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Le olive schiacciate, un tesoro per i palati.

Se è vero che la calabria è un complesso e variegato macrocosmo di bellezze, tipicità e millenaria storia, è vero anche che da secoli la cultura gastronomica che la contraddistingue, sia oggi tornata in auge. Questa rappresenta uno degli aspetti caratteristici ed imprescindibili della nostra terra, densa di sapori e significati che affondano le proprie origini nella tradizione contadina.
Con l’avvento del cibo bio e dei prodotti a chilometro zero in forte crescita sul mercato, consente di avere ampie visioni sul tema gastronomico delle nostre regioni, con un interesse sempre più crescente in ambito culturale dei piatti tipici, delle tecniche di preparazione, usi e significati derivanti spesso da altre culture che si sono sovrapposte nei secoli, e che oggi rappresentano l’unicità dal quale traiamo ricchi benefici. Insomma, in Calabria paese che vai e tipicità che trovi…
Oggi voglio presentarvi uno dei piatti più poveri (se così possiamo definirlo) della tradizione contadina Calabrese, tra le prelibatezze che tutto il mondo ci invidia! Stiamo parlando delle “Olive schiacciate” tipicità del mediterraneo che nell’antichità ha dato sostentamento a contadini e pastori, la classe più povera della società che sull’Olivo ha creato un “MODELLO” di ricchezza patrimoniale forse poco sfruttato!


La natura ci ha donato innumerevoli frutti e leccornie, di sicuro l’olivo è quello che tutti noi conosciamo meglio, perchè da millenni viene coltivato nelle nostre terre ed ha rappresentato sin dall’età ellenica una fonte di ricchezza importante per quella che è stata per la Calabria “La Magna Grecia. Oggi in Calabria si produce sempre meno Olio, frutto di una rigenerazione agricola che ha letteralmente sconvolto il mercato, dovuto a politiche europee poco lungimiranti in tal senso…, non dimentichiamoci che la pianta d’ulivo è essenzialmente una delle piante più sfruttabili in termini di alimentazione e non solo…. Nella cultura agro-pastorale infatti, varie parti della pianta venivano utilizzate per la realizzazione di cesti, arnesi e comunemente anche per tradizione religiosa (pensiamo all’intreccio delle foglie d’ulivo per la settimana Santa nei paesi grecofoni della Calabria) ad esempio a Bova con la tradizionale festa delle Palme o Pupazze. Anche il legno da ardere d’ulivo era tra i più usati dai panettieri del medioevo, considerato tra le qualità migliori per la panificazione e sopratutto ideale perchè riesce a dare un aroma particolare anche nell’affumicatura di salumi, formaggi e pane stesso cotto nel forno. Non smette di sorprendere la grande varietà di ulivi presenti sul territorio Italiano, tra le più coltivate, come rivela il Prof. Orlando Sculli sono le varietà: Sanota, Zinzifarica, Geracese, Carolea; ognuna delle quali dalle peculiarità organolettiche particolari.

Ma oggi parleremo in maniera molto approfondita delle “Olive schiacciate” che a mio avviso rappresentano una delle leccornie calabresi molto prelibate, tanto presenti sulle nostre tavole, servite spesso come antipasto o aperitivo ma, non dimentichiamoci che fino a 70-80 anni fa, rappresentavano un vero e proprio pasto che veniva accompagnato dal prezioso pane, uno delle fonti di sostentamento dei contadini e della gente povera che ha fatto la storia di questa terra.
Le olive schiacciate oggi fortunatamente son tornate di moda, perchè tra le peculiarità poco conosciute in ambito gastronomico. Sebbene ai nostri occhi possono apparire semplici, c’è dietro una complessa preparazione, meticolosa e molto precisa, arricchita di spezie che alla fine trasformano questo piccolo frutto in uno dei sapori più antichi e intensi della nostra terra. I nostri nonni conoscevano bene il segreti per preparare delle ottime olive schiacciate, i metodi e le tecniche per conservarle a lungo e garantire così la scorta ideale per la famiglia per tutto l’anno. Ogni casa nasconde ovviamente i suoi segreti, ogni tecnica non può essere svelata, ma ciò che abbiamo imparato da loro, oggi è uno dei segreti più importanti che arricchiscono la nostra cultura sempre più minacciata dal consumismo e dalla globalizzazione che sta deturpando il nostro modo di pensare, di vedere, e di comprendere le cose.

Mi sono spesso chiesto, quale valore potesse avere il mio peregrinare fra borghi e campagne, il mio intrattenermi con gli anziani, che fra una parola e l’altra hanno sempre rivelato alle mie orecchie un universo di saperi e sapori, per questo oggi mi sono occupato di ricercare non dico la ricetta perfetta, ma quantomeno capire le tecniche, che possono altresì variare di luogo in luogo.

 

Come preparare delle ottime olive schiacciate seguendo la ricetta antica? Nulla di più semplice e complesso al tempo stesso è la procedura che mi è stata suggerita, più facile a fare che a spiegare:

Innanzi tutto procuriamoci delle olive verdi ben grosse, le ideali sarebbero la varietà Geracese, a questo punto, schiacciate le olive servendovi di una pietra di fiume su base di legno o marmo. Togliere il nocciolo (seme) e immergetele tutte in acqua calda (non bollente) finita la procedura di schiacciamento delle vostre olive, toglierle dall’acqua calda e immergetele in acqua corrente per due giorni, cambiare l’acqua una due o tre volte al giorno facendo in modo che stiano tutte immerse mediante un peso (ideale sarebbe quella di versarle in una retina delle patate per farle stare tutte insieme e servendovi di un peso lasciate scorrere un filo d’acqua all’interno del contenitore). Al terzo giorno, scolate le olive e versatele in un contenitore abbastanza ampio, aggiungete del sale (quanto basta), una manciata di origano e del peperoncino fatto a pezzettini. Mescolate il tutto e riempite i vasetti di olive utilizzando al posto del coperchio un peso (mazzara), il peso genererà dell’acqua in superficie, scolare tutii i giorni fino alla sua scomparsa, una volta terminato il periodo, riempite il vasetto di olio di semi di girasole o di oliva, e a questo punto saranno pronte per essere mangiate e servite a tavola, come antipasto oppure come semplice contorno.
Già mi sembra di assaporarle…

APPROFONDIMENTO:

 

Tra le varierà poco conosciute e in via di estinzione la Leucolea Leucocarpa o oliva bianca. Coltivato dai monaci per produrre olio destinato alle funzioni religiose, l’olivo bianco ha delle caratteristiche interessanti. 

Tra le varierà poco conosciute e in via di estinzione la Leucolea Leucocarpa o oliva bianca. Coltivato dai monaci per produrre olio destinato alle funzioni religiose, l’olivo bianco ha delle caratteristiche interessanti. A causa della sua colorazione, in passato Leucocarpa veniva associata al concetto di purezza e per questo veniva coltivata nei pressi di chiese e monasteri. L’olio ottenuto dalla molitura (appunto detto olio del Krisma) veniva poi usato per i riti sacri, come l’estrema unzione oppure la consacrazione di nuove chiesa.

Oggi Leucocarpa sopravvive in pochi esemplari allo stato selvatico, mentre alcuni vivai la commercializzano. Se dal punto di vista agronomico questa cultivar non presenta criticità particolari, è invece difficile la propagazione per talea.

 

By Carmine Verduci

 

APPROFONDIMENTO: I Perifània ton palèon rìzomma! – L’Orgoglio delle (nostre) antiche radici!

“ Nella parte più meridionale della nostra penisola, in alcuni paesi montani che sorgono a metà strada fra Locri e Reggio, gli anziani agricoltori e i pastori parlano ancora un arcano dialetto greco che, giunto fino a noi  attraverso una tradizione puramente orale, sembra quasi non aver mai avuto un suo passato e una sua storia…”.

Così si esprimeva nella sua importante opera: “La Glossa di Bova”, il compianto e mai dimenticato Prof. Giovanni Andrea  Crupi, il quale, in un’epoca  “cruciale” (anni ’70) per la sopravvivenza della  Lingua Greca di Calabria, antichissimo e nobilissimo “idioma dei Padri”, era riuscito, forse più di chiunque altro, a porre la “questione grecanica”  nei termini più “incisivi”  possibili. (Preciso  fin da subito che,  “grecanico”  è un “etimo” – usato sia come aggettivo che come sostantivo – che non amo, in quanto, nel tempo, ha assunto una “connotazione” che, in parte,  reputo   impropria, una  “deminutio” , e, la maggior parte dei “grecanici”, non accettano questa definizione, preferendo quella di: Grecofono, Ellenofono o Ellenofono di Calabria, Calabrogreco, Greco di Calabria per indicare il parlante greco; e ancora: lingua greca di Calabria, Greco di Calabria,  greco calabro o calabro greco per indicare il proprio “dialetto”) – Vale a dire – tornando al Crupi -: non si trattava di salvare soltanto una lingua (per altro lingua-madre…), ma , tutta una cultura, “le cui origini si perdevano nella notte dei tempi”. Egli lottò strenuamente per dare voce ai “Greci di Calabria”: “Dòste mia fonì ecinò ti den tin èchu – Date una voce a quelli che non l’hanno” (citazione del prof. Filippo Violi), andava ripetendo a tutti, compresi gli studenti di Liceo che, come il sottoscritto, ebbero l’onore di averlo come Docente di Storia e Filosofia. “Greki  ambrò!”, amava ribadire nei numerosi  incontri e convegni a cui partecipava.

L’epigrafe in greco (in caratteri latini, com’è in uso nel  Greco di Calabria), sul freddo marmo della sua lapide, racchiude , in estrema sintesi, quelli che sono stati i suoi  valori imprescindibili, ciò che ha rappresentato l’essenza della sua purtroppo breve  esistenza:

Eplàtezza ‘zze filosofia                Ho parlato di filosofia

Ègrazza stin glòssa tu Vua          Ho  scritto nella lingua di Bova

Agàpia  tin anarchìa                    Ho amato l’anarchia

Ho voluto iniziare questo breve lavoro “dando voce”, doverosamente, a una delle più importanti figure del “cosmo” greco-calabro, sia  per la profonda stima  da sempre nutrita nei suoi confronti,  sia perché, è stato proprio in quegli anni (fine anni ’60 – inizio anni ’70), che – grazie anche all’opera del Crupi e all’impegno di altri giovani valenti intellettuali della Bovesìa, alcuni dei quali trasferitisi a Reggio,  e,  con il contributo di qualche importante studioso reggino – si è ricominciato a (ri)prendere coscienza del  proprio passato e si è sentito il bisogno di “recuperare”, di riscrivere la propria storia, una storia che fin dalle sue lontanissime origini, trasuda di una grecità  profonda, granitica  a tal punto da averne “ossificato” l’identità…

In questo “ultimo rifugio dell’ellenismo” (leggi: AreaGrecanica-Bovesìa), da ormai  30-40 anni, l’etnia greca di Calabria è al centro di un intenso fermento intellettuale, avente come obiettivo la salvaguardia, la rivalutazione e la valorizzazione del patrimonio linguistico, storico e culturale dell’area.

Siamo “in finibus Calabriae”, nell’estremità meridionale dell’Aspromonte, un territorio in cui, nel corso della sua plurimillenaria storia, si è  miracolosamente conservata un’identità linguistico-culturale,  rimasta per alcuni versi un “unicum” nel  panorama della Calabria intera. E’ questa l’area in cui vivono (continuano a vivere,  fin… dall’VIII sec. a.C.), i Greci di Calabria, “diventati” minoranza linguistica, ma da sempre “maggioranza culturale”, dal momento che le radici, “ I Rìze”, “valori eterni”, permeano secoli e secoli di storia, facendo dell’estremo punto meridionale della Calabria, una “terra dall’anima greca”, una “terra greca nell’occidente latino”. Terra, storicamente più orientata verso la “Graecitas” piuttosto che verso la “Romànitas”,  dove è del tutto  palese,  tra l’altro, una “interdipendenza culturale” con l’intera Calabria meridionale,  ma, soprattutto,  con  la Locride, con l’Area dello Stretto, con l’Estremità Nord-Orientale della Sicilia e con la Grecìa Salentina.

In questo lavoro, concentreremo la nostra attenzione, soprattutto, su quello che può essere considerato il segmento culturale più importante (o,quanto meno , tra i più importanti) della cultura greco-calabra, ovvero, la lingua, “elemento” di vitale importanza per la sopravvivenza del tanto variegato quanto affascinante mondo dei “Grèki  tis Kalavrìa”.

Sul “greco di Calabria” o “greco-bovese” (per dirla con il Crupi e con il Rohlfs), moltissimo è stato scritto. Pertanto, questa breve nota non ha, né può avere pretesa alcuna, di aggiungere nulla di particolarmente “nuovo”, semmai, vuole semplicemente essere, una pacata ma  sentita “riflessione” sulla “glòssa palèa”, sulla lingua dei Padri, per secoli in “travaglio”, in affanno, addirittura in agonia,  ma mai morta, nonostante innumerevoli “becchini”, nel corso della sua lunga storia,  si siano accostati più volte dinanzi al  quasi “feretro greco-calabro”, con lo scopo di poterlo “finalmente” seppellire…

L’origine della lingua greca di Calabria, non è stata mai definitivamente chiarita, e, l’acceso dibattito che non ha lesinato “punte” di aspra polemica, tra lo schieramento “rohlfsiano”, che ritiene il “greco di Calabria” diretto discendente di quello della Magna Grecia, e, quello “morosiano” (o, “parlangeliano”), che lo vuole invece erede del greco-bizantino (nato, cioè, in età bizantina), ha portato a una gran quantità di studi , ma non ha – per alcuni –  risolto del tutto, i dubbi sulla sua “nascita”.  La tesi “megaloellenica” (rohlfsiana), è comunque quella nettamente dominante, e sono molti ad aver attribuito alla teoria “bizantinista” ragioni di ordine “ideologico”.

Senza immergerci nell’aspetto prettamente linguistico, solo “sfiorandolo” a mala pena, diciamo che Gerhard Rohlfs, ha più volte ricordato che i Bizantini (in realtà: “Romèi”, ovvero, “Romani d’Oriente”, di cultura greca), non hanno lasciato traccia alcuna della loro lingua né a Bari, né a Ravenna (ex Capitale dell’Esarcato), né in Dalmazia e neppure in Sardegna, regioni dove, a lungo, mantennero il loro impero.

Se da una parte i “dorismi” e gli “arcaismi”, anteriori alla “Koinè” (IV° sec. a.C), presenti esclusivamente nel  “greco d iCalabria”, “tagliano la testa al toro” riguardo l’origine dell’idioma tutt’ora presente – per lo più – nella “Isola Ellenofona  dell’Area Grecanica”, d’altra parte, sono gli stessi storici a indicare una realistica soluzione alla “vexata quaestio”.

Vera von Falkenhauser

Vera Von Falkenausen in merito, dice: ”…Sembra che la grecità meridionale si basi su un sostrato greco anteriore, che non si era mai completamente spento e che fu quindi “rianimato” dalla “riconquista bizantina”. L’illustre studiosa, inoltre, esclude un progetto “dall’alto”, da parte di Costantinopoli, che avrebbe comportato una migrazione “pilotata” di popolazioni  in grado di “colonizzare”, in senso “greco”, la Calabria. Trasferimenti di gruppi etnicamente omogenei, erano normali in un impero plurietnico come quello bizantino, per esigenze militari e  commerciali; ma ciò, “non può essere considerato come uno spostamento di popolazioni numericamente rilevante”; (…)”possiamo calcolare che una flotta di 100 navi, avrebbe potuto trasferire al massimo 15.000 orientali in Italia, se tutte le navi avessero raggiunto la destinazione senza danno”.

Inoltre, i bizantini non hanno mai imposto la propria lingua ai propri sudditi, e, per di più, alla metà del sec. VIII°, la Calabria era già di lingua e liturgia bizantina, tanto è vero che il decreto di Leone III° l’Isàurico (732-733), non incontrò nessuna opposizione “in loco” (cosa che invece non si verificherà quando i Normanni, più tardi, cominceranno a “latinizzare” la Calabria, imponendo  la lingua latina e la liturgia di Roma).

Un ulteriore, significativo contributo alla tesi “magnogreca” ci viene fornito, di recente, da una  pregevolissima e importantissima edizione di 62 epigrafi greche del  Museo di Reggio Calabria, pubblicata dalla “epigrafista” Lucia D’Amore nel 2007. Attraverso la loro attenta lettura, qualsiasi linguista che non abbia posizioni precostituite, può agevolmente rendersi conto, infatti, che la tesi di Rohlfs sulla presenza nella Calabria meridionale, di ellenofoni, fin dai tempi antichi, è qui confermata ”scientificamente”, in quanto, le epigrafi  “occupano”  un arco di tempo che va dal secolo VI° a.C., al 1.000 d.C., cioè, fino all’arrivo dei Normanni (!)… I testi di queste  importantissime  epigrafi, composti in esametri e pentametri in lingua greca, costituiscono, secondo l’illustre studioso reggino, Prof. Mosino, “ una straordinaria testimonianza per la storia linguistica e culturale di Reggio e della sua “Chòra”; inoltre, egli fa notare  che da queste “attestazioni”,  emerge altresì, che a  Rhègion, “si parlava greco e latino secondo la metrica greca”.

Dopo il  piccolo contributo, di cui sopra,  alla tesi “rohlfsiana”,  ci piace ricordare che,   da vivo, il grande glottologo e filologo tedesco, ricevette onori e riconoscimenti  nella  Calabria tutta: la cittadinanza onoraria di Bova, la laurea “honoris causa” dell’Università  di Cosenza; molti Comuni, dopo la morte, gli intitolarono vie e piazze, come di recente il paese di Badolato (CZ) o il paese di Paola (CS).

Tornando alla parte più propriamente “storica”, possiamo affermare, quindi, l’ininterrotta presenza della lingua greca durante l’intero periodo “romano” e la nettamente sua maggior diffusione, specie nella parte meridionale della Calabria; dopo la caduta dell’Impero, anzi, essa  rappresentò anche la “varietà alta” fino all’XI° sec., ovvero, fino all’avvento dei Normanni, i quali diedero avvio – con l’appoggio della Chiesa di Roma – a una irreversibile inversione di tendenza:  linguistica, culturale e religiosa. Gli “uomini del Nord”, infatti, quantunque “nati” predoni e mercenari, si dimostrarono, strada facendo, conquistatori attenti e dotati di uno spiccato senso dell’opportunità politica, e, pur apparendo tolleranti nei confronti della chiesa greca, iniziarono contemporaneamente quell’inarrestabile processo di “latinizzazione” della Calabria meridionale,  che avrebbe condotto, più tardi, alla fine del rito greco e, quindi, anche del prestigio della lingua greca.

Le conquiste normanne

L’anno 1059 (caduta di Reggio) e l’anno 1071 (caduta di Bari), a opera dei Normanni, rappresentano due date storiche molto negative, anzi, “cruciali” per il “destino” della grecità in terra meridionale. Le “buie notti” angioine, aragonesi e spagnole, più tardi, sono una perentoria conferma della  quasi totale “occidentalizzazione” di usi, costumi, cultura, lingua e religione. Anche nella Bovesìa, ultimo baluardo greco, dal punto di vista  linguistico, tradizionale e cultuale, la situazione, già compromessa, sarebbe precipitata dopo la fine (leggi pure: soppressione) del rito greco-bizantino, nel 1572/73, a opera del vescovo armeno-cipriota  Giulio Stauriano. Sull’onda della Controriforma tridentina, al vescovo  di Reggio, Annibale D’Afflitto, basteranno pochi decenni (1593-1638), per  sradicare completamente il rito greco  dalle sue ultime e ormai umilissime “dimore”  intorno a Bova  e  nelle “Cinque Terre” (diocesi “greca” di Reggio), per trapiantarvi quello latino.

Da questa epoca in avanti, nella “Bovesìa e dintorni”, da lingua di culto e di prestigio, il greco, passa  a lingua della “misera plebs”.  Nel 1806, dopo una fase piuttosto oscura, in cui la lingua greca, tra il ‘600 e il ‘700, trova “ospitalità” ma in caratteri latini, nelle opere del De Marco, del Mesiani e del Rodotà, l’interesse per il greco di Calabria si riaccese dopo che J.C. Eustace visitò la zona sud-aspromontana e segnalò “popolazioni di lingua greca” e, più ancora, dopo che alcuni canti “bovesi” scoperti da Karl Witte (1821), furono pubblicati e commentati sulla rivista “Philologus” qualche decennio più tardi da F. Pott (1856). Fu dalla seconda metà dell’800 che cominciò ad aprirsi una profonda discussione sulla origine e la natura di questo “greco-linguaggio”. In particolare (come accennato in precedenza), Giuseppe Morosi (1870-1878),  sosteneva l’origine bizantina dell’idioma greco parlato in questi territori e fu una teoria che fino al 1924 imperò incontrastata  fino a quando, il più grande filologo, glottologo e dialettologo della storia, l’illustrissimo Prof. G. Rohlfs, non  la “demolì”, in modo scientifico.   L’illustrissimo studioso tedesco, a cui la Calabria (e non solo) deve moltissimo, produsse un  fondamentale “corpus  probatorio”, di ordine lessicale, morfosintattico, onomastico, toponomastico, fitonomastico, agionomastico, ecc., raccolto dal 1921 al 1982, anche attraverso  visite “porta a porta”,  di 365 località della Calabria, spesso  a “dorso di mulo”,  con il quale “corpus” fu in grado di fornire, inequivocabilmente, la prova della ininterrotta presenza del greco “ex temporibus antiquis”.

Ma, parallelamente al crescente interesse degli studiosi per la lingua greco-calabra, si imponeva, specie dalla fase immediatamente successiva all’Unità d’Italia, la necessità di imparare la lingua italiana e di adoperarla non più soltanto per iscritto; presso le classi colte e quelle borghesi, l’esclusione  dagli usi familiari delle varietà dialettali veniva concepita come un passo necessario per il buon apprendimento della “lingua della Nazione”. Lo stesso dovette avvenire nella attuale “Isola Ellenòfona”, rispetto, non tanto al dialetto romanzo ma al greco, la varietà più stigmatizzata e percepita lontana dall’Italiano, il cui utilizzo – anche in famiglia – avrebbe solo avuto l’effetto di “inficiare” una adeguata competenza della lingua nazionale. La scolarizzazione obbligatoria, faceva subire alle masse contadine monolingui (parlanti il greco) dell’area, quotidiane umiliazioni e severe punizioni derivanti soprattutto dall’alloglossia più che dall’analfabetismo.  Per cui, ben presto, la “dicotomia”: proletariato grecofono analfabeta/borghesia italofona alfabetizzata, scatena il “meccanismo” della discriminazione e della “tabuizzazione” del greco… All’opera di “demolizione” della lingua greca, pertanto, non sono estranee cause di natura psicologica, in quanto, viene  “pilotato” dall’alto il concetto che tutto ciò che non è cultura nazionale in lingua, è sottocultura, “avanzo ancestrale”… concetto,  che viene interiorizzato  dai “grecofoni” che ormai “percepiscono” il loro idioma e la loro (quantunque, plurimillenaria) cultura, come espressioni  di inferiorità di razza e di civiltà (!)…di cui bisogna “liberarsi” cercando altre identità… (“Sic transit gloria mundi”, mi verrebbe da dire…).

Inoltre,   le comunità dell’Area  Grecanica (e non solo), vengono  “investite” da un saldo migratorio rilevante, che diventa critico,  a ridosso degli anni ’50, ’60 e ’70, derivante, soprattutto, dallo svuotamento delle aree collinari e montane, in cui, tradizionalmente, erano insediate le popolazioni ellenofone. (Come se, in un certo senso, la scoperta di un mondo “nuovo” (Italia, Europa, Americhe, ecc.), diventa, contemporaneamente, la quasi fine di questo “vecchio” mondo, quello dei Greci di Calabria.

A ciò, si aggiungono le alluvioni che si succedono negli anni ’50 e ’70 nell’enclave greca  e che compromettono la sopravvivenza “materiale” delle comunità nell’entroterra  pre-aspromontano, con “l’ineludibile effetto” di giungere all’impoverimento, alla “deplezione” della memoria, il cui “trend negativo”, rischia di cancellare completamente tradizioni e lingua…  A tal proposito, il linguista olandese Dimmendaal, sottolinea quanto sia di vitale importanza per la lingua, rimanere “in situ”, sostenendo che, “i cambiamenti nell’assetto economico e sociale delle comunità alloglotte, possono non essere decisivi nella “sostituzione linguistica”, se la popolazione o una parte di essa rimane “in loco” (l’esempio di Bova-Chòra, nello specifico,  è assolutamente  “probatorio”).

Secondo un’indagine effettuata sul campo, alla fine degli anni ’90, in seno alla quale vennero interessati circa 300 studenti delle scuole medie ed elementari della Bovesìa, è emerso che il “greco di Calabria”, viene considerato “lingua dei vecchi” e non “intriga” le giovani generazioni che, in generale,  non lo parlano pur  comprendendolo passivamente per un 15% circa. La risposta, però, quasi plebiscitaria dei ragazzi all’item: ”ti dispiace che il greco di Calabria stia scomparendo?” (con… l’88% di risposte affermative), deve essere “tesaurizzata” da chi ha a cuore le sorti di un patrimonio così importante da rappresentare un bene immateriale unico…

Oggi, con un ritardo di oltre 50 anni dall’entrata in vigore della Costituzione Italiana – il cui Art.6 “tutela, con apposite norme le Minoranze Linguistiche”- abbiamo finalmente una Legge Nazionale, la N° 482 del 15 Dicembre 1999, nonché, la Legge Regionale 15/03 e il D.P.R. 345/01. Ma, qual è lo stato attuale della lingua greco-calabra nell’Area Grecanica? Quali sono i “limiti” e i territori ammessi a tutela?  E quali veramente ellenofoni? Amministrativamente, l’Area Grecanica comprende  16 Comuni che da Reggio e Cardeto si “spalmano”, da occidente a oriente, nella fascia pre-aspromontana e nella costa ionica fino al Comune di  Samo. Questa organizzazione politico-amministrativa non rispecchia, comunque, quelli che sono gli effettivi  “confini linguistici”, per cui bisogna distinguere i territori dove ancora persiste l’antico idioma,  da quelli in cui l’ellenofonia è pressoché estinta,  “specificando” che esiste una “Area Culturale Grecanica” , che ha nel suo “cuore”,  quel  “diamante incastonato” che è l’Isola Ellenofona o Grecofona, testimonianza vivente di un mondo linguistico che è stato per secoli e secoli, “denominatore comune” non solo dell’attuale Area Grecanica ma di  gran  parte dell’intera  Calabria. Questi Comuni  “ellenofoni” sono: Bova , Bova Marina, Condofuri( con Gallicianò), Roghudi e Roccaforte del Greco: piccoli paesi in cui oggi, più che mai, è importante riscoprirne le “radici” che svelano,  anche a un visitatore un po’ distratto, il carattere che rende unica questa terra: la “grecità”!  “ Rize”, spesso trascurate dalle poche “memorie di carta” di questa terra, ma che è necessario salvaguardare affinchè si ponga un argine e  si  arresti la “diaspora”, “l’emorragia”, l’abbandono  dell’entroterra, con il  favorire  la permanenza , in questi siti, dei “parlanti”, delle  loro famiglie e dei loro concittadini.  Si può dire che Bova, e,  – con encomiabile sforzo – anche Gallicianò’, siano stati in tal senso, antesignani, in quanto hanno scommesso sulla antica lingua e cultura dei Padri (“in loco”),  riuscendo, così facendo,  anche  a valorizzare in maniera esemplare, emblematica,  quelli che sono considerati,  a ragione,  due fra i “Borghi più belli d’Italia”.

E  andiamo ad affrontare, ora,  il “nocciolo” del problema , ovvero, la “obbligatorietà dell’insegnamento”  nelle scuole dell’obbligo. L’auspicio  è che il Legislatore Regionale  possa modificare il dettato legislativo, trasformando  l‘insegnamento della “lingua di minoranza”, da “servizio a richiesta”, in obbligo scolastico, in modo che concorra, a pieno titolo, alla “formazione” dei ragazzi. L’Area  Grecanica, quantunque,  in un tempo passato (ma non trapassato), territorio “monolingue”(greco), non è allo stato attuale – realisticamente – un territorio bilingue, come quello altoatesino, valdostano o friulano-slovenofono (le cosiddette “minoranze frontaliere”), in quanto, se si fa eccezione per una ridotta minoranza di “locutori” (per fortuna, in evidente “ crescita” – quantunque “scolastica”-  in alcuni  paesi), appare lapalissiano che la speranza della sopravvivenza della lingua greca di Calabria sia riposta soprattutto nella scuola. E’ auspicabile che le istituzioni scolastiche della Provincia di Reggio Calabria, ricadenti  nell’Area Grecanica, facciano però il loro dovere  e consentano  l’applicazione – attraverso i Progetti – delle norme di legge (finora sostanzialmente disattese),  e attivino – in attesa dell’auspicata obbligatorietà – corsi di insegnamento, anche extra-curriculari, che, a partire dalle scuole materne accompagnino i ragazzi fino  ad almeno le scuole medie. Se applicate, le leggi 482/99 e 15/03 (oltre al D.P.R. 345/01), contengono già norme specifiche per l’insegnamento delle lingue minoritarie nelle scuole delle  comunità linguistiche “riconosciute”.  Si tratterebbe,  in definitiva,  di riconoscere il diritto degli appartenenti  a  tali minoranze ad ‘’apprendere’’ la propria lingua-madre (o, forse, a…“riappropriarsi” di essa).  Bisogna confidare,  altresì,  in una maggiore sensibilità e senso di appartenenza anche da parte degli stessi dirigenti scolastici. E che le stesse Università facciano la loro parte attivando – “ope legis”-  corsi di lingua in via sperimentale.

In conclusione, non si può non rimanere  in attesa di una effettiva applicazione delle leggi di tutela  già esistenti, e, ancor meglio,  del più che auspicabile  insegnamento nelle scuole primarie e secondarie di 1° grado – altrimenti,  nonostante gli sforzi compiuti  in questi ultimi anni, dalla Provincia di Reggio Calabria  e dalle numerose Associazioni Culturali Ellenofone presenti nel territorio- le lingue minoritarie, non “frontaliere”, sebbene, fondamentali segmenti  di antichissime  culture, corrono concretamente il  malaugurato rischio di scomparire completamente  nel giro di qualche decennio…

In definitiva, però, il “patrimonio genetico” di una cultura plurimillenaria, che conserva tratti di preziosa rarità, e, addirittura, di assoluta unicità, non si può  pensare di riuscire a salvaguardarlo e a rivalutarlo solo con  l’applicazione di leggi di tutela, ma, deve essere “in primis”, un vivo interesse del cuore, una appartenenza consapevolmente vissuta…La tutela  della memoria storica, per quanto poco “cartacea”, può giocare un ruolo primario, se vissuta, non in termini “nostalgici” (…”Io dico memoria, passato, nel senso di riappropriazione e non di pura nostalgia”…).

Anche per questo, e per amor del vero, va riscritta la storia dei Greci di Calabria, in quanto quella (poca) già scritta, si presenta come una “storia negata”…Sarebbe necessario promuovere una “nuova stagione” di contributi storiografici, condotti deontologicamente e nella direzione della formazione di una corretta coscienza storica.

La lacunosa conoscenza del proprio percorso storico da parte dei “GrèKi  tis Kalavrìa”, unita alla sensibilità ancora scarsa da parte di Enti e Istituzioni (come già accennato), costituiscono tuttora  ulteriori ostacoli per la valorizzazione dell’importante patrimonio storico-linguistico-culturale-religioso del territorio greco-calabro. Per fortuna, le Associazioni Ellenofone – ribadiamo- hanno avuto un ruolo fondamentale, quasi da “supplenza istituzionale”  nell’ambito, soprattutto,  della difesa del patrimonio immateriale, caratterizzato da  una tale peculiarità, da indurre la Regione Calabria (con il sostegno delle Provincia di Reggio Calabria  e delle altre Province  calabresi) a far approntare un dossier per una ambiziosa candidatura all’Unesco – delle Minoranze Linguistiche Calabresi -come Patrimonio dell’Umanità.

Mi sia consentito, infine,  di  stigmatizzare quegli “sporadici rigurgiti di campanile”, di qualche singolo “ellenofono” (o, pseudo-tale), che non giovano alle comunità “greche di Calabria” (in quanto tendono più a dividere che a unire) le quali invece hanno bisogno di coesione per alimentare assieme e cementare il comune, granitico “spirito greco”, vivendo fino in fondo l’emozionante privilegio di essere (senza, per questo, voler stabilire “gerarchie culturali” che non esistono…), i legittimi eredi  di quella cultura che è stata l’elemento fondante della civiltà occidentale e di quella antichissima “glossa”, per secoli, “lingua del cuore” di gran parte delle popolazioni del Meridione, e che le inossidabili comunità grecofone della  Bovesìa   hanno ancora l’onore di condividere e di esserne  suoi orgogliosi e gelosi custodi…

 

BY: Franco Tuscano (Esperto in lingua, storia e Cultura Greco Calabra)

La Sibilla Aspromontana. Leggenda o verità?

Le manifestazioni nel cielo, ​ così come quelle sulla terra, ci danno segni. Cielo e terra mandano segni univoci, ognuno per proprio conto, ma non indipendentemente, perché cielo e terra sono interconnessi. Un segno cattivo in cielo, è anche cattivo in terra; un segno cattivo in terra, è anche cattivo in cielo.” ( Da una tavoletta di Scuola teologica di Babilonia ) Uno schianto improvviso distolse la sua attenzione, mentre era intenta a pestare dentro il piccolo mortaio di pietra le erbe raccolte in mattinata nella piccola piana sottostante. Sibilla abbandonò il lavoro. Si avvicinò sul bordo della grotta che dava sullo strapiombo e sbirciò fuori. Un grosso torello si era inerpicato chissà come lungo l’erta salita. Questa portava a quella che un tempo fu una torre del suo castello. Adesso era soltanto un’aspra ed alta pietra che proteggeva l’ingresso di quel che rimaneva del suo maniero. Il bovino apparteneva di sicuro alle mandrie dei Potamiòti che avevano eletto a loro territorio i pascoli impervi della Montagna Bianca. Poco probabile invece, che appartenesse ai Panduriòti, loro non si spingevano quasi mai oltre la Grande Pietra. Rispettavano il confine invisibile che dai vecchi Tempi delimitava il territorio che a lei apparteneva.

Gli animali ormai erano diventati i soli esseri viventi che le tenevano compagnia tra quelle forre abbandonate molti secoli addietro dagli Uomini. Lei viveva lì da diversi millenni oramai, aveva assistito allo scorrere inesorabile del Tempo e degli eventi che si erano consumati tra quelle montagne. Ricordava ancora il suono delle voci degli Umani distribuiti su quel territorio selvatico quando era ancora la loro casa. Era vecchia Sibilla. La più piccola delle Sette Figlie di Lámia, una delle ultime rimaste ancora in vita. Delle altre non ne aveva saputo più niente, tranne di Scilla. Scilla viveva nascosta su un’altra montagna sul mare, di fronte all’isola dei Sicáni. Nascosta dentro una grotta da Lámia per sottrarla all’ira di Era. Era aveva già ucciso le altre sorelle. Scilla Urlava, lo malediceva quel mare ogni volta che vi s’immergeva e sfogava la sua rabbia contro gli incolpevoli e ignari marinai che vi si avventuravano. Erano rimasti in pochi i figli dei vecchi Numi che avevano abbandonato quella Dimensione, lasciando i semidei rimasti in balìa dei nuovi Dei che avevano preso il loro posto. Il loro Potere era cresciuto grazie agli Umani che avevano dimenticato così presto i loro Creatori. Avevano distrutto i vecchi Templi e dimenticato gli antichi riti, le consuetudini nate con loro. Nei secoli passati gli stessi umani le avevano fatto non poche visite. Desideravano ottenere responsi su quanto sarebbe avvenuto nelle loro brevi ed insignificanti vite. Attendevano che le nebbie del tempo squarciassero il velo mostrassero attraverso lei il Passato e il Futuro. Poche volte avevano capito. Poche volte le frasi che diceva erano state di facile comprensione, ma quelle poche volte gli eventi da lei vaticinati si erano rivelati terribilmente precisi. Arrivavano carichi di doni e di speranza, molto spesso accompagnati dal terrore che lei suscitava nei loro fragili e piccoli cuori, certi che avrebbero avuto dall’Oracolo la loro chiave del Mistero. Da quasi un millennio però, non riceveva più quelle visite. Un nuovo e potente Dio aveva occupato il cuore e le menti di quella gente. Li aveva spinti lontano da quei boschi, dai quei luoghi nascosti dove resistevano pochi e fievoli bagliori dei Tempi Antichi. Erano fuggiti via da quelle aspre montagne dove una volta volteggiavano le grandi aquile e i terribili grifoni, dove erano rimaste solo poche rovine, ultimi segni delle loro presenze. Di uno di loro, l’ultimo che era venuto, conservava il ricordo chiaro e netto, anche a distanza dei molti secoli trascorsi. Era arrivato sopra un grande cavallo nero, coperto da una veste di metallo che doveva servire a proteggerlo dagli attacchi dei nemici. Sudava copiosamente sotto i raggi roventi di Elios, in quella primavera inoltrata che aveva assunto da alcuni giorni le temperature torride dell’estate.

Lei invece aveva appena fatto in tempo a mutare aspetto. Si era trasformata in una capra dalle ampie corna, forma che utilizzava sempre, soprattutto per l’agilità e la velocità che le conferiva quello stato. Si mise a seguire il cavaliere fino alla Fonte nascosta. L’uomo sembrava conoscere bene il luogo, così sembrava dal passo spedito e sicuro con il quale si avvicinava al piccolo laghetto che raccoglieva le acque cristalline. Era ancora presto per trovarci le piccole Naráde e i Tritoni intenti a giocare lungo il ruscelletto che scompariva con piccoli salti nel vallone sottostante della fontana. Sibilla in veste caprina si inerpicò tra i fitti cespugli di erica, cercando di non dar nell’occhio allo straniero e in attesa di capire chi fosse. Dopo averlo osservato bere avidamente l’acqua che scendeva incanalata dentro una “ceramìda” lo vide dirigersi alla destra della fonte. Egli aveva individuato come se lo conoscesse da sempre il vecchio sentiero che da moltissimi anni nessuno aveva più percorso. Quello che portava a ciò che era rimasto del rudere in pietra della casa del Vecchio Pàpas che lo aveva abitato per qualche tempo diversi secoli addietro. « Ecco svelato l’arcano!» Pensò Sibilla nel vedere il giovane avvicinarsi alla pietra dove il vecchio aveva conficcato un pezzo di metallo. Era simile ad una spada con l’elsa in alto, lavorata con cerchi che terminavano in un semicerchio rovesciato che assomigliava ad una impugnatura. Lo vide unire le mani come aveva visto più volte fare al Vecchio Pàpas e lo sentì pronunciare le stesse parole che aveva sentito da lui. Parole strane, arcane, intrise di un mistero che lei non era mai riuscita a decifrare. Non aveva mai avuto potere sul Vecchio. In verità, davanti a lui perdeva il potere che le permetteva di trasformarsi. Le si rivelava per come era, una vecchia, molto avanti con gli anni che ogni tanto andava alla fonte per prendere dell’acqua. Lui le aveva detto di chiamarsi Silvestro, di essere un Pápas, un sacerdote del nuovo Dio. Le aveva raccontato che era fuggito dalla persecuzione di un Re potente che voleva ucciderlo. Ma anche il Pàpas aveva capito di trovarsi di fronte ad una Creatura con qualche Potere. Alle domande dell’uomo precise e puntuali, lei non riusciva a sottrarsi. Aveva mentito, per quanto poteva, cercando di celare quanto più possibile l’essenza della sua Natura Antica. Un giorno arrivarono al piccolo rifugio del vecchio molti soldati, lo presero e di lui e del suo destino non ne seppe più niente. Sicuramente il cavaliere era stato indirizzato da qualcuno. Qualcuno che sapeva del Vecchio. Magari il Vecchio aveva raccontato della Maga che abitava quelle montagne lontane ed inaccessibili. Forse quel cavaliere solitario era venuto per lei. Cambiò nuovamente forma, riacquistando il suo aspetto umano e si avvicinò alla fonte, dove il cavallo al vederla emise un nitrito tale da richiamare il cavaliere. Vedendola avvicinare, non si meravigliò più di tanto, confermando a Sibilla il sospetto che aveva avuto poco prima. «Allora era tutto vero!» Esordì il giovane, che da vicino dimostrava i pochi anni d’età, nascosti da una rada peluria che gli ricopriva il viso. Poi s’inginocchiò al suo cospetto. « Chiedo perdono mia Signora, se ho disturbato la quiete della tua dimora, ma ho fatto molto cammino per arrivare fino a qui e non sapevo se avrei trovato quello che sembrava un Mito, o una favola, di quelle che si raccontano ai bambini nelle fredde serate d’inverno per farli dormire. Sei tu l’Antica Signora di questo Regno che conosce quello che è stato e quello che deve ancora avvenire? Sei tu l’Oracolo che riesce a scrutare nel Tempo e nei suoi Misteri?» Era tanto che Sibilla non sentiva una voce umana risuonare in quei luoghi. Ci mise qualche secondo a decifrare le parole del cavaliere e il suo sguardo fisso, mentre le ginocchia premevano la terra. «Cosa cerchi giovane guerriero in queste montagne sperdute dove vivono soltanto animali selvatici e uccelli rapaci e questa vecchia pazza che incute timore e paura ai temerari che si arrischiano al suo cospetto? Cosa ti ha spinto fino a me? Parla dunque!» «La tua fama e il tuo segreto mi sono stati rivelati da una leggenda che si racconta ancora oggi tra i Cavalieri di Re Carlo» – rispose il cavaliere «essi mi hanno raccontato delle tue doti di Maga e di veggente, che tu e tu soltanto mi puoi essere d’aiuto. Mi chiamo Guerrino e sono alla ricerca dei miei genitori, che non ho mai conosciuto. Nessuno ha saputo dirmi chi fossero e dove avrei potuto trovarli. Confido nella tua benevolenza sicuro che tu possa disvelare la verità sulla mia nascita!» Poi, prese un fagotto di stoffa dal cavallo e lo aprì ai suoi piedi, svelando dei gioielli e delle pietre preziose. «Ah,» pensò Sibilla, «quanto sciocchi e incomprensibili sono gli Umani, che credono che qualche pietruzza luccicante e del metallo per loro prezioso, possano ripagare i servigi di una Dea!»

Ma decise di aiutarlo e non per tutto il cammino che il cavaliere aveva percorso pur di incontrarla, ma perché in fin dei conti nessuno mai se ne era andato via senza aver ottenuto da lei un responso. La sua giovane età le ispirava strane ed inspiegabili sensazioni materne. Gli recise una ciocca dei capelli intimandogli contemporaneamente di attenderlo presso la fontana per tutto il tempo che sarebbe occorso per ottenere il responso richiesto. Lontana dal suo sguardo si trasformò di nuovo in capra e con pochi e agili balzi si inerpicò fino alla sua caverna, lì si mise ad armeggiare con i funghi, erbe, foglie di alloro essiccate unite ai ciuffi di capelli. Il tutto serviva per penetrare nello stato mistico che le avrebbe provocato visioni divinatorie. Mise il composto dentro un piccolo braciere di pietra e dopo averlo acceso, ne inspirò profondamente i fumi che ne scaturirono e si preparò ad entrare lì dove Passato e Futuro si mescolavano in un groviglio di immagini e voci. Sembrava non esserci logica apparente in quello scorrere del Tempo e dello Spazio che gli disordinatamente gli si svelava. In quel continuum dove le sensazioni arrivavano come onde. Plausibili o folli e irreali. Stava a lei riuscire a mettere ordine e a rendere comprensibili le risposte che le venivano da quelle visioni. Stava a lei trasformarle in parole dal senso più o meno chiaro. Era quasi sera quando tornò dal giovane Guerrino. Dopo averlo scrutato gli rivelò quello che aveva visto nel suo passato e cosa sarebbe accaduto nel suo immediato futuro. « Ho visto il padre di tuo padre cavalcare come te in queste contrade, al seguito di un Re potente. Egli combatteva contro guerrieri dalla pelle scura sotto una bandiera raffigurante una croce come quella che il vecchio Pápas adorava sulla pietra davanti alla sua dimora. Tu sei figlio di uno dei quattro figli avuti da lui. Il suo nome è Milone. Il Re per il quale ha combattuto lo ha fatto Principe della città di Taranto. È lì che lo troverai, così avrà termine il tuo lungo viaggio e la tua ricerca.» All’alba del giorno seguente il giovane cavaliere ripartì, dimenticando o lasciando volutamente vicino alla Fontana, i gioielli recati in dono a Sibilla. Da quel giorno, riscoprendo una femminilità insospettata, la donna iniziò ad indossarli, in ricordo di quel giovane Cavaliere, di quell’ultimo umano con cui aveva scambiato delle parole. Li aveva osservati per gli anni e i secoli seguenti, i pochi Umani che arrivavano vicino alla sua grotta. Erano quasi sempre pastori alla ricerca di qualche animale perso tra quelle rocce. Aveva osservato i Pápas solitari, che portavano una veste di lana grezza con un cappuccio che lasciava scoperto il capo rasato sopra le folte barbe incolte. Abitavano come lei nelle caverne scavate nelle rocce vicino alla Grande Pietra, rifugio che con le sue insenature e i suoi crepacci servivano da riparo anche alle bestie selvatiche nei giorni in cui Zeus scagliava i suoi fulmini dall’Olimpo ed Eolo slegava l’otre dei venti ad inseguire e percorrere le nubi cariche di pioggia sotto un cielo buio avaro di stelle. Della vecchia casa vicino alla Fonte rimaneva solo qualche pietra.

La croce arrugginita caduta dalla pietra era stata trovata da un pastore che cercava un vitello disperso. Quella Croce adesso era venerata dentro un Tempio dedicato ad una nuova Dea che regnava su quelle montagne attirando carovane di gente nelle calde giornate di fine estate, con processioni di suoni e di canti, che si sentivano fino dalla sua grotta. Ormai diventata una spelonca dalla quale ogni tanto una vecchia capra dalle ampie corna scendeva con salti sicuri ad osservare incuriosita, nascosta dalla fitta vegetazione, quella nuova Umanità ignara del suo Passato e di un Futuro incerto nascosto nelle pieghe del Tempo.

 

By: Mimmo Catanzariti

Itinerario attraverso i palmenti rupestri della Locride in Calabria

In Calabria, come del resto in altre regioni d’Italia o in stati del bacino del Mediterraneo, si ritrovano, scavate nella roccia, vasche atte a calcare e a vinificare l’uva. Esse non erano scavate singolarmente, ma almeno in due entità, con funzioni diverse: nella vasca superiore si calcava l’uva e si facevano fermentare le vinacce, mentre in quella inferiore più piccola si raccoglieva il mosto, fatto defluire da quella superiore, tramite un foro di comunicazione e dopo la premitura delle vinacce. Tali vasche accoppiate per la vinificazione, generalmente in Italia vengono chiamate palmenti e tali manufatti, scavati nella roccia, possono essere rinvenuti ovunque in Calabria, con frequenza o meno, specie nell’entroterra collinare della costa ionica delle province calabresi, non mancando nell’entroterra della costa tirrenica. La concentrazione più massiccia però è quella che ricade sulla costa ionica della provincia di Reggio Calabria, circa 750 esemplari, tra il comune di Bruzzano e quello di Casignana, in un territorio delimitato a sud dalla fiumara di Bruzzano e a nord dal Bonamico, dove vengono coinvolti principalmente, per i palmenti collinari, scavati nella roccia, i comuni di Bruzzano, Ferruzzano, S. Agata del Bianco, Caraffa del Bianco, Casignana. Mentre per quelli montani, Africo e Samo. Tale comprensorio, che ingloba anche Bianco, che non conta palmenti scavati nella roccia nel proprio territorio, si estende sulla costa per circa 15 km ed è caratterizzato da terreni fortemente argillosi per una striscia dal mare larga circa 3 Km, con l’eccezione di una parte del comune di Bianco, che è contraddistinto da terreni caratterizzati dal bianco caolino. Superata la barriera argillosa, ci si trova di fronte a terreni sciolti, frutto dello sfarinamento delle rocce d’arenaria, che dominano talvolta, con i loro appicchi giallastri i paesaggi. Propria da questo tipo di roccia, che si scava con facilità sono ricavati i palmenti.

A sud della fiumara di Bruzzano, nel comune di Brancaleone resistono 7-8, mentre uno scavato in una grotta, è stato distrutto cinquanta anni addietro, per fare posto ad un asino. Continuando verso Reggio, uno solo è localizzato in contrada Gadaro, nel comune di Palizzi, mentre 7-8 resistono a Bova (alcuni sono stati distrutti). Oltre la linea della fiumara del Bonamico, una decina sono presenti nel comune di S. Luca, 7-8 nel comune di Careri, uno solo a Ciminà, alcuni ad Antonimina, meno di dieci nel comune di Gerace e poi si ritrova uno solo a S. Giovanni di Gerace, mentre poco meno di dieci si ritrovano a Caulonia e si chiude la lista con uno solo nel comune di Camini. Superata la provincia di Reggio, i palmenti, questa volta scavati nel granito, ricompaiono con circa venti esemplari, nel comune di S. Caterina. Nelle aree montane di Africo e Samo, a quote altimetriche considerevoli per la vite si ritrovano antichi palmenti, ricavati questa volta dal granito o da pietra dura in genere. In questi due comuni le viti si coltivavano a quote più basse rispetto i palmenti, in strette fasce sorrette da muri a secco ed in terreni sciolti e ricchi di humus e allora quale tipo di uve venivano calcate nelle vasche vinarie? Non molto lontano da questi manufatti sopravvivono decine di viti silvestri, per cui è ipotizzabile che in tempi lontanissimi, il vino veniva ricavato proprio dalle viti silvestri, quando esse erano abbondantissime nelle aree lungo i corsi d’acqua. Ritornando nelle aree collinari, dove abbondano i palmenti scavati nell’arenaria e camminando per le campagne, ci si accorge che i muri a secco che orlano le fasce caratterizzano i territori dove nel passato remoto c’erano i vigneti e nel complesso superano di molto i 100 km. In riferimento ancora ai palmenti di questa ristretta area, tra il Bruzzano ed il Bonamico, dei 750 esemplari, di cui almeno 400 intatti, solo 157 sono stati studiati non scientificamente da Orlando Sculli, nel comune di Ferruzzano e tale ricerca, I Palmenti di Ferruzzano, è stata pubblicata dall’Istituto Internazionale di Restauro, Palazzo Spinelli di Firenze nel 2002. Lo studio dei palmenti di Ferruzzano, ha evidenziato che essi erano stati scavati solo in aree dove il terreno era sciolto e mai in quello argilloso e che essi sorgevano a ridosso di antiche strade selciate fino a sessanta anni addietro, di cui rimangono solo dei tratti superstiti. Quello che ancora fa stupire è la ricchezze di vie di media e di lunga percorrenza, che convergevano su questo territorio e lo oltrepassavano. Una via per alcune centinaia di metri scavata nella roccia incuriosisce particolarmente; essa verso sud corre per una trentina di km in direzione di Bova, mentre, continuando verso nord, s’innesta a Bianco al dromo greco. Attorno ad essa gravitano numerosi palmenti in vista dell’abbandonata, Rocca degli Armeni, circondata pur’essa da campi dove sorgono svariate vasche di vinificazione. Un’altra via, attraversava il territorio dal mare verso la montagna, chiamata inizialmente la carrera, e lambiva l’abitato ora abbandonato di Ferruzzano proseguendo, attraverso il bosco di Rudina, che ospita misteriosi palmenti e viti silvestri verso S. Agata, Caraffa e Casignana, che completano con numerosissime vasche di vinificazione, il quadro d’assieme. Proprio al bosco di Rudina ha rivolto la sua attenzione la ricercatrice dell’Università Statale di Milano, Barbara Biagini, che ha identificato e censito circa 20 esemplari di vite silvestre, prendendo per ognuna dei tralci che poi sono stati messi a dimora nel campo di conservazione che la Statale possiede a Lodi. Ella ha continuato la perlustrazione con successo sulle montagne di Africo, nel comune di Staiti e nel resto della Calabria, scoprendo che tale regione è la più ricca d’Italia, di tale essenza, dopo la Toscana. Infatti la sua indagine, condotta in solitudine, è continuata per circa quattro anni per tutta l’Italia peninsulare e nelle isole, arrivando a dei risultati rilevanti.

Palmento ad Africo Antico (ph. Maria A. Squillace)

L’arrivo dei Greci

Verso la metà dell’ VIII secolo a.C., una spedizione di coloni proveniente dalla Grecia, guidata dall’ateniese Teocle e composta da Calcidesi, Megaresi e Dori, approdò in Sicilia, dove i calcidesi fondarono Naxos, i megaresi Megara Hyblea, i Dori discriminati tentarono di ritornare in patria, ma giunti al promontorio dello Zefirio (attuale Capo Bruzzano, tra Ferruzzano ed Africo, nel comune di Bianco) si fermarono e fondarono una piccola colonia, secondo quanto è raccontato dallo Pseudo-Scimno. Anni dopo, Archia di Corinto guidò una spedizione di coloni alla ricerca di un luogo adatto per fondare una città e giunto al promontorio dello Zefirio, aggregò i Dori che lo guidarono verso la Sicilia, dove fu fondata Siracusa. All’inizio del VII sec. a.C. un’altra spedizione di coloni greci, non si sa se proveniente dalla Locride Ozolia o dalla Locride Opunzia, sbarcò ancora allo Zefirio e fondò la colonia di Locri Epizephiri, ma dopo quattro anni gli abitanti spostarono l’insediamento nell’attuale piana di Locri, secondo quanto afferma Strabone. Lo spostamento a nord, avvenne a danno delle deboli comunità di Siculi, che con un patto spergiuro vennero prima ingannati e poi probabilmente massacrati. Costoro costituivano le sparute rappresentanze di quei siculi, che centinaia di anni prima erano emigrati dall’Italia in Sicania, chiamata poi da loro Sicilia, spingendo verso ovest i Sicani, popolazione d’origine iberica, secondo quanto afferma Tucidide: “Invece la verità assodata è che i Sicani erano degli Iberi, scacciati ad opera dei Liguri dalle rive del fiume Sicano, che si trova appunto in Iberia. Dal loro nome l’isola fu chiamata Sicania, mentre prima era Trinacria; e anche ora essi vi abitano nella parte occidentale. Espugnata che fu Ilio, alcuni dei Troiani sfuggiti agli achei approdarono con le loro imbarcazioni in Sicilia, ove si stabilirono ai confini dei Sicani; e tutti insieme ebbero il nome di Elimi; Erice e Segesta furono le loro città. Ad essi si aggiunsero e con loro abitarono alcuni dei Focesi che, al ritorno da Troia, erano stati dalla tempesta sbattuti prima in Libia e da là poi in Sicilia. Dall’Italia, dove abitavano, i Siculi, che fuggivano gli Opici, passarono in Sicilia su delle zattere… Passati dunque in Sicilia in gran numero, vinsero in battaglia i Sicani che confinarono nelle regioni meridionali e occidentali e fecero sì che l’isola, da Sicania si chiamasse Sicilia”. Di tutti questi passaggi di popoli non ci sono tracce vistose nel territorio qui preso in considerazione, ma piuttosto dei deboli indizi costituiti da frammenti di embrici ellenici o di pitos ed eccezionalmente dal fondo di una anfora vinaria MGS. Ma allora a quale civiltà si deve attribuire questo complesso sistema di palmenti, incentrati su un reticolo di strade finalizzato a servire l’attività agricola connessa ad una viticoltura specializzata? Non ci sono fonti storiche né antiche né recenti che parlino specificatamente di ciò e allora bisogna ricorrere a supposizioni e a deduzioni. Durante la sua visita ai palmenti del territorio, Attilio Scienza dell’università statale di Milano, affermò di aver visto analoghi manufatti nell’isola di Chio, in Grecia, di cui almeno una parte sono collocabili cronologicamente attorno al 1.000 a.C., mentre Lin Foxhall dell’università di Leicester in Gran Bretagna, disse di aver visto di simili nell’isola di Egina, dove sono stati catalogati un centinaio. Di conseguenza quelli dell’area in questione sarebbero stati prodotti dalla civiltà ellenica espressa da Locri Epizephiri, dal VII al IV sec. a. C., almeno in buona parte, tanto più che nei pressi di essi, in due località distinte, in contrada S. Domenica e Carruso, nel comune di Ferruzzano, dopo un devastante incendio, nella prima contrada e un dilavamento dopo piogge torrenziali, nella seconda, apparvero per larghi tratti, frammenti di embrici, pitos, un frammento di vaso locrese e un frammento di vaso corinzio, nonché un fondo di un’anfora MGS. La base dell’anfora MGS, emerse miracolosamente in contrada Carruso, dopo un mini saggio di scavo, eseguito, dopo un pressante invito dello scrivente, nel 1996 dal dott. Federico Barello, Ispettore Archeologico per la Sovrintendenza di Reggio Calabria.

I numerosi frammenti di embrici ritrovati, secondo il suo punto di vista, erano appartenuti a delle tombe a cappuccina, il che dimostrava che in tal sito era esistito un villaggio, collocato nel tempo attorno al Vi sec. a.C., in quanto ciò si poteva dedurre da un frammento corinzio di un vaso dipinto del periodo indicato. Il fondo di una MGS, obbligatoriamente indicava che in quel territorio esistevano estesi vigneti e per giunta vicino alla fiumara La Verde, navigabile nell’antichità, non per la portata d’acqua abbondantissima e perenne, ma per il fatto che nelle attuali parti terminali dei corsi d’acqua, sul versante ionico, s’immettevano lingue di mare. Le prove più importanti che avvalorano l’ipotesi che nel territorio tra il Bruzzano ed il Bonamico ci fosse una importante produzione di vino ce le offre Vandermesch, che ha studiato la diffusione nel Mediterraneo delle anfore vinarie MGS che nella sigla sottintendono Magna Grecia e Sicilia. Ebbene dalle coste della Siria in Medio Oriente, fino al Tartesso (Portogallo) sono state trovati frammenti delle suddette anfore, che sono catalogate dalla I alla VI e naturalmente sono presenti anche quelle di Locri Epizephiri, le MGS II e le MGS III e quelle delle sue sotto colonie di Medma ed Hipponion. Probabilmente le viti piantate dovevano produrre dei vini che assecondassero i gusti dei clienti e probabilmente quelli provenienti da tali territori erano costituiti da passiti in prevalenza. Naturalmente questa è un’ipotesi, non molto azzardata però. Infatti Ateneo scrittore greco vissuto, a cavallo del II e III sec. d.C., a Naucrati in Egitto nella sua opera Sofisti a banchetto, ci parla del vino Caicino, considerato ottimo, paragonandolo al Falerno, che era considerato presso i romani il principe dei vini. Gli esperti contemporanei di vino automaticamente e con determinazione localizzano la produzione di tale vino, definito da Ateneo “nobile e simile al Falerno“ nella Campania, collegandolo al Falerno stesso, però ignorano cosa fosse e dove si trovasse il Caicino. A questo punto ci soccorre il più grande storico dell’antichità, Tucidide, di fronte a cui, spero che gli esperti costruttori di mitici vini con la pubblicità, che usano affermare che il vino si beve con la storia, abbiano la decenza di retrocedere. Ebbene proprio Tucidide, descrivendo la guerra del Peloponneso esportata in Italia, parla di una battaglia combattuta attorno ad una fortificazione locrese nei pressi di un fiume, il Caicino, non lontano dal confine con lo stato di Reggio. Il fiume che seguiva il precedente verso sud, l’Alece,segnava il confine tra Locri e Reggio ed è stato identificato con sicurezza nell’attuale Palizzi, per cui il fiume Bruzzano è da identificarsi con il Caicino o allontanandosi di più verso Locri, con il La Verde.

Nei pressi di questo corso d’acqua, alla fine dell’inverno del 427 a.C., un contingente ateniese guidato da Lachete s’impadronì della fortezza sul Caicino, battendo la guarnigione locrese, costituita da 300 soldati, guidata da Prosseno figlio di Capatone. Nel 426 a.C., alla fine dell’inverno, i Locresi contrattaccarono sul fiume Caicino, riprendendosi la fortezza, presidiata da soldati ateniesi al comando di Pitidoro.  Il massiccio collinare, alla cui sommità sorge Ferruzzano, ormai completamente abbandonato, ricade anche nei comuni di Bruzzano, S. Agata del Bianco, Caraffa del Bianco, dove è presente la massima concentrazione di palmenti; si aggirano attorno ai 400. La base del massiccio collinare è bagnata dai due fiumi che gli studiosi pretendono d’identificarli con l’antico Caicino: il Bruzzano e il La Verde. A questo punto non si può sfuggire alla ovvia conclusione che il prestigioso Caicino dell’antichità classica si otteneva premendo le uve di queste colline, costellate da centinaia di palmenti scavati nella roccia. Ma che tipo di vitigno era il Caicino? E’ quasi impossibile dare una risposta ed allora ci dà una mano Ateneo di Naucrati, il quale afferma che se nei giorni precedenti la vendemmia spirava lo scirocco, il colore del Falerno era cupo, mentre se avesse spirato per giorni un vento fresco di settentrione, il vino era chiaro. Allora era bianco o era rosso? Per gli studiosi più qualificati se il Caicino era simile al Falerno, obbligatoriamente era rosso, perché il Falerno era rosso, anche se Ateneoin un suo passo afferma quanto segue: “ Il Falerno è dieci anni d’invecchiamento, ma diviene soave tra i quindici e i vent’anni. Superando tale limite, quando lo si beve, arreca il mal di testa e disturbi al sistema nervoso. Vi sono due varietà: il secco e il dolce. Quest’ultimo, se le uve vengono vendemmiate quando spira il vento di scirocco diviene più scuro. Il vino che non è prodotto in tali condizioni è secco ed assume un colore giallognolo”. I moderni vinificatori però, oltre al Rosso producono un bianco nei sei comuni del Doc Falerno, ricavandolo dalle uve della Falanghina, mentre nei pressi di Pompei vengono coltivati delle viti archeologiche, di cui si sono trovate i riscontri nelle pitture parietali e tra i bianchi è presente, secondo gli esperti, la Cauda Vulpium, ossia la coda di volpe che probabilmente faceva parte delle aminie lanate, portate dai tessali nell’area della distrutta Sibari nel V sec. a.C. Massacrati in maggioranza dai crotoniati, i superstiti si rifugiarono a Posidonia, in seguito denominata Paestum, sottocolonia di Sibari. La Coda di volpe, presente in Campania è fortemente pubescente, quasi cotonosa nella pagina inferiore ed essa è sopravvissuta nell’area dei palmenti della Locride, dove è denominata Lacrima Cristi, da cui a Bianco, ricavavano un passito superiore al Greco, in un passato non tanto remoto. Probabilmente il Caicino si ricavava da un’ aminea lanata e nel territorio in questione, fino a poco tempo addietro di lanate c’era più di una, oltre la Lacrima, anche la Guardavalle pilùsa, ora rara, quasi estinta.

Confronto con palmenti lontani

Nel dicembre del 2004, il direttore dell’Istituto Internazionale di restauro, Palazzo Spinelli di Firenze, Francesco Amodei, d’accordo con le autorità culturali maltesi, inviò due suoi collaboratori, Santino Pascuzzi e Orlando Sculli, a visitare un palmento a Malta, per verificare la somiglianza o meno con quelli di Ferruzzano, su cui c’era stata una pubblicazione nel 2002. Il palmento visionato fu quello di Minska Tanks, vicino al tempio megalitico di Mnaidra e la sorpresa fu grande quando fu ravvisata identità nella foggia, con alcuni palmenti di Ferruzzano. Scattò un’intensa collaborazione tra Palazzo Spinelli e le autorità culturali di Malta, dove si distinsero per impegno il Prof. Anthony Bonanno, professore di Archeologia nel Dipartimento di archeologia classica e il prof. Nathaniel Cutajar, a capo della Sovrintendenza del patrimonio culturale maltese. Ci furono scambi di opinioni e convegni organizzati in comune, in Italia e a Malta, tra cui uno tenuto il 21 gennaio 2010, nella Casa italiana di cultura, a La Valletta. Mentre in Calabria le indagini archeologiche sui palmenti non furono neppure pensate, in quanto non esiste per la Sovrintendenza ai beni archeologici un’ emergenza palmenti, che sono volutamente ignorati, perché i preposti considerano le vasche vinarie, di nessun valore culturale, anche perché non darebbero visibilità nelle passerelle mediatiche, come alcune opere d’arte dell’antichità classica, a Malta invece ci fu un fervore di iniziative. Indagini accuratissime furono effettuati sui palmenti dell’isola di Gozo, attorno a cui, durante una campagna di scavi, furono trovati reperti punici del Vi sec. a.C. Addirittura in un campo vicino ad una vasca vinaria, scavando in profondità, furono trovati i segni di un sesto d’impianto di un vigneto del periodo romano. I palmenti di Ferruzzano furono allora conosciuti in tanti ambienti universitari del mondo, perché il Prof. Bonanno, in un suo scritto sulla tematica delle vasche di vinificazione, li mise talvolta a confronto con quelli maltesi, quando ravvisò analogie. Addirittura le autorità culturali maltesi, organizzarono, in collaborazione con Palazzo Spinelli un viaggio in Calabria, per visitare il primo sito di Pietrapennata, fondato da maltesi in fuga, durante la conquista araba dell’isola, pensando di fare uno studio comparativo tra i vitigni residui di Malta e quelli di Pietrapennata e Palizzi. Nonostante le numerose iniziative di Palazzo Spinelli tutto è fermo attorno ai palmenti della Locride e della Calabria tutta, anzi qualcosa si muove e sono le ruspe, che sbriciolano migliaia di anni della nostra storia.

Il paesaggio agrario magnogreco

Per avere un’idea del paesaggio agrario nella Magna Grecia, ricordiamo quello di Metaponto del IV sec. a.C., quando il territorio agricolo era diviso in lotti di circa 7 ettari ciascuno, in cui gli agricoltori vivevano stabilmente, mentre nelle tavole di Eraclea sono riportate le risultanze di un’indagine nelle terre sacre a Dionisio e ad Atena Poliade, dove viene evidenziato un modello agricolo senza insediamento abitativo; probabilmente i contadini abitavano nei komai (villaggi) vicini sparsi nelle campagne. Nelle tavole vengono citati depositi di prodotti, fienili, caseifici, granai, stalle perbuoi, mentre sono menzionati gli alberi da frutta, viti, boschi, cereali. Fra gli alberi da frutta erano coltivati, fichi, prugni, peri, meli, mandorli, castagni, melograni, meli cotogni.

Il sesto d’impianto per gli ulivi era all’incirca di 30 metri per 30, ossia venivano piantati 4 piante per ogni 1000 metri e per tale genere di coltivazione e per la cura delle piante, esistevano norme severissime e i lavoranti o gli affittuari, dovevano badare a sostituirle, quando esse seccavano. Molto curati erano i boschi, le cui essenze erano usate per la cantieristica navale e per la costruzione di mobili, utili per le esigenze domestiche. Negli orti poi predominavano le fave, i piselli, le rape, i porri, le piante per insalate.

Cruciale era poi l’allevamento del bestiame e massima cura veniva data all’allevamento delle pecore, che venivano sottoposte a selezione e a pulizia estrema; il vello di esse, veniva pettinato molte volte all’anno. La preoccupazione fondamentale era data dal vigneto, fonte di reddito principale ed in ogni kleros (lotto), alla vite era destinato lo 0,45 a 1,6 ettari. Per impiantare i vigneti, venivano scelti preferibilmente terreni situati in declivi, difficilmente in pianura, come spesso è dimostrato dai muri a secco che sopravvivono e che nei secoli sono stati sottoposti a manutenzione.

Il terreno scassato per una profondità superiore al metro e ripulito delle pietre, usate per costruire i muri a secco, veniva trasformato in fasce, difformi nella larghezza, in quanto più il terreno era in pendenza, più le fasce sarebbero state strette. Le viti piantate con il sesto d’impianto di un metro per un metro, venivano allevate ad alberello, alte circa 60 cm e potate “a testa“, nel senso che venivano ricavate nella sommità di ogni vite, tre quattro speroni, dotati ognuno di tre gemme, per cui con il passare del tempo, la sommità di ogni vite ingrossava e assumeva la forma di una testa. Le viti venivano sorrette da sostegni morti, ossia ognuna era retta da un palo di determinate essenze, tagliato nel periodo di stasi vegetativa e lasciato a seccare per un lungo periodo, prima dell’uso.

La presenza romana nel Bruzio (Calabria romana)

Agli inizi del III sec. a.C., dopo duecento anni di guerre intestine, le città elleniche avevano terminato la loro energia propulsiva e la capacità di organizzare la difesa contro il popolo italico dei Bruzi, che partendo dalla città più rappresentativa, Cosentia, dilagavano ovunque, sottomettendo con facilità le città greche, che una dopo l’altra, caddero nelle loro mani. L’unica soluzione che restava loro, per non finire annientate, era quella di chiedere aiuto ai Romani e lo fecero. Costoro arrivarono ben volentieri, delimitando le pretese dei Bruzi e deducendo anche delle colonie nelle aree ormai scarsamente abitate a causa delle guerre. Una certa autonomia restò alle città greche che risultarono alleate dei Romani, che momentaneamente permisero loro di conservare le proprie leggi e di gestire il territorio. Naturalmente si continuò a coltivare anche i vigneti, secondo le tecniche precedentemente usate, specialmente nella parte meridionale del Bruzio (Calabria attuale), in quanto più distanti dalle città più importanti dei Bruzi, da cui partivano le incursioni, ma nubi fosche si stavano addensando sul panorama politico dell’epoca. Era finita la prima guerra punica con la vittoria di Roma e la conseguente conquista della Sicilia, ma nel 219 a.C, con l’attacco e la distruzione da parte di Annibale della città iberica di Sagunto, alleata dei Romani, si riaccese la guerra che portò il geniale condottiero cartaginese ad invadere i cuore dello stato romano, stringendo da vicino Roma stessa.

Dopo le spettacolari sconfitte in campo aperto, contro Annibale i Romani iniziarono una guerra di usura e la politica della terra bruciata e il condottiero cartaginese, nel tentativo di raggiungere la Sicilia, per essere più vicino alle aree di rifornimento da Cartagine, restò intrappolato per circa dieci anni nel Bruzio (attuale Calabria), dove conquistò tutte le città greche, tranne Reggio e dove fu accolto in modo fraterno dai Bruzi, che gli aprirono le porte delle loro comunità e gli offrirono soldati per il suo esercito In dieci anni di permanenza, tutto il territorio dell’attuale Calabria fu sottoposto a violenza di ogni genere, con ritorsioni incrociate, tra Romani e Cartaginesi e quando Annibale lasciò l’Italia per l’Africa, si portò dietro i fedelissimi soldati bruzi, che costituirono la riserva strategica nella battaglia di Naraggara (Zama). I Romani furono implacabili e tutte le comunità dei Bruzi furono decimate, gli uomini più validi condannati come schiavi nelle miniere della Sardegna e il loro territorio confiscato divenne ager publicus, mentre le città greche, tranne Reggio persero alcuni privilegi. Il territorio devastato da anni di guerra risultò spopolato e cominciarono le deduzioni massicce di colonie romane, mentre di conseguenza la produzione vinicola diminuì e l’antico modello agrario, portato dai Greci fu soppiantato dai nuovi modelli romani, che divennero dominanti a partire dal I secolo d.C., che si basarono sulle ville rustiche. Già dalla fine delle guerre Annibaliche, per tutto il periodo repubblicano il vino della Calabria e della Locride fu diffuso non più dalle MGS, ma dalle Dressel. Ai Kleroi inalienabili, non coltivati con manodopera servile perché vietato dalla costituzione, inizialmente divisi fra le cento famiglie aristocratiche della città, successero già a partire dal I secolo d.C., le immense ville rustiche, che programmavano la produzione, in base alla richiesta del mercato.

E sul territorio della Locride, numerose sono gli esempi, da quelle piccole di contrada Stracozzara nel comune di Brancaleone studiata, o a quella non conosciuta di contrada Arie Murate nel comune di Ferruzzano a quelle spettacolari di contrada Palazzi del comune di Casignana ed il Naniglio di Giojosa Jonica. Per avere un’idea sulla villa romana di contrada Palazzi di Casignana, essa si articolava, in dimore del dominus e del fattore, in sale di rappresentanza, in doppie terme, in sauna, in abitazioni per i lavoranti, in magazzini, in laboratori, sviluppandosi per almeno 10 ettari (100.000 metri quadri). La dimora padronale, le sale di rappresentanza, le terme e la sauna, erano impreziosite da mosaici e marmi di provenienza orientale; in uno di questi mosaici campeggia un grappolo trialato, simile a quelli che si ritrovano nei vigneti ormai marginali del territorio. Al momento sono stati messi in luce solo gli ambienti più importanti e già sono emersi frammenti o anfore intere di Kaey LII, le urne vinarie che veicolarono i vini del territorio per tutto il tardo-antico, la cui presenza è attestata sulle coste di tutto il Mediterraneo. Sulle dolci colline attorno al Naniglio di Gioiosa Jonica, nell’antichità classica prosperavano le viti dal periodo ellenico fino ad un certo punto del tardo-antico e ciò è documentato dalla grande vasca di vinificazione, messa fuori uso definitivamente nel corso del V secolo d.C., probabilmente dalle incursioni dei vandali che partivano dalle loro basi in Africa settentrionale, provato dalla presenza di frammenti del V sec., nella vasca interrata. Successivamente la grande villa fu abbandonata e probabilmente la viticoltura fu ripresa, ma non sappiamo dove le uve venivano vinificate.

Possiamo dedurre l’estensione degli spazi agricoli di tale entità produttiva da due elementi: la localizzazione degli edifici della villa rustica stessa a circa 5 km dalla costa, sulla sinistra idrografica del Torbido e da un piccolo teatro di età romana a ridosso della spiaggia, sempre sulla sinistra idrografica del fiume sopra citato. Considerando che gli edifici non potevano essere posizionati in modo molto eccentrico, di sicuro l’estensione dei terreni di pertinenza della fattoria si estendevano almeno per qualche km ancora in direzione delle montagne, inglobando le colline ad ovest e a est, mentre l’attuale Torbido con le sue rive, segnava il confine verso sud; non possiamo dedurre la larghezza del podere, ma senza dubbio non sarà stato inferiore ad 1,5 km. L’estensione del territorio della villa rustica di Palazzi di Casignana è ancora più chiara, in quanto essa sorgeva sul mare, sulla destra idrografica dell’attuale Bonamico e alla sua foce. All’incirca ad un 1,3 km verso sud scorre d’inverno un rigagnolo d’acqua, il S. Antonio, oltre cui è stata individuata un’ altra villa rustica romana, mentre ad oltre cinque km verso le montagne, in contrada Favara sopravvivono le vasche di acqua sulfurea, che rifornivano le terme della villa ed ancora oltre, in contrada Varet, si contano due palmenti scavati nella roccia. Pertanto il terreno agricolo appartenente alla villa di contrada Palazzi si estendeva dal mare verso la montagna per circa 7 km, partendo da una base vicino al mare di circa 1,5 km e allargandosi, nel lato opposto per circa 2,5 km; dentro questa delimitazione esistono circa 30 palmenti scavati nella roccia, tra cui una misteriosa vasca perfettamente quadrangolare di dieci metri di lato. Non essendo stata trovata per il momento la vasca di vinificazione, dentro gli edifici vicini al mare, si può supporre che le uve venissero calcate e premute nei palmenti scavate nella roccia ed ubicate nelle colline dell’entroterra dove il terreno è sciolto.

Inoltre la misteriosa vasca scavata nell’arenaria di 10 x 10, alta 1,40 mt, se fosse utilizzata per vinificare, conterrebbe 100 quintali d’uva per volta. Del resto Diodoro Siculo ci dà la seguente notizia: “Policleto nelle sue Storie descrive la cantina di Tellia, e dice di averla vista ancora esistente quando faceva il servizio militare ad Akragas: essa comprendeva trecento cisterne tagliate nella stessa pietra, ciascuna della capienza di cento anfore; vicino a queste c’era una vasca intonacata della capacità di mille anfore, da cui si effettuava il travaso nelle cisterne”. Sicuramente, dati questi indizi, la villa di Contrada Palazzi gestì un cospicuo commercio basato essenzialmente sul vino, che veniva ricavato dai vigneti impiantati sulle colline dell’entroterra, che probabilmente confinavano con quelli delle altre ville rustiche che svolgevano delle attività agricole verso sud e raccordandosi in continuazione con l’attività vitivinicola che raggiungeva in modo intenso la fiumara di Bruzzano; dentro questo territorio, ripetiamo per l’ennesima volta, tra il Bonamico ed il Bruzzano sopravvivono ancora 750 palmenti scavati nella roccia. La villa di contrada Palazzi ha di fronte il mare che dopo pochissimi metri dalla riva, sprofonda in una fossa che supera i cento metri e di conseguenza il posto era adatto per essere usato come approdo, da cui partivano le navi per raggiungere i porti del Mediterraneo, cariche sicuramente di vino, fino a quando ebbe vita.

Il tardo antico

Il tardo antico, contrariamente a quanto capitò alle altre regioni d’Italia, fu di un certo benessere per la Calabria e per l’area qui analizzata. Mentre altrove le ville rustiche furono abbandonate per oltre il 70%, in Calabria continuarono a svolgere attività produttive per il 50% e questo caso capitò alla villa di contrada Casignana, che costruita nel I sec. d.C., ristrutturata nel IV,momentaneamente abbandonata nel V sec. a causa degli attacchi dei vandali, poi riprese a vivere per quasi altri due secoli, facendo probabilmente da collettore per tutta l‘area vitivinicola che dal Bonamico arrivava fino alla Fiumare di Bruzzano. Intanto era avvenuto che tutte le altre aree d’Italia o della stessa Calabria erano state attraversate da eserciti in armi che saccheggiavano, bruciavano, uccidevano, mentre la parte più meridionale dell’attuale Calabria, escludendo le incursioni vandale, che furono operative tra il 440 e il 477, rimase immune da questi flagelli per lungo tempo. Pertanto poté riorganizzarsi, continuare a produrre e commerciare specialmente con la parte dell’impero d’oriente, di cui la Calabria faceva parte, che era stata pur’essa immune dai flagelli della guerra: l’Africa settentrionale. Le ville romane sopravvissute si ristrutturarono, si espansero, divennero polivalenti nelle colture, diversificate, producendo ricchezza. Essa sicuramente nel periodo della dominazione ostrogota fu amministrata da qualche dominus non latino, che si sentiva comunque un cittadino della parte dell’impero romano che sopravviveva ancora: quello d’oriente. E gli Ostrogoti intendevano ripristinare l’ordine ovunque non ci fosse, come ci racconta Cassiodoro, ministro del re ostrogoto che si preoccupava di rendere tranquilla l’area della sua Squillace e di far diminuire la pressione fiscale, descrivendo indirettamente il paesaggio agrario della sua zona, che era quello della Calabria tutta di quel periodo: “Si dice che Squillace… gode anche delle delizie marine, poiché si trovano là vicino le peschiere da noi costruite..si osservano bene le abbondanti vendemmie, la ricca messe trebbiata nelle aie, nonché l’aspetto dei verdi ulivi”. Ancora indirettamente ci menziona i vini che in quel periodo erano ritenuti i migliori, invitando un suo collaboratore a reperirgli un vino che era ritenuto al pari del Sabino, del Gazeto (il vino ricavato da viti originarie di Gaza), ossia il Palmaziano, che sicuramente non era della sua area: “ricerca anche il vino che…è pari al Gazeto e simile al Sabino ed è singolare per l’odore eccellente“. Il Palmaziano non era tipico di Squillace o dell’area circostante ed un indizio ci riporta nell’area in questione ossia quella tra il Bonamico e la fiumara di Bruzzano, così fornita di palmenti scavati nella roccia. Proprio a Ferruzzano fino a 70 anni addietro, veniva da alcuni, prodotto in purezza un vino rosso brillante, fragrante, ricavato da un vitigno chiamato parmisano, che non significa di Palmi, perché fatta un’ indagine su quel territorio, mai di esso hanno sentito parlare. Di conseguenza nelle colline, circondati dagli antichi palmenti, probabilmente veniva prodotto il Palmaziano, simile al Sabino ed il vino ricavato dalle sue uva prendeva direzioni svariate nel Mediterraneo, contenuto dalle Kaey LII, di cui sia a S. Lorenzo che a Pellaro, sono state trovati tracce nei resti di antiche fornaci che le fabbricavano.

Il ritorno dei Greci: i Bizantini

In virtù della decisione di Giustiniano di riconquistare l’occidente dell’impero, occupato dai regni romano-barbarici, i soldati di Bisanzio conquistarono l’Africa settentrionale, massacrando i vandali, che l’occupavano, poi le armate bizantine si rivolsero in Italia e guidate da Narsete, nel 552 sconfissero a Tagina il re degli Ostrogoti Totila, che cadde in combattimento e poi sui Monti Lattari le residue forze del popolo germanico, guidate dall’eroico Teia, che si battè strenuamente fino alla morte. Con la scomparsa letterale degli Ostrogoti, iniziò la bizantinizzazione dell’odierna
Calabria con l’arrivo di flussi di coloni greci o ellenizzati, provenienti da tutto l’impero. Il territorio, marginale ai teatri della guerra contro i goti, continuò a prosperare e a produrre, guidato dalla funzione trainante della grande villa rustica di Palazzi di Casignana che riprese a vivere e a esportare i molteplici prodotti, principalmente il vino, come ci indicano le Keay LII ritrovate. Tra le altre etnie ellenofone giunte nella Calabria attuale, in periodo bizantino, ci furono gli Ebrei e gli Armeni, di cui ci sono le testimonianze materiali sul territorio,, dentro l’area della nostra indagine e al di fuori di essa. Tra la fiumara di Bruzzano ed il Bonamico ci sono almeno alcuni toponimi che ricordano gli Ebrei, riportate da cartine del 700: Judariu (villaggio degli ebrei), vallone del giudeo, portella del giudeo, nel comune di Ferruzzano, Judariu nel comune di Casignana e contrada Giudei a Bianco. A sud, nell’area di S. Pasquale di Bova, nel contesto di una villa di età imperiale, sono emerse le tracce più notevoli della presenza ebraica, con una sinagoga che ebbe vita forse fino al VII sec. d.C., corredata da mosaici che riproducono la menorah e il nodo di Salomone, un’ansa di una Keay LII che porta impressa la menorah stessa. Quest’ultimo particolare ricorda che nel territorio si produceva anche vino kosher, il vino per gli Ebrei, che doveva seguire una trafila obbligata con cui si escludeva che il prodotto finale fosse stato toccato da mani non ebree; dalla coltivazione della vigna, alla lavorazione dell’uva, all’imbottigliamento. Nel tardo antico, il commercio era veicolato da navicularii (ossia da armatori o padroni di navi in genere) giudei, che trasportavano ovunque, nel Mediterraneo, il vino del territorio.

Per quanto riguarda le testimonianze materiali armene, a sud della fiumara di Bruzzano, sopravvive la chiesa grotta di Brancaleone Superiore e un sistema di silos, per la conservazione di derrate alimentari, mentre dentro il territorio in questione, ricordiamo la Rocca degli Armeni o Armenia o Vetus Bruttianus, che visse fino al terremoto del 1907, che distrusse l’abitato di Ferruzzano. Sui 157 palmenti analizzati nel comune di Ferruzzano, ben quattro portano impresse delle croci armene, tra cui, uno situato nei pressi del luogo dove sorgeva, il monastero basiliano di S. Nicola del Prato; ricordiamo fra l’altro, che il santo era armeno. Su tanti palmenti studiati sono state individuate delle croci bizantine, che indicano che la produzione di vino continuò ad essere notevole nell’area e tra di essi, due sono di estrema importanza, in quanto risulta impressa su di essi, la croce giustinianea, ed essi rappresentano gli unici esempi in Calabria. La suddetta attestazione incisa, rappresenta il documento incontestabile, che denuncia l’uso di questi due palmenti, nel Vi sec d.C., al tempo di Giustiniano. Pertanto durante la dominazione bizantina, la suddetta area continuò a produrre vino e non possiamo sapere se la suddivisione del territorio, interessato al fenomeno dei palmenti sia stato parcellizzato allora, precedentemente o successivamente, dato che mancano i dati derivanti da un’indagine scientifica o in seguito ad una campagna di scavi. In tale territorio si espresse anche il monachesimo basiliano che esprimeva la sua essenza oltre che con la preghiera, con il lavoro. Numerosi sono i monasteri o luoghi di culto basiliani, ricordati nelle memorie documentali, dal Bruzzano al Bonamico, tra cui S. Nicola del Prato, S. Giovanni, Santissimi Anargiri, S. Floro, S. Mercurio ecc., ma nessuno di essi sopravvive, tranne il monastero della madonna di Polsi, che sorge nei pressi delle sorgenti del Bonamico.

Alla fine del VII sec. d.C., anche le immense fattorie su cui si reggeva l’economia di tutta la Calabria attuale e nel caso nostro quella di Palazzi di Casignana, entrarono in crisi in modo irreversibile e senza apparente motivo, in quanto non ci furono fatti storici sconvolgenti, tranne l’arrivo dei longobardi in Italia. Era intervenuto un fatto nuovo però, determinato dall’irrompere sulla scena della storia della forza sconvolgente dell’Islam, che sperimentò il suo dinamismo dopo un’interminabile guerra d’usura tra impero persiano ed impero bizantino. Nel 636 le armate dei Califfi sconfissero prima i Bizantini sul Yarmuk, nel 639 entrarono ad Alessandria d’Egitto e poi dopo una travolgente avanzata arrivarono nell’estremo occidente del Mediterraneo e nel 711, sotto la guida del berbero Tarik attraversarono l’attuale stretto di Gibilterra ed occuparono tutta la Spagna, ma attraversati i Pirenei, pronti a sommergere l’Europa, furono fermati nel 732 a Poitiers, dal Maestro di Palazzo Carlo Martello. Nello stesso anno 711 la cavalcata islamica raggiunse Samarcanda, dopo aver sommerso l’impero dei Parti. Nello spazio di pochi anni, tutto il mercato del nord Africa, su cui si reggeva l’economia della Calabria, venne a mancare e l’attività basata sul vino collassò, tanto più che tale bevanda era vietata dalla religione musulmana. E i vigneti tra il Bruzzano ed il Bonamico, che erano stati attivi per mille anni, poco alla volta furono abbandonati o parzialmente coltivati. E non era ancora finita, perché nel 827 iniziò la conquista della Sicilia da parte degli Arabi e già all’inizio del X secolo iniziarono gli attacchi incessanti degli islamici sulla Calabria che disperatamente resistette, sotto la guida bizantina. Intanto nella Campania si erano attestati i Longobardi, che partendo dal ducato di Benevento e dal principato di Salerno, attaccavano la Calabria settentrionale, dove furono creati castaldati autonomi. Ormai nelle lande devastate della Calabria bizantina, la gente aveva abbandonato le are costiere,arretrando sulle colline più interne e più facili da difendere e proprio a ridosso di queste ultime trincee difensive, era stato trasferito il prezioso germoplasma della Calabria, con la creazione inconsapevole di aree di conservazione di tante specie botaniche usate nell’ agricoltura.

L’arrivo dei Normanni

In questo contesto infuocato, dall’attuale Normandia francese, cominciarono ad arrivare come mercenari, dei formidabili combattenti al soldo dei Bizantini e poi dei principi longobardi di Salerno e tra questi emerse una famiglia di guerrieri straordinari: quella degli Altavilla, che sotto la guida di Roberto il Guiscardo, a cominciare dal 1047, conquistò tutta l’Italia meridionale mentre con l’ultimo degli Altavilla, Ruggero, in seguito assoggettò la Sicilia. Con la caduta di Reggio nel 1060, i Bizantini furono estromessi definitivamente dalla Calabria e dal resto d’Italia, anche se sopravvissero per poco tempo ancora sacche di resistenza. Dopo 150 anni di guerre o di attacchi continui, la Calabria era stremata ed il suo territorio ferito in tutte le sue componenti, ma nonostante ciò dava segni di vitalità ancora. Il riflesso conseguente a 150 anni di combattimenti ed incursioni incessanti si ebbe anche nel territorio interessato dagli antichi palmenti. Infatti nell’opera  Le brébion de la métropole byzantine de Règion (vers 1050) – Città del Vaticano 1974, ricavata dalla documentazione d’archivio studiata, André Guillou menziona: una vigna a Bruzzano, una vigna a Plaghìa, nel comune di Ferruzzano, vicino al sito dove sorgeva il monastero basiliano di San Nicola del Prato e il monastero femminile di San Clemente, un’altra ancora nel villaggio di Panaghìa, ancora nel comune di Ferruzzano ed un’altra in contrada Vitina, nell’attuale comune di Bianco; 4 vigne contro 750 palmenti! I Normanni, utilizzando tutte le risorse dello stato da loro costruito, edificarono una struttura statale potente ed economicamente efficiente, basata su molteplici attività artigianali, agricole e commerciali, puntando sulle coltivazioni tradizionali e rafforzando la tendenza in atto già nel periodo bizantino, incrementando l’allevamento del baco da seta, previa coltivazione dei gelsi. La coltivazione della canna da zucchero, degli agrumi, ereditata dagli Arabi in Sicilia, fu estesa in altri territori propizi anche in Calabria, però il territorio che va dal Bruzzano al Bonamico, per le pianure costiere fu abilitato per l’allevamento dei cavalli delle razze calabresi, per motivi militari, considerate validi, tanto che in seguito Federico II, trasferì in Puglia 600 stalloni di tali razze. Nella descrizione del territorio della nostra indagine, che fa Edrisi, storico arabo, ospite del re di Sicilia Ruggero, alla corte di Palermo, emerge l’assenza totale della coltivazione della vite e specificatamente nell’area di Bruzzano, mentre è indicata in quello più a nord, di pertinenza della città di Gerace: “da Capo Zefirio al fiume Petracucca, fiume perenne tre miglia. Da questa a Bursana (Bruzzano) sei miglia. Bursana è casale sul monte; fertile è il territorio che ne dipende; la popolazione ha bestiame minuto e grosso, colti non interrotti ed entrate considerevoli. Da Bursana al fiume di Gerace 12 miglia. Sopra questo fiume è posta Gerace, città bella, grande ed illustre, con colti, seminati e viti..”. Sicuramente la coltivazione della vite sarà stata presente, ma non con l’intensità del periodo ellenico, romano e della prima parte di quello bizantino. Evidentemente tale territorio era stato scelto per altri tipi di colture, oppure non era presente una popolazione consistente, che offrisse manodopera e che nel contempo consumasse il vino, mentre nello stesso tempo il territorio era stato infeudato, tranne quello appartenente alla Curia Regia e i feudatari preferivano portare avanti coltivazioni estensive di cereali oppure allevare pecore, in quanto a quell’ epoca c’era una forte richiesta di lana.

La dominazione angioina

Lo scontro furibondo tra Federico II di Svevia ed il papato, determinò, dopo la morte dell’imperatore, la fine del regno di Sicilia e l’arrivo degli Angioini nell’Italia meridionale. Infatti quando salì sul soglio pontificio il cardinale francese Guy Foulques, con il nome di Clemente IV nel 1265, si affrettò ad offrire la corona del regno di Sicilia al francese Carlo D’Angiò, che scese in Italia nel 1266 e sconfisse a Benevento, Manfredi figlio naturale di Federico II di Svevia, che si era impadronito del Regno di Sicilia. La maggior parte dei feudatari d’origine normanna si erano schierati con gli angioini, in quanto pretendevano l’infeudamento di vaste aree appartenenti alla Curia Regia e così fu più facile per Carlo D’Angiò mantenere il suo potere circondandosi di uomini a lui fedeli, che egli comunque gratificava. Nell’anno 1268 Bruzzano con i suoi casali fu concessa al cavaliere francese Egidio Appard, mentre Policore (che comprendeva l’attuale territorio di Samo e di S.Agata), fu concessa a Filippo Balderi o Baldello, e Bianco (che comprendeva gli attuali territori di Caraffa e Casignana) fu concessa ai Ruffo, signori di Bovalino; pertanto a tre feudatari era stato concesso quasi tutto, tranne Africo, il territorio dei palmenti. Nel 1274 Appard rinunciò a Bruzzano che fu assegnato a Giovanni De Brayda di Alba, che si rifiutò di pagare alla regia curia, 444 once dovute, per cui nel 1274 il giustiziere di Calabria Folco de Roquefeille sequestrò al signore di Bruzzano, fra le altre cose, 40 salme di vino bianco, corrispondenti a circa 10.000 litri. Non era una grande quantità, però ciò ci dà l’indicazione che la viticoltura non era stata abbandonata del tutto nell’area in questione, durante il periodo normanno-svevo che era appena finito e durante quello angioino, da poco iniziato.

Dagli Aragonesi ai Borbone

La dominazione aragonese cercò di operare in modo incisivo e ci furono dei timidi miglioramenti sul piano culturale, amministrativo ed economico. Addirittura furono introdotte in Calabria nuove coltivazioni, come la canna da zucchero, specie sulla costa tirrenica, con impianti per la sua lavorazione, mentre le coltivazioni tradizionali, quali il grano e i cereali in genere predominavano, accanto alle piante tessili. Una testimonianza ce la offre Atanasio Calcheopulos, in qualità di legato pontificio, con funzione ispettiva per la visita ai monasteri basiliani e dai suoi resoconti abbiamo degli accenni alla produzione di vino per l’area in questione, solo da due monasteri, quello di S. Maria di Tridetti e di S. Nicola di Butramo, che avevano vigneti anche dentro il territorio delimitato dalle due fiumare predette. Al monastero di S. Maria, di decime (ossia la decima parte del prodotto) toccavano 30 salme di vino (8 mila litri circa), al monastero di S. Nicola 10 salme (meno di 3.000 litri). Scarsissima era dunque la coltivazione della vite, ma non era scomparsa del tutto. Il resoconto per il periodo spagnolo, ci è dato specialmente da Gabriele Barrio, che accenna genericamente di produzione di vino, ad Africo, a Bianco, a Bovalino, mentre a partire dai primissimi anni del 500, iniziarono le incursioni incessanti del pirati turchi e barbareschi, che riproposero gli stessi problemi che erano stati provocati dalle incursioni arabe nei secoli precedenti, ossia l’abbandono dei terreni per una profondità dalla costa, di circa 10 km. Agli inizi del 700, negli ultimi anni della presenza spagnola in Italia meridionale, attraverso l’apprezzo, ossia la stima delle rendite, della baronia di Bianco, che comprendeva anche Caraffa e Casignana, emerge un quadro inedito. Essa risulta, sotto i Carafa, principi di Roccella, marchesi di Castelvetere e duchi di Bruzzano, ben amministrata ed in ogni sua parte razionalmente sfruttata; persino si ricavavano introiti dall’amministrazione della giustizia. Nella terre di contrada S. Anna, c’era stato un rinnovo del vigneto e, tagliate le vecchie vigne, era stata piantata una nuova di 56 tomolate, aggiunta ad una vecchia di 8, mentre dalle vigne rimaste della Corte, perché le altre erano state distrutte, si ricavava due salme di mosto, che rappresentavano un quinto prodotto da affittuari o da contadini. Era poco o niente quanto si produceva sulle colline che erano state coltivate dai greci, dai romani e poi dai bizantini, ma lasciava ben sperare. La situazione invece peggiorò anche durante la breve dominazione austriaca e poi borbonica, fino all’ultimo scorcio del secolo XVIII, secondo quanto ci racconta il viaggiatore inglese Henry Swinburne, il quale da Gerace a Bova non trovò altro che desolazione e i terreni ovunque abbandonati. Solo verso la metà dell’800, con i Borbone, la situazione era cambiata ed il viaggiatore inglese Edward Lear, da Bruzzano a S. Agata, attraversò l’area degli antichi palmenti, incontrando ovunque dei vigneti.

Dall’unità d’Italia all’attualità

Prima dell’unità d’Italia l’area dei palmenti, al pari di tutto il Regno delle Due Sicilie era in forte crescita, con agricoltura basata sulla viticoltura e la cerealicoltura, mentre dava buoni renditi, l’allevamento del baco da seta. I Francesi arrivavano con i bastimenti a Palizzi, dove si rifornivano di mosto per tagliare i loro vini, proveniente da tutto il circondario, ma ben presto la guerra delle tariffe commerciali, tra Italia e Francia rovinò i rapporti tra i due paesi e furono danneggiati i meridionali, che non trovarono sbocco per i loro vini. Ancora una volta i vigneti delle aree degli antichi palmenti, scomparvero e ricomparvero per breve tempo solo durante il periodo del fascismo. Dal secondo dopoguerra in poi, uno dopo l’altro furono di nuovo furono abbandonati quasi tutti i vigneti e nei comuni di Bruzzano, Ferruzzano, Samo, Africo, Caraffa, S. Agata, Casignana e Bianco, famoso per un D.O.C., il greco di Bianco, i terreni vitati non superano i 150 ettari, a fronte di 750 palmenti, scavati anticamente nella roccia. Da tutto questo sfacelo emerge solo la prova che le vasche vinarie presenti tra il Bruzzano ed il Bonamico, furono scavati a partire dall’arrivo dei greci nel VII sec. a.C., in quanto in epoche recenti non ci fu mai una produzione che potesse giustificare la loro presenza.

By Orlando Sculli 

Idee per le vacanze?! 15 Borghi da non perdere nell’area Jonica Calabrese.

“Esistono luoghi dove il tempo sembra essersi fermato”

Quante volte abbiamo sentito questa frase?! Bene, è vero ma in parte. In questi luoghi ho sempre avuto l’impressione che il tempo non si è arrestato, ma ha corso così velocemente da lasciare in balia degli eventi pietre, rocce, fabbricati, che ora sembrano subire gli effetti atmosferici, ma che nel contempo ancora riescono a comunicare, storie,leggende, vicissitudini che il tempo non è riuscito a mutare, ma che sopravvivono a noi oggi come testimonianze incredibili di gloriosi passati.

La costa Ionica Reggina è uno scrigno di borghi davvero ricco, soprattutto il versante orientale dell’Aspromonte ne è costellato, molti dei quali oggi, grazie all’avvento dei social network sono conosciutissimi in tutto il mondo e meta di grandi tour internazionali che giungono sino a queste latitudini per ammirare la bellezza autentica di questi paesini arroccati fra le colline e le montagne dell’Aspromonte.

PH. Alessandra Moscatello

Con questo articolo, cercherò di portarvi in modo “virtuale” a conoscere alcuni dei borghi che spesso non vengono mai accomunati al turismo, cercando di farvi cogliere le particolarità del territorio che non è, e non sarà di certo meritoriamente riassunto in queste poche righe riassuntive.

Durante il mio lungo peregrinare su e giù tra la costa e i meandri più segreti dell’Aspromonte mi ha molto entusiasmato l’idea di una terra che ancora di storie ne ha da raccontare, e non basterebbe un semplice riassunto come questo per mostrare tutto ciò che c’è da vedere! Ho sempre avuto un’ idea di territorio ben lontana dai soliti itinerari turistici di massa,soprattutto perché coerente con ciò che offre questo territorio a livello di collegamenti ed infrastrutture spesso carenti non possiamo non evidenziare che girare in Calabria spesso può rappresentare un ottima occasione che permette di assaporare il “VERO VIAGGIO” quello che non ti consente di far programmi, quello che riesce a diventare un viaggio una vera Esperienza intima.

Riscoprire i borghi Calabresi è una delle prerogative che ci porterà alla piena consapevolezza di un patrimonio che ci può dare  grandi opportunità e che non necessitano di essere intese come un parchi divertimento o luoghi di benessere ludico, ma di benessere psicofisico adatto sicuramente a chi è alla ricerca dell’anima più vera “e senza filtri” di una terra aspra e struggente allo stesso tempo; aspra come le sue montagne e struggente come i suoi contrasti.

Iniziamo ad esplorare, questo meraviglioso entroterra, che vi regalerà la bellezza esclusiva di un viaggio fuori dalle regole, lontano dai luoghi comuni e forse nell’autenticità di una terra che ancora respira e vuole respirare la spensieratezza del viaggio.

Motta Sant’Agata

per meglio dire Sant’Agata di Reggio si trova nell’entroterra di Reggio Calabria a pochissimi km dal lungomare più bello d’Italia, un borgo risalente al periodo Bizantino abbandonato dopo il terremoto del 1783 che sorge su un costone di roccia d’Arenaria a 300mt s.l.m. Da qualche anno i giovani della “Pro-Loco di Motta San Salvatore” si prendono cura del borgo ed hanno in poco tempo, restituito lustro e la piena fruibilità del sito. Qui è possibile visitare: le grotte rupestri, la chiesa di San Nicola e le sue cripte, alcune cisterne dei palazzi signorili e tanto altro. Il tutto immerso in un meraviglioso e paradisiaco panorama che si affaccia sul mitico stretto di Messina che fa da cornice a tutto questo territorio immerso in un ambiente ricco di una flora apprezzabile durante ogni periodo dell’anno.

Bagaladi

è un piccolo comune raggiungibile da Melito Porto salvo in poco più di 20minuti d’auto, ha origini antichissime, il borgo sorge sulle sponde del torrente Tuccio, la sua vocazione agricola lo annovera come uno dei comuni dalla forte produzione di olio extravergine d’oliva (dicono sia il migliore). Incastonata tra le strette vie, la chiesa di San Teodoro Martire che custodiste un bellissimo trittico marmoreo dell’Annunciazione che fa parte dell’enorme patrimonio artistico e scultoreo della scuola del Gagini . Passeggiare tra le vie del centro storico è come fare un salto di 1000 anni. Scorci, mulini, frantoi, lamie e fabbricati in pietra riescono a farti percepire la quiete di un borgo ancora fortemente legato a tradizioni, usi costumi e gastronomia tipica, qui sagre e feste tradizionali sono vive e animano il paese durante tutto l’anno.

Roccaforte del Greco

sorge a 950mt s.l.m. a circa 30km da Melito Porto Salvo (unica arteria stradale comoda per raggiungere questo borgo) protetto dai monti il paese è ancora abitato da circa 400 persone.  Il borgo sorge a cavallo di due montagnole, su una di queste la parte più antica con i ruderi del primo nucleo abitativo fortificato. Il paese non ha conservato del tutto le caratteristiche medievali ma il solo pensiero di stare affacciati a questa altitudine, respirare aria pulita ed incontaminata basta soltanto per lasciarsi prendere dall’entusiasmo infatti qui si conserva ancora quell’essenza unica che caratterizza i borghi dell’area grecanica, la seconda lingua parlata è appunto il Greco di Calabria, e basta solo questo per far visita ad uno dei paesi più impervi della provincia reggina. Da Roccaforte del Greco a circa 30 minuti in auto, si può raggiungere il famoso borgo di Roghudi Vecchio oppure per gli amanti della montagna è possibile fare escursioni nel suo comprensorio, da Punta D’Atò  fino a Gambarie passando per la famosissima Frana Colella (una delle frane ancora attive e più grandi d’Europa).

Pietrapennata di Palizzi

Frazione di Palizzi, sorge a 670mt slm, un piccolo borgo medievale che è stato storicamente assoggettato alle vicende del feudo di Palizzi (pochi km più in basso) sembra sia stato fondato dei Maltesi, infatti sono molti gli studiosi concordi con questa teoria suffragata anche dal nomignolo dato ai suoi abitanti detti appunto “matisi”. A pochi km dal centro abitato e seguendo un’antica mulattiera che parte dalla leggendaria (Rocca di Sant’Ippolito a pochi passi dal Cimitero) si può giungere su una grande vallata, alle spalle del monte Punta di Gallo (dove spiccano orribili ma necessari ripetitori tv-radio) qui sorgono e restano ancora visibili i ruderi di un antico monastero Basiliano, si tratta del Santuario della Madonna di Alica o dell’Alica. Antichissima la sua storia e tutto ciò che ruota attorno alla sua statua seicentesca (attribuita ad Antonello Gagini) oggi custodita all’interno della chiesa parrocchiale dello Spirito Santo. La vista panoramica dalla piazzetta del paese è straordinaria, Oggi Pietrapennata è abitata da poco più di una 20ina di abitanti e la sua economia agricola e dedita alla pastorizia ancora lo rende un borgo enigmatico sospeso tra cielo e mare. Non molto distante da Pietrapennata si arriva a Palizzi, un piccolo borgo che sorge sotto una roccia su cui domina imponente l’antico Castello. La sua vista è straordinaria, esso sorge proprio sul sulle sponde del leggendario fiume ALEX fiume molto importante in epoca magno-greca che ha segnato per lunghi secoli il confine fra le Repubblica di Locri e Reggio (confine che ha subito poi nei secoli ulteriori modifiche). Rinomato per la viticoltura ed il famoso e pregiato vino DOC Palizzi, oggi il borgo è dotato di numerose aziende Agricole che continuano la tradizione vinaria. Con due locande, due bar e una chiesa dedicata a Sant’Anna Patrona del paese che viene celebrata ogni 26 Luglio con una solenne processione. Da visitare; il ponte dello Schiccio, il vecchio mulino, i catoji, ed i suoi palazzi disseminati fra i vicoli stretti del borgo.

Brancaleone Vetus;

sorge alle spalle del centro abitato costiero a circa 310mt slm. Il borgo si raggiunge comodamente da un’agevole strada che attraversa le due frazioni del paese. Dopo circa 3km si giunge nella piazza della chiesa. Il borgo fantasma offre la possibilità di trascorrere qualche ora nella quiete del borgo ormai fantasma, che conserva ancora testimonianze antichissime come: le chiese-grotte di origine Bizantina ed Armena, Silos per i grani, silos scavati nella roccia per contenere le acque piovane, i resti dell’antica chiesa Protopapale in un percorso guidato che lascia senz’altro un senso di benessere psicofisico legato anche alla varietà di colori panorami e profumi dettati dalle erbe aromatiche presenti su tutta l’area archeologica fruibile. Ma Brancaleone è famosa per aver ospitato Cesare Pavese nel 1935 ed oggi è possibile visitare la casa museo a Brancaleone Marina previo appuntamento con la Pro-Loco e/o durante la numerose attività culturali che si svolgono al suo interno.

Staiti:

Il più piccolo comune della Calabria, sorge a 550mt slm e dista 13km da Brancaleone marina. Il paese è davvero un gioiellino, appena entri ti sembra di rivivere atmosfere fiabesche, immerso in un contesto davvero unico sospeso sul mare che fa da sfondo. Interessante è seguire il percorso delle Chiese Bizantine lungo le vie del paese, vere e proprie opere d’arte in bassorilievo, la Chiesa di San’Anna Patrone dal Paese, la Chiesa di Santa Maria della Vittoria su cui svetta il campanile e l’orologio, il Museo dei Santi Italo Greci ubicato nell’ex palazzo della pretura e delle antiche carceri, il geosito delle Rocche du quartu con vista panoramica sulla vallata, e l’Abbazia di Santa Maria di Tridetti che sorge più in basso. Il borgo è dotato di una locanda dove poter gustare i prodotti tipici del luogo in un terrazzo naturale affacciato sul borgo. Insomma, un vero gioiellino che merita una visita!

PH. Alessandra Moscatello

Rocca Armenia di Bruzzano

Suggestivo borgo ormai fantasma dalle origini antichissime, si trova a pochi passi dal nuovo centro abitato di Bruzzano Zeffirio, la caratteristica di questo borgo è sicuramente il suo castello ricavato nella roccia ad opera di milizie di provenienza Armena nel IX sec. d.C., da visitare sicuramente lo straordinario arco trionfale dei Principi di Carafa eretto nel XVII sec. con affreschi straordinari che rendono il luogo davvero unico e suggestivo.

Ferruzzano superiore

Un borgo che si trova situato a 470mt slm l’ho definito “la terrazza sul mar ionio” ed oggi conosciuto per aver ospitato alcuni set cinematografici. Un borgo abbandonato ormai, dai vicoli e vedute straordinarie. Passeggiare tra i vicoletti del borgo è come fare un salto nel passato, un passato a volte triste che ha determinato poi nel tempo, la causa del suo spopolamento dovuto all’isolamento e all’emigrazione. Oltre al borgo, il territorio offre l’opportunità di fare delle bellissime escursioni alla scoperta dei numerosi Palmenti rupestri che si trovano sparsi anche all’interno dell’area S.I.C. del Bosco di Rudina.

Samo e Precacore

Samo e Precacore hanno una storia antichissima e millenaria, visitare questo antichissimo borgo è davvero interessante e ricco di suggestioni. Arrivare a Precacore è semplicissimo, basta percorrere per circa 1km una comoda stradina in salita che dal centro di Samo e precisamente dalla sua piazzetta sita dove c’è il palazzo comunale, risale con dei tornanti una collinetta. Qui, un borgo abbastanza mantenuto in buono stato ci lascia calare nell’atmosfera di un passato che purtroppo per i suoi abitanti ha avuto ripercussioni tristi e legati a terremoti catastrofici che hanno costretto la sua gente ad abbandonare il vecchio paese per trasferisti sul pianoro che venne chiamato Samo. Qui la Devozione a San Giovanni è fortissima, sono infatti due gli appuntamenti annuali che festeggiano il Santo protettore del paese: Il 29 Giugno con il pellegrinaggio e la veglia al borgo antico, e ad Agosto quando il paese si anima di turisti ed emigranti che fanno rientro per vivere i festeggiamenti del Santo Patrono.

Sant’Agata del Bianco

borgo rinomato per aver dato i natali allo scrittore Saverio Strati, dove l’amministrazione comunale ormai da anni svolge un ruolo molto importante sulla riqualificazione del borgo dei suoi Palmenti e organizza una serie di manifestazioni culturali che scandiscono ogni stagione dell’anno ed animano il paesino. Da visitare; Il Museo Artisti Santagatesi, il Museo delle “cose perdute”, Palazzo Borgia, il museo della Liuteria, il Museo del vino, la Chiesa dedicata a San’Agata, la via delle porte pinte e i murales per le vie del borgo, oltre ai tanti palmenti rupestri del periodo ellenistico e Bizantino sparsi sul territorio. A pochissimi passi, anche il borgo di Caraffa del Bianco e Casignana con il suo piccolo borgo medievale oggi rinato grazie ad importanti interventi di restauro conservativo che consente ai visitatori di trascorrere  piacevoli giornate affacciati sul grande panorama del Mar ionio azzurrissimo!

Polsi (San Luca)

La Calabria và compresa sin dalle sue antiche e profonde radici, per fare questo è necessario recarsi a Polsi, dove vi è venerata la Sacra Madonna della Montagna, un antico monastero Bizantino del XI sec. che si trova incastonato tra le montagne più alte dell’Aspromonte Orientale. Qui ogni anno da Fine Agosto fino a tutto settembre e anche oltre una moltitudine di pellegrini giungono dalla Calabria e anche dalla vicina Sicilia. Talvolta le carovane di pellegrini giungono dopo chilometri e chilometri percorsi a piedi. La devozione alla Madonna è talmente forte e viva che qui si respira un aria di misticismo e suggestione. Persino chi conosce Polsi per la cronaca nera riesce a ricredersi camminando tra il santuario e le piccole botteghe di souvenir e ricordi posti al di fuori del santuario. La visita alla Chiesa della Madonna della Montagna è d’obbligo, poi esiste una bellissima via crucis che si inerpica su per una collinetta proprio vicino alla chiesa dove svetta il cristo risorto, una scultura del noto scultore Giuseppe Correale. Una sosta sicuramente è consigliabile al ritorno sulla cima di Montalto raggiungibile tranquillamente a piedi tramite il sentiero ben segnalato che parte dal bordo stradale. La vista dal Monumento del Cristo Redentore è mozzafiato, nelle giornate limpide sicuramente non potrete non rimanere estasiati dalla vista panoramica che da qui si gode sui due mari, Mar Ionio e Mar Tirreno che abbracciano questa terra meravigliosa e ricca di colori.

Placanica

Borgo conosciuto sicuramente per il Santuario della miracolosa “Madonna dello scoglio” (in località Santa Domenica), è un borgo medievale a 400mt s.l.m. dal fascino ancora immutato, con all’apice della sua collina il Castello che caratterizza il panorama sulla vallata, da visitare la Chiesa annessa al convento dei Padri Domenicani, la chiesa annessa al convento di Santa Caterina, la chiesa di San Basilio Magno, i ruderi del convento dei Francescani, e poi, vicoli, palazzi e porta urbica del borgo, in un meraviglioso salto nel passato e immersi nel silenzio della vallata sottostante.

Potrei però consigliare innumerevoli altri luoghi altrettanto belli e interessanti, come; Gallicianò, Amendolea, Bova, Casalinuovo, Africo Vecchio, Pentedattilo, Casignana, Bovalino Superiore, Bombile, Antonimina, Ardore Superiore, Condojanni e Sant’Ilario, Siderno Superiore, Agnana, Canolo, Natile Vecchio, Platì, Gerace, Mammola, Stilo, Bivongi, Pazzano, San Giorgio Morgeto, Stignano, Riace e così via…,  ma questa è un altra storia, un altro tour, un’altra occasione in più per perdersi nella bellezza di questa terra ancora pregna di storia e fascino. Questo piccolo tour vuole approfondire maggiormente i luoghi poco in voga nell’immaginario collettivo, e vole mostrare una Calabria altrettanto ricca di luoghi e borghi da visitare, conoscere ed apprezzare, inseriti in un territorio che a volte sembra essere nascosto agli occhi delle masse, ma che riescono a regalarci esclusive notevoli.  Non aspettatevi strade di grande comunicazione o bus gran turismo, qui la vita scorre lentamente in questi luoghi che aspettano di essere scoperti con un approccio intimo e silenzioso che crea ancora più curiosità nel vivere luoghi e persone che incontrerete nel vostro viaggio. D’altra parte a noi buongustai del turismo lento, piace tutto così… !

Un consiglio?! Prima di mettervi in viaggio, contattate attraverso internet, facebook, instagram o telefonicamente una guida, un’associazione del posto, perchè essere accompagnati facendovi narrare la storia di questi luoghi significa essere guidati per mano nella storia e nel tempo.

Buon viaggio… 

 

By Carmine Verduci

 

 

Le origini Ebraiche dei Jaluni, il dolce tipico di Staiti (RC)

C’è una Calabria talmente enigmatica che è in grado di aprire ancora scenari di storia e di antiche civiltà. Una Calabria che un tempo è stata crocevia di molte etnie che hanno lasciato segni tangibili e indelebili nella nostra cultura, soprattutto nella “cultura gastronomica” di cui il territorio ne è pregno di significato.

Siamo andati alla ricerca del significato delle tradizioni, e questa che stiamo per raccontarvi ci parla di una profonda spiritualità che ancora è viva, sin dalle nostre più antiche origini. Nel caso specifico vi porteremo a Staiti, piccolo borgo del Regino di 240 anime dove ancora è forte e viva la tradizione dei Jaluni e non solo, in tutta la Locride riscontriamo molte similitudini, sia di forme e sia di denominazione, segno della presenza ebraica sin dal medioevo in questo territorio.

I JALUNI

Shalom (שָׁלוֹם “ascolta” in sefardita/ebraico israeliano: shalom, in aschenazita/yiddish: sholom, sholem,  sholoim, shulem) è una parola ebraica che significa PACE, COMPLETEZZA, PROSPERITA’, oppure CIAO, ARRIVEDERCI o STAR BENE. L’espressione può riferirsi sia a “PACE” tra due entità (specialmente tra UOMO e DIO o tra due Nazioni), o anche al benessere e alla sicurezza di un individuo o un gruppo di individui. La parola si riscontra anche in molte altre espressioni e nomi. La prima lettera di shalom è “shin” nel Sèfer Yetzirà rappresenta l’elemento del fuoco, che purifica e trasforma.

Nel Salmo 85,11  Shalôm fa coppia con giustizia, per descrivere la pienezza dei beni messianici: “Misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno…”.

Il Salmo 22 ne illustra bene il significato, anche se compare il termine specifico Shalôm: ” Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla…il mio calice trabocca…”

Per la forma e per il suono la parola shin ricorda il movimento ascensionale, che allude all’anelito dell’uomo verso Dio. Anche in Grecia hanno un dolce simile che ricorda nel simbolismo i Jaluni. Si tratta del “lichnarakia”, termine che significa lampada o luce, che indica anch’esso l’origine sacra di questo dolce.  In sostanza dove c’è stata matrice greca-ebraica le tradizioni si mescolano con la cultura locale e creano grandi significati che per forma e particolarità, rendono questa terra ricca di gastronomia nelle sue forme più svariate, scandendo così le stagioni, i riti religiosi, le usanze nei paesini che ancora vivono di ritmi lenti e sopratutto spirituali.

La forma della pasta frolla è a lucerna a 4 becchi ed il ripieno è di ricotta rigorosamente di origine caprina. Occorre la Toma riposata almeno due giorni (generalmente ricotta 70% toma 30%)

 

A Pasqua quindi; UN DOLCE PIENO DI STORIA, CULTURA E SIGNIFICATO!!!

Il “lumericchiu” o “fragune”  è un dolce pasquale tipico di alcuni paesi della provincia di Catanzaro. Il primo termine rievoca i “lichnarakia”. La parola  “fragune” probabilmente deriva dal latino “flado” che significa sfornato, focaccia di forma circolare.  In alcuni paesi dell’istmo di Catanzaro, sono anche chiamate “chinulille” o “chinulidde”.

BY: Sebastiamo Stranges

FOTO: estratte da Internet (si ringraziano gli autori)

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