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Alla scoperta del borgo di Pentedattilo (RC)

Pentedattilo: cinque dita. Cosi è chiamato questo piccolo borgo arroccato sul monte Calvario nel comune di Melito di Porto Salvo. Un borgo che cattura l’attenzione anche del più distratto, non solo per la morfologia della rocca su cui sorge ma anche per la bellezza della disposizione delle case distribuite lungo una ripida e instabile scoscesa. L’immagine di questo borgo silente è suggestiva tanto da meritargli l’appellativo di “borgo fantasma”.

Dell’antico paese di Pentedattilo si hanno notizie scritte per la prima volta nel IX secolo d.C., epoca in cui era già una cittadella fortificata, e il territorio cui faceva capo era molto esteso – dalle zone marine di Saline Joniche, passando per la Valle del Tuccio e infine arrivando alle zone pedemontane di Bagaladi. Costituì anche un centro nevralgico per l’amministrazione dell’economia agricola relativa ai terreni monastici di tutto il territorio melitese.

Nel 1500 Pentedattilo ebbe per la prima volta un proprietario laico, cioè Michele Francoperta, figlio di Ferrante; nel 1509 il feudo venne acquistato dalla famiglia Alberti di Messina che furono in gran parte protagonisti del clima di rinascita culturale ed economica che il nuovo secolo portò con sé; la casata degli Alberti è diventata famosa in Calabria a causa di un evento funesto: l’eccidio della nobile famiglia, compiuto a opera del barone Abenavoli del Franco di Montebello Jonico.

La strage si consumò la notte di Pasqua del 1686 a causa di dispute sui confini e in parte del rifiuto da parte del fratello di Antonia Alberti di concedere la stessa in sposa a Bernardino Abenavoli. In quella tragica notte venne dato l’assalto al castello e gran parte della famiglia Alberti venne massacrata: non vennero risparmiati né donne né bambini. Nei secoli a seguire Pentedattilo venne dapprima danneggiata dal terremoto del 1783 e in seguito cedette il passo a Melito di P.S., diventando una sua frazione. Oggi la parte antica del borgo è parzialmente in abbandono; ma grazie all’impegno di alcune associazioni sta divenendo un suggestivo centro di cultura e per l’artigianato locale, che si può ammirare nelle casette riadattate a bottega.

Dalla statale 106 è possibile ammirare la sua particolare collocazione che, soprattutto di sera, lo trasforma in un vero e proprio presepe. E’ facilmente raggiungibile in auto ed è possibile visitarlo interamente anche attraverso un percorso di trekking ad anello che consente di ammirarlo nella sua totale bellezza. In modo particolare, al calar del sole, la punta delle dita di questo gigante dormiente si colorano di rosso mentre il tepore dell’aria si fa sempre più denso.

Lo sguardo si perde in mezzo alle infinite vallate circostanti, solcate dalla fiumara Sant’Elia che partendo dagli altopiani dell’Aspromonte e costeggiando le frazioni del comune di Montebello raggiunge la spiaggia di Melito di P.S. per poi perdersi nelle trasparenti acque del mar Jonio. L’erosione di questa rocca di arenaria causata dagli eventi atmosferici la stanno lentamente consumando; anche i ruderi del castello, visibili solo in parte, si stanno progressivamente sgretolando. Probabilmente in futuro resterà ben poco delle antiche vestigia, ma la storia e la memoria di questo borgo continuerà a viaggiare attraverso i racconti e gli scritti, perché la conoscenza non muore ma si conserva nella memoria di chi ama la propria terra.

By Cristian Politanò

La riflessione; Ritorno alla dimensione paese

È vero,  mai nessun ritorno potrà restituirci quello che avevamo lasciato nella medesima forma in cui lo ricordavamo, certo è così. È pur vero che certe sensazioni le puoi ritrovare o anche solo illuderti di farlo, nella tua mente, scavando dove la velocità di una vita normale di solito non ti permette. Ho ritrovato ad esempio un’idea di paese come la possedevo quarant’anni addietro. L’idea di un paese inteso nella sua dimensione fisica e di interazione sociale come unico orizzonte possibile, luogo di inizio e fine di tutto. Chi ha lasciato nel cassetto da tempo i calzoncini corti ricorderà perfettamente come fosse questa la dimensione paese dell’entroterra, sul finire degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta di un secolo che sembra essere volato via già da un secolo.

Era un moto circolare di vita che si esauriva e si rigenerava di continuo dentro un perimetro urbano rimasto sempre uguale, in realtà piccolissimo ma che allora mi sembrava sconfinato. Centinaia di vite e di storie incrociate che avevano un unico sfondo, un unico palcoscenico, storie che nascevano e finivano velocemente lungo quei viottoli che oggi percorro da solo nel silenzio. In questi giorni ho respirato e sto respirando un dejavu tanto acre all’olfatto quanto nitido nelle immagini che riaffiorano.

Ho ritrovato anche un’altra cosa, un’altra considerazione che ho raccolto con le mani da terra e rimesso in testa. Nel tragitto che faccio ogni pomeriggio nel tentativo di sottrarre alla narcosi le fibre muscolari e alla nevrosi quelle cerebrali, in quei quasi cinque chilometri che separano il centro storico dalla montagna e che ti fanno salire dai 900 metri del paese ai poco più di 1100 della fontana di Travi, che incontri lungo il tragitto che porta ai Campi per poi diramarsi verso i centri abbandonati di Africo, Casalinuovo e Roghudi, mi sono riscoperto cantoniere improvvisato.

Che poesia le case cantoniere, dismesse ormai da un ventennio ma inattive da molto più tempo. Poesia vera la figura del cantoniere, richiamo ad un mondo che non c’è più e che funzionava meglio. E mi ritrovo ogni giorno a ripulire la carreggiata dalle scaglie di roccia calcarea che si sfaldano ogni notte finendo sull’asfalto vittime dell’escursione termica. Moto perpetuo quello della roccia da queste parti. Si modella, si sbriciola erosa dal tempo, dalla pioggia, dal ghiaccio, dal sole. Moto perpetuo che diventava dialogo e lotta allo stesso tempo, punto di congiunzione tra uomo e natura, moto che dava un senso, un verso, una dimensione nobile al compito di una figura certo non solo poetica, anzi tutt’altro, assai utile nel suo aspetto pratico.

Oggi razionalizziamo, tagliamo, conteniamo i costi, invece di contenere I problemi, invece di dare risposte ad un territorio che chiama senza che nessuno ascolti. D’altra parte mi dico poi, a che serve questa poetica demodè, il mondo non è più quello di quarant’anni fa e questa roccia,dura tanto nella sua natura geologica quanto nel comprendonio, questo ancora non lo ha capito e forse come lei, neanche io ho capito che chinarsi a raccogliere non serve a nulla, se non a provare la tenuta della schiena.

 

By Gianfranco Marino

La riflessione; Sulla riva del fiume, riscoprendo il gusto della lentezza

E rimettiamoci, nell’accezione più ampia del termine, stante la clausura forzata, nelle mani, anzi, ai tasti del Computer, unica via possibile per dare sfogo ai pensieri. A dire il vero il Pc, virus o non virus, rimane per me e per molti, sempre uno dei migliori alleati utili a trasporre pensieri, a fissare sensazioni, a dare forma alle idee. Non è solo uno schermo quello del nostro Computer piuttosto che dell’IPad o del cellulare, è qualcosa di più, è come se in quegli schermi, in quei cristalli liquidi, su quelle tastiere si materializzasse un prolungamento di corpo, anima e cervello. E allora rimettiamoci all’opera, davanti al camino acceso, utile per una volta non solo a fare compagnia, ma anche a scaldare in questo uggioso, freddo e surreale pomeriggio di fine inverno. Sfuggiremo questa condizione onirica, questo è certo, le riprenderemo in mano le nostre vite, non so come, non so quando ma certamente ci riapproprieremo di una quotidianità che oggi, dopo appena pochi giorni di assenza ci manca già moltissimo, e non perché in realtà manchino i gesti, forse molto di più per quella condizione psicologica generata da ogni imposizione, da ogni forma di paura dilagante. Si tratta di un’assenza che ci soffoca, claustrofobica e allucinante che ci pone davanti a scenari da film ambientati in ere post atomiche. È come trovarsi di colpo sbalzati, da una quotidianità sonnolenta al set di Med Max piuttosto che di The Day After Tomorrow. Ricordate le immagini della fuga da una New York coperta da metri di neve, dove orde di lupi andavano in cerca di cibo ? ecco le ho ritrovate quelle immagini nei fotogrammi degli assembramenti alla Stazione Garibaldi a Milano, le ho ritrovate nei volti straniti della gente in fuga da una regione ormai off limits. Passerà l’ondata di piena, non senza conseguenze, non velocemente questo è bene dirselo con franchezza, senza teorie edulcorate e senza catastrofismi, con un pizzico di sano realismo che in questo caso è quantomai necessario, non fosse che per approcciare quello che verrà con la giusta dose di rassegnazione e determinazione, senza scoramenti, senza tentennamenti, con fiducia e precauzione. E così col passare dei giorni, si riducono velocemente i contatti umani, mentre proliferano in maniera esponenziale quelli virtuali, con le piattaforme dei Social prese d’assalto che diventano in questa fase, non più solo terreno di confronto ma per una volta vero e unico spazio di vita e di interazione possibile. Siamo duri di corteccia quassù in Aspromonte, avvezzi a camminare nella nebbia, abituati a sfoderare un senso di orientamento che negli anni è diventato segno distintivo, caratteristica endemica della gente di montagna.

PH. Noemi Evoli

Ci camminiamo da una vita nella nebbia quassù, senza sapere cosa ci si parerà davanti. Nascere e crescere in montagna significa abituarsi all’imponderabile, convivere con la forza della natura e con i suoi malumori, in buona sostanza significa imparare a vivere con poche certezze, senza sapere se quello che hai oggi lo ritroverai domani. Bene, ora nella nebbia ci siamo tutti, immersi in una cortina densa che si attraversa a fatica e ci consegna un senso di smarrimento cui ancora molti non hanno avuto il tempo di abituarsi. Con lo smarrimento si convive, non ignorandolo, accogliendolo ed accettandolo con la giusta dose di pazienza, mettendosi seduti ad attendere come il pastore che aspetta che passi la piena seduto su una roccia, in attesa di far passare il gregge sull’altra sponda. È giunta dunque, al netto da qualsiasi accostamento di alvariana memoria, l’ora dell’attesa e della pazienza, il momento da dedicare alla riflessione sul nostro stare al mondo, sulle nostre paure, e tanto vale dunque sforzarsi di trovare in ogni problema qualche opportunità. Pensavo ad esempio a quanto certe situazioni possano cambiare rapidamente le nostre prospettive, sulla gente, sui fatti, sulle cose e sui luoghi. Ecco parlerei proprio dai luoghi, quelli identitari, solitari, vituperati e tristi che si animano solo nelle sere d’estate quando si cerca riparo dalla calura della costa, quando si sale su spinti dall’afa e dall’inerzia. Parlerei di quei luoghi che oggi, alla luce di questa condizione paradossale possono assumere ed in parte lo stanno già facendo, un nuovo ruolo sociale, diventando valvola di sfogo, polmone utile a regalare una normalità altrove ormai quasi dappertutto preclusa. Riscoprire le periferie, la natura, piuttosto che i centri del nostro entroterra, quelli che consentono di vivere lontano dagli assembramenti, sembra pratica necessaria a far convivere sicurezza e voglia di normalità, medicina utile a combattere una claustrofobia ed un’ansia che crescono col passare delle ore e dei giorni.

Ph. Massimo Collini

È assai curioso osservare come possa cambiare rapidamente una prospettiva conferendo ad un luogo un significato differente, facendolo passare da marginale a necessario, conferendogli il crisma del luogo benedetto, dove ci si immerge come si fa con la mano nell’acquasantiera. Così può capitare che di colpo si passi da una visione di vuoto, di manchevolezza, di limitatezza, ad un’altra di benevola sicurezza, di protezione, con luoghi marginali che diventano porti franchi in cui approdare. In fondo lo dice la storia, quella di queste coste, dove la malaria spinse su per le colline e le montagne migliaia di persone che nell’aria rarefatta trovarono occasione di vita, edificando quei centri che ancora oggi, a distanza di secoli contemplano il mare da lontano. In fondo è solo la storia che si ripete ricordandoci un moto circolare da cui non si sfugge. Riscopriamo dunque il gusto della lentezza, viviamo la solitudine come opportunità e non come limitazione, cogliamo gli odori, i profumi, i paesaggi, con un ritrovato senso del tutto, gustandoli fino in fondo come unica cosa possibile, e magari alla fine di tutto, quando l’onda sarà passata, quando il gregge sarà al sicuro sull’altra sponda avremo ritrovato qualcosa che avevamo perso, perché ogni medaglia ha il suo rovescio ed ogni luogo il suo senso da riscoprire.

 

By Gianfranco Marino

 

Rocca di Varva

Domenica 1 Marzo alla scoperta della Rocca di Varva

Domenica 1 Marzo Kalabria Experience vi porta alla scoperta della Roca di Varva, una particolare conformazione rocciosa dalle sembianze umane. Si trova sul territorio di San Lorenzo proprio vicino al Borgo di San Pantaleone, immersa fra le campagne verdeggianti, caratterizzate da colture di ulivi e vigne, dove lo sfondo del mare contrasta con la bellezza delle colline circostanti.
 
L’ITINERARIO:
 
L’itinerario è dei più semplici; Giungendo al borgo di San Pantaleone, lasciato le proprie auto lungo la strada che porta al piccolo santuario della Madonna della Cappella, percorreremo un tratto di strada asfaltata fino alla chiesetta, visiteremo questo luogo ricco di storia e immerso nella pace e nel silenzio delle campagne, che custodisce un’antica effigie della Madonna col bambino presumibilmente del XI secolo.
Terminata la visita percorreremo la stradina che costeggia il piccolo cimitero e che in leggera salita ci porterà all’imbocco del sentiero che raggiunge la rocca di Varva (scopriremo perchè si chiama così). Sosteremo ai piedi della grande roccia per ammirare tutte le sue più curiose sfaccettature, piantumeremo un alberello in segno di riconoscenza della nostra visita su questo luogo. Al termine della piantumazione dell’alberello consumeremo il pranzo (a sacco) terminata la pausa riprenderemo il cammino sulla strada interpoderale che di li a breve ci condurrà al paese di San Pantaleone, attraverso una discesa su strada che ci farà cogliere le caratteristiche dei vicoli e scorci del borgo fino alla chiesa parrocchiale e la piazzetta con l’affaccio sulla Fiumara Tuccio. Dopo una breve sosta panoramica, raggiungeremo le nostre automobili dove le avevamo lasciate.
PROGRAMMA:
 
Ore 09:30 Incontro/Raduno a Melito di Porto Salvo (imboccando il bivio verso Bagaladi, San Lorenzo, Roccaforte del Greco, Chorio).
 Ore 10:00 Partenza con le automobili verso San Pantaleone
Ore 10:30 Inizio cammino
Ore 13:00 Pausa Pranzo
Ore 14:30 Visita Borgo di San Pantaleone
Ore 16:30 Arrivo al punto di partenza e saluti
 
SCHEDA TECNICA:
 
Difficoltà: T (TURISTICA)
Percorso: strade mulattiere: 60% asfalto, 40% sterrato o sentiero battuto.
Lunghezza complessiva: 4,5km
Durata cammino: 5h (soste incluse)
Presenza d’acqua: all’inizio del percorso e alla fine (San Pantaleone)
I bambini possono partecipare se seguiti e sotto la responsabilità di un adulto
NUMERO MASSIMO ADESIONI: 40
*L’escursione si effettuerà con un numero minimo di 10 partecipanti
QUOTA DI PARTECIPAZIONE:
5€ (da versare all’appuntamento)
 
ATTREZZATURA CONSIGLIATA:
Scarponcini da trekking, Vestuario a cipolla e comunque adatto al periodo, bastoncini da trekk (facoltativi), K-wai,cappellino da sole, occhiali da sole, scorta d’acqua (almeno 1,5lt), Pranzo o spuntino, smartphone e macchina fotografica (facoltativi)
 
*Il partecipante, si assume la sua responsabilità avendo preso visione del programma, esonerando l’organizzazione da ogni tipo di responsabilità, civile o penale che possa insorgere durante la giornata.
 
*Per aderire alla passeggiata basterà chiamare il numero 3470844564 rilasciando il proprio nome e cognome (non sono accettate prenotazioni tramite sms o messaggi whatsapp).
 

Buon cammino

 

Pollìschio; la città scomparsa.

Luoghi, misteri, leggende, avvenimenti storici e luoghi che la terra ha inghiottito nel silenzio. Civiltà che diedero vita ai nostri paesi Aspromontani e pedemontani.  Ci troviamo a sud della Calabria, e precisamente nel territorio di Staiti (borgo medievale a 13 Km dalla costa jonica, posto a 550mt s.l.m.). La località in questione, si trova a pochi passi dall’abazia di Santa Maria di Tridetti accanto al torrente Fiumarella (oggi un rigagnolo ma un tempo di portata consistente). Questo edificio di origine Bizantina, ma con chiare influenze normanne e motivi decorativi arabi, risale probabilmente al VII-VIII secolo, o addirittura al XI secolo, (come ritiene il grande archeologo Paolo Orsi, sovrintendente alle antichità e alle belle arti della Calabria, che scoprì l’Abbazia di Tridetti nel 1912).

La leggenda vuole che l’abazia sia stata costruita sui resti di un antico tempio dedicato al Dio Nettuno, edificato dai Locresi Zefhiri nel V-VI secolo A.C.; tesi resa attendibile (come rilevato alcuni ritrovamenti di monete coniate in onore della divinità, con impresse l’immagine del Dio Nettuno), oltre che da testi antichissimi ad opera di cronisti d’epoca, che ci narrano di un’imponente statua raffigurante il Dio Nettuno, impreziosita da un mantello pregiatissimo con ricami in oro e pietre preziose che la ricoprivano. Secondo alcuni, pare che Annibale, passando da questo luogo (attraccato con la sua nave al porto di Capo Bruzzano (dove sbarcarono i primi coloni greci) attratto dal pregiatissimo mantello se ne impossessò, sotto lo sguardo attonito della sua milizia che chiese ad Annibale il perchè del gesto. Annibale rassicurò le truppe asserendo che la divinità avesse caldo, e che lo avrebbe riportato alla divinità con l’arrivo della stagione fresca.

Intorno al VIII-IX Sec. gruppi di monaci Basiliani sfuggiti dall’ oriente, a causa della persecuzione musulmana prima, e iconoclasta dopo, approdarono sulle coste Calabresi spinti dalla necessità di trovare luoghi nascosti per sfuggire alle persecuzioni. Si spinsero in luoghi nascosti dell’entroterra, trovando rifugio in anfratti naturali e zone inaccessibili dove professare liberamente il loro credo. Nacquero così piccole comunità religiose che creebbero dando poi vita a cenobi, laure, monasteri, grangie e abbazie come nella vallata dove oggi sorge l’Abazia di Santa Maria di Tridetti, il luogo viene ancora oggi chiamato “Badìa”.

Si narra ancora oggi che proprio nelle vicinanze, sia esistito un’antica città dal nome Pollìschìo e su che fine abbia fatto, resta ancora oggi un mistero. Sorse in una località conosciuta ancora oggi con il toponimo di Fracasso. Su questa teoria la questione sembra essere ammantata di mistero. Ipotesi che meritano senz’ altro una più attenta ed approfondita analisi che speriamo in futuro attraverso ricerche possa tradursi in rivelazione.

Il Dott. Francesco Giuseppe Romeo che pubblicò nel 1985 il libro “Santa Maria di Tridetti a Staiti, storia di una abbazia Basiliana” descrive questo luogo avvalendosi oltre che degli studi effettuati su registri e documentazione d’archivio, anche raccogliendo testimonianze tra gli abitanti di Staiti. Sulla sua pubblicazione scrive: …in località denominata “Turco” i proprietari di una casa durante i lavori di restauro, rinvennero dei resti umani di scheletri, probabilmente resti di una necropoli appartenuti al vicino nucleo abitato Pollìschìo, in un’altra nota aggiunge, che un Signore di nome Giovanni Patti di Staiti mentre coltivava il suo appezzamento di terra, in località detta “Fracasso”, rinvenne una croce metallica di ottima fattura artigianale.
Visto che il testimone in questione morì in età avanzata (nel 1935), si suppone che l’episodio del ritrovamento avvenne sicuramente negli anni antecedenti la sua morte. Il toponimo “Fracasso”, potrebbe forse derivare da un catastrofico episodio o terremoto di difficile datazione, che secondo i racconti degli anziani potrebbe essere aver cancellato l’antica città di Pollischìo. Sul toponimo fracasso una teoria che potrebbe essere ricondotta al toponimo potrebbe essere riferita a qualche incursione saracena. Solitamente queste incursioni avvenivano seguiti da un gran baccano ad opera dei Turchi che annunciavano l’invasione ed i saccheggi nei villaggi, tale considerazione ci viene dalle crono-storie riportate a noi oggi grazie a studi e ricerche, per cui ipotesi da non sottovalutare.

Detto territorio un tempo aveva un’economia molto fiorente, basata sull’agricoltura e la pastorizia, gli abitanti erano sparsi sulla vallata (chiamata ancora oggi “Badìa”) e molti nomi e toponimi ancora oggi in uso nel linguaggio locale, riconducono senza ombra di dubbio a quelli che furono sicuramente insediamenti monastici e religiosi con annesse presenze laiche (per la maggior parte umili pastori e contadini) come ad esempio le località; Magazzini, Stuppia,San Cesareo, San Gregorio, San Nicola e San Biagio, quest’ultime non solo ci danno una chiara interpretazione di come i Santi Armeni siano stati i più venerati del comprensorio, ma ci indicano numerose presenze umane sparse o verosimilmente più organizzati come villaggi e contrade.

L’avvento di Internet, per quanto discutibile possa essere, oggi dà l’opportunità di confrontare le notizie storiche con le varie analogie espresse dai frequentatori appassionati, ma anche dai conoscitori degli avvenimenti storici, spesso queste persone generano interessanti confronti e scambi di opinioni, che innescano interesse e curiosità. Ed è proprio su Facebook che qualche anno fa ebbi uno scambio di opinioni con il Sig. Giuseppe Micheletti su un gruppo dedicato proprio a Staiti. Mi colpì un “post” che faceva riferimento Pollìschio, argomento su cui stavo lavorando da mesi. Contattai privatamente Micheletti che vive all’estero da molti anni al quale spiegai che stavo cercando informazioni atte a ricostruire la vicenda di Pollìschio dal punto di vista leggendario, mi resi subito conto di aver avuto la possibilità di raccogliere la testimonianza importante. Micheletti con molta cortesia mi scrisse testualmente: <<quel che so di Fracasso è che certamente non si chiamava cosi`, ma dal fatto che sia successo qualcosa di grave, più grande di quello che noi pensiamo… Allora forse si chiamava Pollìschio. Io credo che esistesse un piccolo paese, che viveva esclusivamente d`agricoltura ,con lavorazione dei metalli, del legno e custureri (sarti) …Intorno a questo paese vi era gente che abitava in pagliai e qualche abitazione sparsa… Non dobbiamo dimenticare che era una zona molto boscosa e la fiumara di Bruzzano era un tempo navigabile. Forse Annibale è arrivato a Tridetti entrando da lì. I romani che avevano bisogno di legno hanno praticato il disboscamento di questi luoghi. Ritornando a Fracasso, mi ricordo che negli anni 50, il fosso zona limitrofa era molto attivo e coltivato dappertutto. Con case-fienili ricovero per gli animali d’allevamento ,vacche , capre, e pecore , maiali ecc… Si produceva tutto per il fabbisogno della famiglia dalla lana al grano, dalle fave all’ avena. Questo paese forse è scomparso a causa di un’alluvione, una frana ma potrebbe essere stato cancellato a causa di violentissimo terremoto>> .

A questa testimonianza vanno sicuramente aggiunti i racconti dei natii di queste zone, che di certo non avvalorano nessuna tesi a riguardo ma, alimentano altresì molta curiosità, alla quale servirebbe creare un interesse di studio maggiore. In questo lembo di terra di Calabria, sono molti gli idiomi ancora oggi in uso per identificare un luogo, una zona, un punto preciso del territorio. Pollìschio potrebbe essere stato di origine antecedente alla costruzione dell’Abbazia di Tridetti e quindi di origine (Greca)? O si tratta solo una leggenda priva di fondamento? Il toponimo “fracasso”, potrebbe riferirsi ad un catastrofico evento meteorologico o geofisico (appunto un fracasso)? Oppure si tratterebbe solo di inquietanti coincidenze? Ad oggi è difficile dirlo con certezza!

Stando alle ricerche condotte dal ricercatore Carmine Laganà, dato che il nucleo di Staiti prese il nome dalla Famiglia Stayte (di origine Messinese intorno al 1590), e che come dimostrano i registri esaminati, il Feudo risulta riscattato da Federico Stayte a causa dei debiti lasciati dalla Madre, è ipotizzabile che Pollìschìo, fu trasferito nell’attuale Staiti in questa occasione.

E’ dunque tra i boschi di queste aspre colline che sono caratterizzate da una fitta e rigogliosa vegetazione tipica di macchia mediterranea che si nascondono tanti segreti, che varrebbero la pena essere approfonditi per comprenderne la storia e le origini di questi luoghi che oggi potrebbero rappresentare un enorme patrimonio archeologico immenso.

Solo attraverso lo studio dei toponimi, che si potrà approfondire l’origine ed il declino stesso di queste antiche civiltà, scomparse nel silenzio delle montagne, divenute ormai, scrigni di segreti e misteri. Luoghi inaccessibili, dove ancora risuonano echi di storie, e civiltà che attraverso le leggende vivono tra i dialetti dei paesi pedemontani dell’area Grecanica Calabrese

Sicuramente la storia di “Pollìschio”, potrebbe rivelarci molto di più della leggenda narrata, potrebbe rivelarci tasselli di storia ancora celata sotto foreste vergini e antiche civiltà sconosciute.

By Carmine Verduci

antonello gagini

Il Marmo che vive attraverso l’opera di Antonello Gagini

Il Rinascimento in Italia ebbe una notevole rivoluzione nelle arti, in un periodo storico che fu sicuramente contraddistinto dall’ innovazione scientifica unito ad una fiorente concezione dell’arte espressa in ogni modo, dalla pittura alla scultura, passando per l’architettura e la filosofia. In Calabria non è difficile trovarsi di fronte ad un’opera di bottega Gaginiana, ciò equivale a fare un salto nella storia dell’arte Italiana e nella storia del meridione d’Italia intesa come “espressione artistica” che mostra la sua massima diffusione già sul finire del 1400 e fino gli inizi del 1600.

Antonello Gagini (o Gaggini) 1478 figlio d’arte, allievo del Padre Domenico Gagini, scultore Ticinese che operò in Italia e specialmente in Sicilia, dove insegnò al figlio l’arte della scultura fu un grande scultore e architetto, alla sua morte nel 1536 la sua opera proseguì grazie ai figli Giandomenico e Antonino avuti dalle seconde nozze, che continuarono il mestiere del padre, (dunque la Bottega Gagini) ha poi continuato a produrre gran parte delle opere citate, per cui vanno le precisazioni dovute. Alla morte di quest’ultimi Giandomenico e Antonio i figli proseguirono i fino alla terza generazione che lavorò per tutte le committenze in Sicilia, Calabria e in tutto il centro Italia, realizzando numerose opere sacre e monumenti funebri fino alla morte dell’ultimo erede di famiglia Giacomo Gaggini morto intorno al 1627.

Molte sono infatti le opere incompiute del padre che dopo la sua morte, vennero poi completate da Antonello.

La scultura di Antonello, il tocco del suo scalpello, la ricerca nei particolari e nei volumi nelle figure rappresentate, sono una firma inconfutabile. Difficile non rimanere estasiati di fronte un’opera Gaginiana (o di Bottega). I drappi delle sue figure, le espressioni dei volti che caratterizzano ogni scultura, caratterizzano in maniera incisiva la maestranza nel saper rendere quasi viventi ed eteree le figure da lui rappresentate. Sculture che sembrano farci percepire lo stato d’animo dell’opera, per la maggior parte figure sacre, di Madonne sotto vario titolo. La voluminosità delle stoffe che ricoprono il corpo dei personaggi sono l’espressione più evidente delle tecniche che oggi portano la firma del rinascimento del meridione d’Italia. Sembra che l’artista con il suo tocco volesse far vivere il marmo bianco di Carrara con cui ama plasmare i corpi delle figure. Opere, che gli vennero commissionate in tutta Italia da parte di alti prelati o più comunemente da nobili famiglie dell’epoca. Sculture che oggi si trovano in numerosi santuari e chiese del Sud Italia … soprattutto nell’ area della bassa Calabria. Antonello Gagini ci lascia oggi un patrimonio di inestimabile valore storico e di immane bellezza, spesso al centro di numerose diatribe sull’ attribuzione. Fra questi non possiamo non menzionare il gruppo marmoreo dell’ Annunciazione, venerata nella Chiesa di S. Teodoro a Bagaladi (RC) dove le figure sembrano dialogare fra di loro, con una naturalezza tale che sembrano rievocare il momento, con un gioco di sguardi ed espressioni che riescono a disarmare lo spettatore.

Annunciazione a Bagaladi (RC) – Photo Nicola Santucci

Come non stupirsi delle fattezze della statua della Madonna col Bambino a Roccaforte del Greco (RC). Non possiamo però dimenticare anche il mezzobusto di Maria Santissima della Lica o dell’Alìca (attualmente custodito nella chiesa parrocchiale dello Spirito Santo a Pietrapennata, frazione di Palizzi (RC) anticamente venerata in un monastero dedicato alla stessa, che oggi ridotto in rudere, è diventato meta di studiosi ed escursionisti.

Madonna dell’ Alica Pietrapennata di Palizzi (RC)

Ma l’esempio degli esempi, che rende l’opera di Antonello Gagini suprema ed eccelsa è sicuramente la Madonna della grotta di Bombile (Rc), una statua di straordinaria bellezza dalle fattezze sovrumane e forse una delle opere più belle dell’artista, che più rappresenta la bottega Gaginiana in Calabria. Su quest’opera aleggiano misteriose leggende. Si racconta infatti che la statua sia stata scolpita da mani angeliche, un miracolo divino che trasformò il modello in gesso non ancora terminato dallo scultore, nella statua di marmo d’alabastro che conosciamo oggi. Un prodigio, che pare si verificò poco prima di tutti gli altri miracoli, che portò alla sua collocazione in quello che fu il luogo dove venne venerata da fedeli nel mese di Maggio in un Santuario scavato nella roccia tufacea che il 28 maggio 2004 una frana sepolto definitivamente sotto tonnellate di roccia, cancellando cosi secoli e secoli di storia. Il questa triste occasione fortunatamente la statua è rimasta illesa nel crollo. Oggi la statua si trova nella chiesa parrocchiale dello Spirito Santo del paese di Bombile (RC) che accoglie ogni anno centinaia di fedeli provenienti da Sicilia e Calabria.

Madonna della Grotta Bombile di Ardore (RC)

Vi è da dire, che un po in tutta l’area Grecanica vi sono opere dello scultore Palermitano, esistono infatti anche molte opere non ancora riconosciute o presumibilmente attribuite ad altri scultori, come ad esempio la Vergine col Bambino a Bova (RC) nella concattedrale dell’ Isodìa dove sull’altare maggiore troneggia questa bellissima scultura a mezzobusto della Madonna, fino a qualche tempo fa, si pesava fosse opera di Antonello Gagini, ma stando agli studi sull’opera si è rilevato che la statua fu commissionata allo scultore siciliano Rinaldo Bonanno. Caso analogo è stato anche a Staiti (RC) piccolo borgo medievale alle propaggini sud orientali dell’Aspromonte dove all’ interno della chiesa dedicata a Santa Maria della Vittoria vi è collocata su una nicchia laterale una Statua della Vergine col Bambino che è stata attribuita per anni alla bottega Gaginiana, ma in realtà la statua datata 1622 risulterà opera dello scultore Martino Regi come appunto rileva il basamento nel retro che porta la sua firma incisa.

Madonna col Bambino a Staiti (RC)- Photo Carmine Verduci

Altre opere di grande pregio e bellezza non possono passare inosservate, fra tante troviamo a Soverato superiore (CZ), nella chiesa dell’addolorata, come non rimanere incantati di fronte alla Pietà del Gagini che esprime la tenerezza e la compassione della Vergine Maria con il Cristo in braccio. E infine il Trittico del Duomo di S. Leoluca a Vibo Valentia eseguito negli anni 1524-34, opera commissionata dal Duca di Monteleone e vicerè di Sicilia Ettore Pignatelli per la chiesa di S. Maria de Jesu, e poi ancora; la Madonna col Bambino della chiesa di S. Bernardino d’Amantea (CS), commissionata dal nobile Nicola d’Arco; e la Madonna degli Angeli della collegiata della Maddalena di Morano Calabro (CS).

La Pietà a Soverato (CZ) – Photo Luigina Larizza

Molte altre opere disseminate sul territorio Calabrese non sono state ancora attribuite o nella maggior parte dei casi, si pensa abbiano a che fare con la bottega Gaginiana come il caso della statua della Madonna della Catena a Bruzzano Zeffirio (RC) custodita proprio nel piccolo santuario sorto sul luogo del miracoloso ritrovamento, recentemente restaurata, ma che denota molti dubbi sull’attribuzione al Gagini in tal senso.Come ad esempio la statua della Madonna della Neve custodita e venerata nella Chiesa Matrice a Bovalino Superiore (RC), per citarne alcune…

Madonna delle Catene Bruzzano Zeffirio (RC) – Photo: Sonia Musitano

La scultura Gaginiana in Calabria è una ricca costellazione di opere di grande pregio, che oggi arricchiscono importanti chiese e Santuari. Tutte queste opere rappresentano per noi, popolo calabrese una ricchezza di inestimabile valore, da custodire, ammirare e divulgare, specialmente nelle scuole. E’ dunque impensabile non annoverare tali esempi del Rinascimento Italiano che si avvale di maestranze artistiche che appresero dai grandi maestri Fiorentini dell’epoca tecniche e segreti, portando la scultura sacra a livelli equiparabili ai virtuosismi dei grandi maestri rinascimentali che noi tutti oggi conosciamo.

 

(By Carmine Verduci)

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