Bernardino Abenavoli. In quella tragica notte venne dato l’assalto al castello e gran parte della famiglia Alberti venne massacrata: non vennero risparmiati né donne né bambini. Nei secoli a seguire Pentedattilo venne dapprima danneggiata dal terremoto del 1783 e in seguito cedette il passo a Melito di P.S., diventando una sua frazione. Oggi la parte antica del borgo è parzialmente in abbandono; ma grazie all’impegno di alcune associazioni sta divenendo un suggestivo centro di cultura e per l’artigianato locale, che si può ammirare nelle casette riadattate a bottega.

Dalla statale 106 è possibile ammirare la sua particolare collocazione che, soprattutto di sera, lo trasforma in un vero e proprio presepe. E’ facilmente raggiungibile in auto ed è possibile visitarlo interamente anche attraverso un percorso di trekking ad anello che consente di ammirarlo nella sua totale bellezza. In modo particolare, al calar del sole, la punta delle dita di questo gigante dormiente si colorano di rosso mentre il tepore dell’aria si fa sempre più denso.

Lo sguardo si perde in mezzo alle infinite vallate circostanti, solcate dalla fiumara Sant’Elia che partendo dagli altopiani dell’Aspromonte e costeggiando le frazioni del comune di Montebello raggiunge la spiaggia di Melito di P.S. per poi perdersi nelle trasparenti acque del mar Jonio. L’erosione di questa rocca di arenaria causata dagli eventi atmosferici la stanno lentamente consumando; anche i ruderi del castello, visibili solo in parte, si stanno progressivamente sgretolando. Probabilmente in futuro resterà ben poco delle antiche vestigia, ma la storia e la memoria di questo borgo continuerà a viaggiare attraverso i racconti e gli scritti, perché la conoscenza non muore ma si conserva nella memoria di chi ama la propria terra.

By Cristian Politanò

La riflessione; Ritorno alla dimensione paese

È vero,  mai nessun ritorno potrà restituirci quello che avevamo lasciato nella medesima forma in cui lo ricordavamo, certo è così. È pur vero che certe sensazioni le puoi ritrovare o anche solo illuderti di farlo, nella tua mente, scavando dove la velocità di una vita normale di solito non ti permette. Ho ritrovato ad esempio un’idea di paese come la possedevo quarant’anni addietro. L’idea di un paese inteso nella sua dimensione fisica e di interazione sociale come unico orizzonte possibile, luogo di inizio e fine di tutto. Chi ha lasciato nel cassetto da tempo i calzoncini corti ricorderà perfettamente come fosse questa la dimensione paese dell’entroterra, sul finire degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta di un secolo che sembra essere volato via già da un secolo.

Era un moto circolare di vita che si esauriva e si rigenerava di continuo dentro un perimetro urbano rimasto sempre uguale, in realtà piccolissimo ma che allora mi sembrava sconfinato. Centinaia di vite e di storie incrociate che avevano un unico sfondo, un unico palcoscenico, storie che nascevano e finivano velocemente lungo quei viottoli che oggi percorro da solo nel silenzio. In questi giorni ho respirato e sto respirando un dejavu tanto acre all’olfatto quanto nitido nelle immagini che riaffiorano.

Ho ritrovato anche un’altra cosa, un’altra considerazione che ho raccolto con le mani da terra e rimesso in testa. Nel tragitto che faccio ogni pomeriggio nel tentativo di sottrarre alla narcosi le fibre muscolari e alla nevrosi quelle cerebrali, in quei quasi cinque chilometri che separano il centro storico dalla montagna e che ti fanno salire dai 900 metri del paese ai poco più di 1100 della fontana di Travi, che incontri lungo il tragitto che porta ai Campi per poi diramarsi verso i centri abbandonati di Africo, Casalinuovo e Roghudi, mi sono riscoperto cantoniere improvvisato.

Che poesia le case cantoniere, dismesse ormai da un ventennio ma inattive da molto più tempo. Poesia vera la figura del cantoniere, richiamo ad un mondo che non c’è più e che funzionava meglio. E mi ritrovo ogni giorno a ripulire la carreggiata dalle scaglie di roccia calcarea che si sfaldano ogni notte finendo sull’asfalto vittime dell’escursione termica. Moto perpetuo quello della roccia da queste parti. Si modella, si sbriciola erosa dal tempo, dalla pioggia, dal ghiaccio, dal sole. Moto perpetuo che diventava dialogo e lotta allo stesso tempo, punto di congiunzione tra uomo e natura, moto che dava un senso, un verso, una dimensione nobile al compito di una figura certo non solo poetica, anzi tutt’altro, assai utile nel suo aspetto pratico.

Oggi razionalizziamo, tagliamo, conteniamo i costi, invece di contenere I problemi, invece di dare risposte ad un territorio che chiama senza che nessuno ascolti. D’altra parte mi dico poi, a che serve questa poetica demodè, il mondo non è più quello di quarant’anni fa e questa roccia,dura tanto nella sua natura geologica quanto nel comprendonio, questo ancora non lo ha capito e forse come lei, neanche io ho capito che chinarsi a raccogliere non serve a nulla, se non a provare la tenuta della schiena.

 

By Gianfranco Marino

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