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Rocca di Varva

Domenica 1 Marzo alla scoperta della Rocca di Varva

Domenica 1 Marzo Kalabria Experience vi porta alla scoperta della Roca di Varva, una particolare conformazione rocciosa dalle sembianze umane. Si trova sul territorio di San Lorenzo proprio vicino al Borgo di San Pantaleone, immersa fra le campagne verdeggianti, caratterizzate da colture di ulivi e vigne, dove lo sfondo del mare contrasta con la bellezza delle colline circostanti.
 
L’ITINERARIO:
 
L’itinerario è dei più semplici; Giungendo al borgo di San Pantaleone, lasciato le proprie auto lungo la strada che porta al piccolo santuario della Madonna della Cappella, percorreremo un tratto di strada asfaltata fino alla chiesetta, visiteremo questo luogo ricco di storia e immerso nella pace e nel silenzio delle campagne, che custodisce un’antica effigie della Madonna col bambino presumibilmente del XI secolo.
Terminata la visita percorreremo la stradina che costeggia il piccolo cimitero e che in leggera salita ci porterà all’imbocco del sentiero che raggiunge la rocca di Varva (scopriremo perchè si chiama così). Sosteremo ai piedi della grande roccia per ammirare tutte le sue più curiose sfaccettature, piantumeremo un alberello in segno di riconoscenza della nostra visita su questo luogo. Al termine della piantumazione dell’alberello consumeremo il pranzo (a sacco) terminata la pausa riprenderemo il cammino sulla strada interpoderale che di li a breve ci condurrà al paese di San Pantaleone, attraverso una discesa su strada che ci farà cogliere le caratteristiche dei vicoli e scorci del borgo fino alla chiesa parrocchiale e la piazzetta con l’affaccio sulla Fiumara Tuccio. Dopo una breve sosta panoramica, raggiungeremo le nostre automobili dove le avevamo lasciate.
PROGRAMMA:
 
Ore 09:30 Incontro/Raduno a Melito di Porto Salvo (imboccando il bivio verso Bagaladi, San Lorenzo, Roccaforte del Greco, Chorio).
 Ore 10:00 Partenza con le automobili verso San Pantaleone
Ore 10:30 Inizio cammino
Ore 13:00 Pausa Pranzo
Ore 14:30 Visita Borgo di San Pantaleone
Ore 16:30 Arrivo al punto di partenza e saluti
 
SCHEDA TECNICA:
 
Difficoltà: T (TURISTICA)
Percorso: strade mulattiere: 60% asfalto, 40% sterrato o sentiero battuto.
Lunghezza complessiva: 4,5km
Durata cammino: 5h (soste incluse)
Presenza d’acqua: all’inizio del percorso e alla fine (San Pantaleone)
I bambini possono partecipare se seguiti e sotto la responsabilità di un adulto
NUMERO MASSIMO ADESIONI: 40
*L’escursione si effettuerà con un numero minimo di 10 partecipanti
QUOTA DI PARTECIPAZIONE:
5€ (da versare all’appuntamento)
 
ATTREZZATURA CONSIGLIATA:
Scarponcini da trekking, Vestuario a cipolla e comunque adatto al periodo, bastoncini da trekk (facoltativi), K-wai,cappellino da sole, occhiali da sole, scorta d’acqua (almeno 1,5lt), Pranzo o spuntino, smartphone e macchina fotografica (facoltativi)
 
*Il partecipante, si assume la sua responsabilità avendo preso visione del programma, esonerando l’organizzazione da ogni tipo di responsabilità, civile o penale che possa insorgere durante la giornata.
 
*Per aderire alla passeggiata basterà chiamare il numero 3470844564 rilasciando il proprio nome e cognome (non sono accettate prenotazioni tramite sms o messaggi whatsapp).
 

Buon cammino

 

Pollìschio; la città scomparsa.

Luoghi, misteri, leggende, avvenimenti storici e luoghi che la terra ha inghiottito nel silenzio. Civiltà che diedero vita ai nostri paesi Aspromontani e pedemontani.  Ci troviamo a sud della Calabria, e precisamente nel territorio di Staiti (borgo medievale a 13 Km dalla costa jonica, posto a 550mt s.l.m.). La località in questione, si trova a pochi passi dall’abazia di Santa Maria di Tridetti accanto al torrente Fiumarella (oggi un rigagnolo ma un tempo di portata consistente). Questo edificio di origine Bizantina, ma con chiare influenze normanne e motivi decorativi arabi, risale probabilmente al VII-VIII secolo, o addirittura al XI secolo, (come ritiene il grande archeologo Paolo Orsi, sovrintendente alle antichità e alle belle arti della Calabria, che scoprì l’Abbazia di Tridetti nel 1912).

La leggenda vuole che l’abazia sia stata costruita sui resti di un antico tempio dedicato al Dio Nettuno, edificato dai Locresi Zefhiri nel V-VI secolo A.C.; tesi resa attendibile (come rilevato alcuni ritrovamenti di monete coniate in onore della divinità, con impresse l’immagine del Dio Nettuno), oltre che da testi antichissimi ad opera di cronisti d’epoca, che ci narrano di un’imponente statua raffigurante il Dio Nettuno, impreziosita da un mantello pregiatissimo con ricami in oro e pietre preziose che la ricoprivano. Secondo alcuni, pare che Annibale, passando da questo luogo (attraccato con la sua nave al porto di Capo Bruzzano (dove sbarcarono i primi coloni greci) attratto dal pregiatissimo mantello se ne impossessò, sotto lo sguardo attonito della sua milizia che chiese ad Annibale il perchè del gesto. Annibale rassicurò le truppe asserendo che la divinità avesse caldo, e che lo avrebbe riportato alla divinità con l’arrivo della stagione fresca.

Intorno al VIII-IX Sec. gruppi di monaci Basiliani sfuggiti dall’ oriente, a causa della persecuzione musulmana prima, e iconoclasta dopo, approdarono sulle coste Calabresi spinti dalla necessità di trovare luoghi nascosti per sfuggire alle persecuzioni. Si spinsero in luoghi nascosti dell’entroterra, trovando rifugio in anfratti naturali e zone inaccessibili dove professare liberamente il loro credo. Nacquero così piccole comunità religiose che creebbero dando poi vita a cenobi, laure, monasteri, grangie e abbazie come nella vallata dove oggi sorge l’Abazia di Santa Maria di Tridetti, il luogo viene ancora oggi chiamato “Badìa”.

Si narra ancora oggi che proprio nelle vicinanze, sia esistito un’antica città dal nome Pollìschìo e su che fine abbia fatto, resta ancora oggi un mistero. Sorse in una località conosciuta ancora oggi con il toponimo di Fracasso. Su questa teoria la questione sembra essere ammantata di mistero. Ipotesi che meritano senz’ altro una più attenta ed approfondita analisi che speriamo in futuro attraverso ricerche possa tradursi in rivelazione.

Il Dott. Francesco Giuseppe Romeo che pubblicò nel 1985 il libro “Santa Maria di Tridetti a Staiti, storia di una abbazia Basiliana” descrive questo luogo avvalendosi oltre che degli studi effettuati su registri e documentazione d’archivio, anche raccogliendo testimonianze tra gli abitanti di Staiti. Sulla sua pubblicazione scrive: …in località denominata “Turco” i proprietari di una casa durante i lavori di restauro, rinvennero dei resti umani di scheletri, probabilmente resti di una necropoli appartenuti al vicino nucleo abitato Pollìschìo, in un’altra nota aggiunge, che un Signore di nome Giovanni Patti di Staiti mentre coltivava il suo appezzamento di terra, in località detta “Fracasso”, rinvenne una croce metallica di ottima fattura artigianale.
Visto che il testimone in questione morì in età avanzata (nel 1935), si suppone che l’episodio del ritrovamento avvenne sicuramente negli anni antecedenti la sua morte. Il toponimo “Fracasso”, potrebbe forse derivare da un catastrofico episodio o terremoto di difficile datazione, che secondo i racconti degli anziani potrebbe essere aver cancellato l’antica città di Pollischìo. Sul toponimo fracasso una teoria che potrebbe essere ricondotta al toponimo potrebbe essere riferita a qualche incursione saracena. Solitamente queste incursioni avvenivano seguiti da un gran baccano ad opera dei Turchi che annunciavano l’invasione ed i saccheggi nei villaggi, tale considerazione ci viene dalle crono-storie riportate a noi oggi grazie a studi e ricerche, per cui ipotesi da non sottovalutare.

Detto territorio un tempo aveva un’economia molto fiorente, basata sull’agricoltura e la pastorizia, gli abitanti erano sparsi sulla vallata (chiamata ancora oggi “Badìa”) e molti nomi e toponimi ancora oggi in uso nel linguaggio locale, riconducono senza ombra di dubbio a quelli che furono sicuramente insediamenti monastici e religiosi con annesse presenze laiche (per la maggior parte umili pastori e contadini) come ad esempio le località; Magazzini, Stuppia,San Cesareo, San Gregorio, San Nicola e San Biagio, quest’ultime non solo ci danno una chiara interpretazione di come i Santi Armeni siano stati i più venerati del comprensorio, ma ci indicano numerose presenze umane sparse o verosimilmente più organizzati come villaggi e contrade.

L’avvento di Internet, per quanto discutibile possa essere, oggi dà l’opportunità di confrontare le notizie storiche con le varie analogie espresse dai frequentatori appassionati, ma anche dai conoscitori degli avvenimenti storici, spesso queste persone generano interessanti confronti e scambi di opinioni, che innescano interesse e curiosità. Ed è proprio su Facebook che qualche anno fa ebbi uno scambio di opinioni con il Sig. Giuseppe Micheletti su un gruppo dedicato proprio a Staiti. Mi colpì un “post” che faceva riferimento Pollìschio, argomento su cui stavo lavorando da mesi. Contattai privatamente Micheletti che vive all’estero da molti anni al quale spiegai che stavo cercando informazioni atte a ricostruire la vicenda di Pollìschio dal punto di vista leggendario, mi resi subito conto di aver avuto la possibilità di raccogliere la testimonianza importante. Micheletti con molta cortesia mi scrisse testualmente: <<quel che so di Fracasso è che certamente non si chiamava cosi`, ma dal fatto che sia successo qualcosa di grave, più grande di quello che noi pensiamo… Allora forse si chiamava Pollìschio. Io credo che esistesse un piccolo paese, che viveva esclusivamente d`agricoltura ,con lavorazione dei metalli, del legno e custureri (sarti) …Intorno a questo paese vi era gente che abitava in pagliai e qualche abitazione sparsa… Non dobbiamo dimenticare che era una zona molto boscosa e la fiumara di Bruzzano era un tempo navigabile. Forse Annibale è arrivato a Tridetti entrando da lì. I romani che avevano bisogno di legno hanno praticato il disboscamento di questi luoghi. Ritornando a Fracasso, mi ricordo che negli anni 50, il fosso zona limitrofa era molto attivo e coltivato dappertutto. Con case-fienili ricovero per gli animali d’allevamento ,vacche , capre, e pecore , maiali ecc… Si produceva tutto per il fabbisogno della famiglia dalla lana al grano, dalle fave all’ avena. Questo paese forse è scomparso a causa di un’alluvione, una frana ma potrebbe essere stato cancellato a causa di violentissimo terremoto>> .

A questa testimonianza vanno sicuramente aggiunti i racconti dei natii di queste zone, che di certo non avvalorano nessuna tesi a riguardo ma, alimentano altresì molta curiosità, alla quale servirebbe creare un interesse di studio maggiore. In questo lembo di terra di Calabria, sono molti gli idiomi ancora oggi in uso per identificare un luogo, una zona, un punto preciso del territorio. Pollìschio potrebbe essere stato di origine antecedente alla costruzione dell’Abbazia di Tridetti e quindi di origine (Greca)? O si tratta solo una leggenda priva di fondamento? Il toponimo “fracasso”, potrebbe riferirsi ad un catastrofico evento meteorologico o geofisico (appunto un fracasso)? Oppure si tratterebbe solo di inquietanti coincidenze? Ad oggi è difficile dirlo con certezza!

Stando alle ricerche condotte dal ricercatore Carmine Laganà, dato che il nucleo di Staiti prese il nome dalla Famiglia Stayte (di origine Messinese intorno al 1590), e che come dimostrano i registri esaminati, il Feudo risulta riscattato da Federico Stayte a causa dei debiti lasciati dalla Madre, è ipotizzabile che Pollìschìo, fu trasferito nell’attuale Staiti in questa occasione.

E’ dunque tra i boschi di queste aspre colline che sono caratterizzate da una fitta e rigogliosa vegetazione tipica di macchia mediterranea che si nascondono tanti segreti, che varrebbero la pena essere approfonditi per comprenderne la storia e le origini di questi luoghi che oggi potrebbero rappresentare un enorme patrimonio archeologico immenso.

Solo attraverso lo studio dei toponimi, che si potrà approfondire l’origine ed il declino stesso di queste antiche civiltà, scomparse nel silenzio delle montagne, divenute ormai, scrigni di segreti e misteri. Luoghi inaccessibili, dove ancora risuonano echi di storie, e civiltà che attraverso le leggende vivono tra i dialetti dei paesi pedemontani dell’area Grecanica Calabrese

Sicuramente la storia di “Pollìschio”, potrebbe rivelarci molto di più della leggenda narrata, potrebbe rivelarci tasselli di storia ancora celata sotto foreste vergini e antiche civiltà sconosciute.

By Carmine Verduci

antonello gagini

Il Marmo che vive attraverso l’opera di Antonello Gagini

Il Rinascimento in Italia ebbe una notevole rivoluzione nelle arti, in un periodo storico che fu sicuramente contraddistinto dall’ innovazione scientifica unito ad una fiorente concezione dell’arte espressa in ogni modo, dalla pittura alla scultura, passando per l’architettura e la filosofia. In Calabria non è difficile trovarsi di fronte ad un’opera di bottega Gaginiana, ciò equivale a fare un salto nella storia dell’arte Italiana e nella storia del meridione d’Italia intesa come “espressione artistica” che mostra la sua massima diffusione già sul finire del 1400 e fino gli inizi del 1600.

Antonello Gagini (o Gaggini) 1478 figlio d’arte, allievo del Padre Domenico Gagini, scultore Ticinese che operò in Italia e specialmente in Sicilia, dove insegnò al figlio l’arte della scultura fu un grande scultore e architetto, alla sua morte nel 1536 la sua opera proseguì grazie ai figli Giandomenico e Antonino avuti dalle seconde nozze, che continuarono il mestiere del padre, (dunque la Bottega Gagini) ha poi continuato a produrre gran parte delle opere citate, per cui vanno le precisazioni dovute. Alla morte di quest’ultimi Giandomenico e Antonio i figli proseguirono i fino alla terza generazione che lavorò per tutte le committenze in Sicilia, Calabria e in tutto il centro Italia, realizzando numerose opere sacre e monumenti funebri fino alla morte dell’ultimo erede di famiglia Giacomo Gaggini morto intorno al 1627.

Molte sono infatti le opere incompiute del padre che dopo la sua morte, vennero poi completate da Antonello.

La scultura di Antonello, il tocco del suo scalpello, la ricerca nei particolari e nei volumi nelle figure rappresentate, sono una firma inconfutabile. Difficile non rimanere estasiati di fronte un’opera Gaginiana (o di Bottega). I drappi delle sue figure, le espressioni dei volti che caratterizzano ogni scultura, caratterizzano in maniera incisiva la maestranza nel saper rendere quasi viventi ed eteree le figure da lui rappresentate. Sculture che sembrano farci percepire lo stato d’animo dell’opera, per la maggior parte figure sacre, di Madonne sotto vario titolo. La voluminosità delle stoffe che ricoprono il corpo dei personaggi sono l’espressione più evidente delle tecniche che oggi portano la firma del rinascimento del meridione d’Italia. Sembra che l’artista con il suo tocco volesse far vivere il marmo bianco di Carrara con cui ama plasmare i corpi delle figure. Opere, che gli vennero commissionate in tutta Italia da parte di alti prelati o più comunemente da nobili famiglie dell’epoca. Sculture che oggi si trovano in numerosi santuari e chiese del Sud Italia … soprattutto nell’ area della bassa Calabria. Antonello Gagini ci lascia oggi un patrimonio di inestimabile valore storico e di immane bellezza, spesso al centro di numerose diatribe sull’ attribuzione. Fra questi non possiamo non menzionare il gruppo marmoreo dell’ Annunciazione, venerata nella Chiesa di S. Teodoro a Bagaladi (RC) dove le figure sembrano dialogare fra di loro, con una naturalezza tale che sembrano rievocare il momento, con un gioco di sguardi ed espressioni che riescono a disarmare lo spettatore.

Annunciazione a Bagaladi (RC) – Photo Nicola Santucci

Come non stupirsi delle fattezze della statua della Madonna col Bambino a Roccaforte del Greco (RC). Non possiamo però dimenticare anche il mezzobusto di Maria Santissima della Lica o dell’Alìca (attualmente custodito nella chiesa parrocchiale dello Spirito Santo a Pietrapennata, frazione di Palizzi (RC) anticamente venerata in un monastero dedicato alla stessa, che oggi ridotto in rudere, è diventato meta di studiosi ed escursionisti.

Madonna dell’ Alica Pietrapennata di Palizzi (RC)

Ma l’esempio degli esempi, che rende l’opera di Antonello Gagini suprema ed eccelsa è sicuramente la Madonna della grotta di Bombile (Rc), una statua di straordinaria bellezza dalle fattezze sovrumane e forse una delle opere più belle dell’artista, che più rappresenta la bottega Gaginiana in Calabria. Su quest’opera aleggiano misteriose leggende. Si racconta infatti che la statua sia stata scolpita da mani angeliche, un miracolo divino che trasformò il modello in gesso non ancora terminato dallo scultore, nella statua di marmo d’alabastro che conosciamo oggi. Un prodigio, che pare si verificò poco prima di tutti gli altri miracoli, che portò alla sua collocazione in quello che fu il luogo dove venne venerata da fedeli nel mese di Maggio in un Santuario scavato nella roccia tufacea che il 28 maggio 2004 una frana sepolto definitivamente sotto tonnellate di roccia, cancellando cosi secoli e secoli di storia. Il questa triste occasione fortunatamente la statua è rimasta illesa nel crollo. Oggi la statua si trova nella chiesa parrocchiale dello Spirito Santo del paese di Bombile (RC) che accoglie ogni anno centinaia di fedeli provenienti da Sicilia e Calabria.

Madonna della Grotta Bombile di Ardore (RC)

Vi è da dire, che un po in tutta l’area Grecanica vi sono opere dello scultore Palermitano, esistono infatti anche molte opere non ancora riconosciute o presumibilmente attribuite ad altri scultori, come ad esempio la Vergine col Bambino a Bova (RC) nella concattedrale dell’ Isodìa dove sull’altare maggiore troneggia questa bellissima scultura a mezzobusto della Madonna, fino a qualche tempo fa, si pesava fosse opera di Antonello Gagini, ma stando agli studi sull’opera si è rilevato che la statua fu commissionata allo scultore siciliano Rinaldo Bonanno. Caso analogo è stato anche a Staiti (RC) piccolo borgo medievale alle propaggini sud orientali dell’Aspromonte dove all’ interno della chiesa dedicata a Santa Maria della Vittoria vi è collocata su una nicchia laterale una Statua della Vergine col Bambino che è stata attribuita per anni alla bottega Gaginiana, ma in realtà la statua datata 1622 risulterà opera dello scultore Martino Regi come appunto rileva il basamento nel retro che porta la sua firma incisa.

Madonna col Bambino a Staiti (RC)- Photo Carmine Verduci

Altre opere di grande pregio e bellezza non possono passare inosservate, fra tante troviamo a Soverato superiore (CZ), nella chiesa dell’addolorata, come non rimanere incantati di fronte alla Pietà del Gagini che esprime la tenerezza e la compassione della Vergine Maria con il Cristo in braccio. E infine il Trittico del Duomo di S. Leoluca a Vibo Valentia eseguito negli anni 1524-34, opera commissionata dal Duca di Monteleone e vicerè di Sicilia Ettore Pignatelli per la chiesa di S. Maria de Jesu, e poi ancora; la Madonna col Bambino della chiesa di S. Bernardino d’Amantea (CS), commissionata dal nobile Nicola d’Arco; e la Madonna degli Angeli della collegiata della Maddalena di Morano Calabro (CS).

La Pietà a Soverato (CZ) – Photo Luigina Larizza

Molte altre opere disseminate sul territorio Calabrese non sono state ancora attribuite o nella maggior parte dei casi, si pensa abbiano a che fare con la bottega Gaginiana come il caso della statua della Madonna della Catena a Bruzzano Zeffirio (RC) custodita proprio nel piccolo santuario sorto sul luogo del miracoloso ritrovamento, recentemente restaurata, ma che denota molti dubbi sull’attribuzione al Gagini in tal senso.Come ad esempio la statua della Madonna della Neve custodita e venerata nella Chiesa Matrice a Bovalino Superiore (RC), per citarne alcune…

Madonna delle Catene Bruzzano Zeffirio (RC) – Photo: Sonia Musitano

La scultura Gaginiana in Calabria è una ricca costellazione di opere di grande pregio, che oggi arricchiscono importanti chiese e Santuari. Tutte queste opere rappresentano per noi, popolo calabrese una ricchezza di inestimabile valore, da custodire, ammirare e divulgare, specialmente nelle scuole. E’ dunque impensabile non annoverare tali esempi del Rinascimento Italiano che si avvale di maestranze artistiche che appresero dai grandi maestri Fiorentini dell’epoca tecniche e segreti, portando la scultura sacra a livelli equiparabili ai virtuosismi dei grandi maestri rinascimentali che noi tutti oggi conosciamo.

 

(By Carmine Verduci)

Le olive schiacciate, un tesoro per i palati.

Se è vero che la calabria è un complesso e variegato macrocosmo di bellezze, tipicità e millenaria storia, è vero anche che da secoli la cultura gastronomica che la contraddistingue, sia oggi tornata in auge. Questa rappresenta uno degli aspetti caratteristici ed imprescindibili della nostra terra, densa di sapori e significati che affondano le proprie origini nella tradizione contadina.
Con l’avvento del cibo bio e dei prodotti a chilometro zero in forte crescita sul mercato, consente di avere ampie visioni sul tema gastronomico delle nostre regioni, con un interesse sempre più crescente in ambito culturale dei piatti tipici, delle tecniche di preparazione, usi e significati derivanti spesso da altre culture che si sono sovrapposte nei secoli, e che oggi rappresentano l’unicità dal quale traiamo ricchi benefici. Insomma, in Calabria paese che vai e tipicità che trovi…
Oggi voglio presentarvi uno dei piatti più poveri (se così possiamo definirlo) della tradizione contadina Calabrese, tra le prelibatezze che tutto il mondo ci invidia! Stiamo parlando delle “Olive schiacciate” tipicità del mediterraneo che nell’antichità ha dato sostentamento a contadini e pastori, la classe più povera della società che sull’Olivo ha creato un “MODELLO” di ricchezza patrimoniale forse poco sfruttato!


La natura ci ha donato innumerevoli frutti e leccornie, di sicuro l’olivo è quello che tutti noi conosciamo meglio, perchè da millenni viene coltivato nelle nostre terre ed ha rappresentato sin dall’età ellenica una fonte di ricchezza importante per quella che è stata per la Calabria “La Magna Grecia. Oggi in Calabria si produce sempre meno Olio, frutto di una rigenerazione agricola che ha letteralmente sconvolto il mercato, dovuto a politiche europee poco lungimiranti in tal senso…, non dimentichiamoci che la pianta d’ulivo è essenzialmente una delle piante più sfruttabili in termini di alimentazione e non solo…. Nella cultura agro-pastorale infatti, varie parti della pianta venivano utilizzate per la realizzazione di cesti, arnesi e comunemente anche per tradizione religiosa (pensiamo all’intreccio delle foglie d’ulivo per la settimana Santa nei paesi grecofoni della Calabria) ad esempio a Bova con la tradizionale festa delle Palme o Pupazze. Anche il legno da ardere d’ulivo era tra i più usati dai panettieri del medioevo, considerato tra le qualità migliori per la panificazione e sopratutto ideale perchè riesce a dare un aroma particolare anche nell’affumicatura di salumi, formaggi e pane stesso cotto nel forno. Non smette di sorprendere la grande varietà di ulivi presenti sul territorio Italiano, tra le più coltivate, come rivela il Prof. Orlando Sculli sono le varietà: Sanota, Zinzifarica, Geracese, Carolea; ognuna delle quali dalle peculiarità organolettiche particolari.

Ma oggi parleremo in maniera molto approfondita delle “Olive schiacciate” che a mio avviso rappresentano una delle leccornie calabresi molto prelibate, tanto presenti sulle nostre tavole, servite spesso come antipasto o aperitivo ma, non dimentichiamoci che fino a 70-80 anni fa, rappresentavano un vero e proprio pasto che veniva accompagnato dal prezioso pane, uno delle fonti di sostentamento dei contadini e della gente povera che ha fatto la storia di questa terra.
Le olive schiacciate oggi fortunatamente son tornate di moda, perchè tra le peculiarità poco conosciute in ambito gastronomico. Sebbene ai nostri occhi possono apparire semplici, c’è dietro una complessa preparazione, meticolosa e molto precisa, arricchita di spezie che alla fine trasformano questo piccolo frutto in uno dei sapori più antichi e intensi della nostra terra. I nostri nonni conoscevano bene il segreti per preparare delle ottime olive schiacciate, i metodi e le tecniche per conservarle a lungo e garantire così la scorta ideale per la famiglia per tutto l’anno. Ogni casa nasconde ovviamente i suoi segreti, ogni tecnica non può essere svelata, ma ciò che abbiamo imparato da loro, oggi è uno dei segreti più importanti che arricchiscono la nostra cultura sempre più minacciata dal consumismo e dalla globalizzazione che sta deturpando il nostro modo di pensare, di vedere, e di comprendere le cose.

Mi sono spesso chiesto, quale valore potesse avere il mio peregrinare fra borghi e campagne, il mio intrattenermi con gli anziani, che fra una parola e l’altra hanno sempre rivelato alle mie orecchie un universo di saperi e sapori, per questo oggi mi sono occupato di ricercare non dico la ricetta perfetta, ma quantomeno capire le tecniche, che possono altresì variare di luogo in luogo.

 

Come preparare delle ottime olive schiacciate seguendo la ricetta antica? Nulla di più semplice e complesso al tempo stesso è la procedura che mi è stata suggerita, più facile a fare che a spiegare:

Innanzi tutto procuriamoci delle olive verdi ben grosse, le ideali sarebbero la varietà Geracese, a questo punto, schiacciate le olive servendovi di una pietra di fiume su base di legno o marmo. Togliere il nocciolo (seme) e immergetele tutte in acqua calda (non bollente) finita la procedura di schiacciamento delle vostre olive, toglierle dall’acqua calda e immergetele in acqua corrente per due giorni, cambiare l’acqua una due o tre volte al giorno facendo in modo che stiano tutte immerse mediante un peso (ideale sarebbe quella di versarle in una retina delle patate per farle stare tutte insieme e servendovi di un peso lasciate scorrere un filo d’acqua all’interno del contenitore). Al terzo giorno, scolate le olive e versatele in un contenitore abbastanza ampio, aggiungete del sale (quanto basta), una manciata di origano e del peperoncino fatto a pezzettini. Mescolate il tutto e riempite i vasetti di olive utilizzando al posto del coperchio un peso (mazzara), il peso genererà dell’acqua in superficie, scolare tutii i giorni fino alla sua scomparsa, una volta terminato il periodo, riempite il vasetto di olio di semi di girasole o di oliva, e a questo punto saranno pronte per essere mangiate e servite a tavola, come antipasto oppure come semplice contorno.
Già mi sembra di assaporarle…

APPROFONDIMENTO:

 

Tra le varierà poco conosciute e in via di estinzione la Leucolea Leucocarpa o oliva bianca. Coltivato dai monaci per produrre olio destinato alle funzioni religiose, l’olivo bianco ha delle caratteristiche interessanti. 

Tra le varierà poco conosciute e in via di estinzione la Leucolea Leucocarpa o oliva bianca. Coltivato dai monaci per produrre olio destinato alle funzioni religiose, l’olivo bianco ha delle caratteristiche interessanti. A causa della sua colorazione, in passato Leucocarpa veniva associata al concetto di purezza e per questo veniva coltivata nei pressi di chiese e monasteri. L’olio ottenuto dalla molitura (appunto detto olio del Krisma) veniva poi usato per i riti sacri, come l’estrema unzione oppure la consacrazione di nuove chiesa.

Oggi Leucocarpa sopravvive in pochi esemplari allo stato selvatico, mentre alcuni vivai la commercializzano. Se dal punto di vista agronomico questa cultivar non presenta criticità particolari, è invece difficile la propagazione per talea.

 

By Carmine Verduci

 

APPROFONDIMENTO: I Perifània ton palèon rìzomma! – L’Orgoglio delle (nostre) antiche radici!

“ Nella parte più meridionale della nostra penisola, in alcuni paesi montani che sorgono a metà strada fra Locri e Reggio, gli anziani agricoltori e i pastori parlano ancora un arcano dialetto greco che, giunto fino a noi  attraverso una tradizione puramente orale, sembra quasi non aver mai avuto un suo passato e una sua storia…”.

Così si esprimeva nella sua importante opera: “La Glossa di Bova”, il compianto e mai dimenticato Prof. Giovanni Andrea  Crupi, il quale, in un’epoca  “cruciale” (anni ’70) per la sopravvivenza della  Lingua Greca di Calabria, antichissimo e nobilissimo “idioma dei Padri”, era riuscito, forse più di chiunque altro, a porre la “questione grecanica”  nei termini più “incisivi”  possibili. (Preciso  fin da subito che,  “grecanico”  è un “etimo” – usato sia come aggettivo che come sostantivo – che non amo, in quanto, nel tempo, ha assunto una “connotazione” che, in parte,  reputo   impropria, una  “deminutio” , e, la maggior parte dei “grecanici”, non accettano questa definizione, preferendo quella di: Grecofono, Ellenofono o Ellenofono di Calabria, Calabrogreco, Greco di Calabria per indicare il parlante greco; e ancora: lingua greca di Calabria, Greco di Calabria,  greco calabro o calabro greco per indicare il proprio “dialetto”) – Vale a dire – tornando al Crupi -: non si trattava di salvare soltanto una lingua (per altro lingua-madre…), ma , tutta una cultura, “le cui origini si perdevano nella notte dei tempi”. Egli lottò strenuamente per dare voce ai “Greci di Calabria”: “Dòste mia fonì ecinò ti den tin èchu – Date una voce a quelli che non l’hanno” (citazione del prof. Filippo Violi), andava ripetendo a tutti, compresi gli studenti di Liceo che, come il sottoscritto, ebbero l’onore di averlo come Docente di Storia e Filosofia. “Greki  ambrò!”, amava ribadire nei numerosi  incontri e convegni a cui partecipava.

L’epigrafe in greco (in caratteri latini, com’è in uso nel  Greco di Calabria), sul freddo marmo della sua lapide, racchiude , in estrema sintesi, quelli che sono stati i suoi  valori imprescindibili, ciò che ha rappresentato l’essenza della sua purtroppo breve  esistenza:

Eplàtezza ‘zze filosofia                Ho parlato di filosofia

Ègrazza stin glòssa tu Vua          Ho  scritto nella lingua di Bova

Agàpia  tin anarchìa                    Ho amato l’anarchia

Ho voluto iniziare questo breve lavoro “dando voce”, doverosamente, a una delle più importanti figure del “cosmo” greco-calabro, sia  per la profonda stima  da sempre nutrita nei suoi confronti,  sia perché, è stato proprio in quegli anni (fine anni ’60 – inizio anni ’70), che – grazie anche all’opera del Crupi e all’impegno di altri giovani valenti intellettuali della Bovesìa, alcuni dei quali trasferitisi a Reggio,  e,  con il contributo di qualche importante studioso reggino – si è ricominciato a (ri)prendere coscienza del  proprio passato e si è sentito il bisogno di “recuperare”, di riscrivere la propria storia, una storia che fin dalle sue lontanissime origini, trasuda di una grecità  profonda, granitica  a tal punto da averne “ossificato” l’identità…

In questo “ultimo rifugio dell’ellenismo” (leggi: AreaGrecanica-Bovesìa), da ormai  30-40 anni, l’etnia greca di Calabria è al centro di un intenso fermento intellettuale, avente come obiettivo la salvaguardia, la rivalutazione e la valorizzazione del patrimonio linguistico, storico e culturale dell’area.

Siamo “in finibus Calabriae”, nell’estremità meridionale dell’Aspromonte, un territorio in cui, nel corso della sua plurimillenaria storia, si è  miracolosamente conservata un’identità linguistico-culturale,  rimasta per alcuni versi un “unicum” nel  panorama della Calabria intera. E’ questa l’area in cui vivono (continuano a vivere,  fin… dall’VIII sec. a.C.), i Greci di Calabria, “diventati” minoranza linguistica, ma da sempre “maggioranza culturale”, dal momento che le radici, “ I Rìze”, “valori eterni”, permeano secoli e secoli di storia, facendo dell’estremo punto meridionale della Calabria, una “terra dall’anima greca”, una “terra greca nell’occidente latino”. Terra, storicamente più orientata verso la “Graecitas” piuttosto che verso la “Romànitas”,  dove è del tutto  palese,  tra l’altro, una “interdipendenza culturale” con l’intera Calabria meridionale,  ma, soprattutto,  con  la Locride, con l’Area dello Stretto, con l’Estremità Nord-Orientale della Sicilia e con la Grecìa Salentina.

In questo lavoro, concentreremo la nostra attenzione, soprattutto, su quello che può essere considerato il segmento culturale più importante (o,quanto meno , tra i più importanti) della cultura greco-calabra, ovvero, la lingua, “elemento” di vitale importanza per la sopravvivenza del tanto variegato quanto affascinante mondo dei “Grèki  tis Kalavrìa”.

Sul “greco di Calabria” o “greco-bovese” (per dirla con il Crupi e con il Rohlfs), moltissimo è stato scritto. Pertanto, questa breve nota non ha, né può avere pretesa alcuna, di aggiungere nulla di particolarmente “nuovo”, semmai, vuole semplicemente essere, una pacata ma  sentita “riflessione” sulla “glòssa palèa”, sulla lingua dei Padri, per secoli in “travaglio”, in affanno, addirittura in agonia,  ma mai morta, nonostante innumerevoli “becchini”, nel corso della sua lunga storia,  si siano accostati più volte dinanzi al  quasi “feretro greco-calabro”, con lo scopo di poterlo “finalmente” seppellire…

L’origine della lingua greca di Calabria, non è stata mai definitivamente chiarita, e, l’acceso dibattito che non ha lesinato “punte” di aspra polemica, tra lo schieramento “rohlfsiano”, che ritiene il “greco di Calabria” diretto discendente di quello della Magna Grecia, e, quello “morosiano” (o, “parlangeliano”), che lo vuole invece erede del greco-bizantino (nato, cioè, in età bizantina), ha portato a una gran quantità di studi , ma non ha – per alcuni –  risolto del tutto, i dubbi sulla sua “nascita”.  La tesi “megaloellenica” (rohlfsiana), è comunque quella nettamente dominante, e sono molti ad aver attribuito alla teoria “bizantinista” ragioni di ordine “ideologico”.

Senza immergerci nell’aspetto prettamente linguistico, solo “sfiorandolo” a mala pena, diciamo che Gerhard Rohlfs, ha più volte ricordato che i Bizantini (in realtà: “Romèi”, ovvero, “Romani d’Oriente”, di cultura greca), non hanno lasciato traccia alcuna della loro lingua né a Bari, né a Ravenna (ex Capitale dell’Esarcato), né in Dalmazia e neppure in Sardegna, regioni dove, a lungo, mantennero il loro impero.

Se da una parte i “dorismi” e gli “arcaismi”, anteriori alla “Koinè” (IV° sec. a.C), presenti esclusivamente nel  “greco d iCalabria”, “tagliano la testa al toro” riguardo l’origine dell’idioma tutt’ora presente – per lo più – nella “Isola Ellenofona  dell’Area Grecanica”, d’altra parte, sono gli stessi storici a indicare una realistica soluzione alla “vexata quaestio”.

Vera von Falkenhauser

Vera Von Falkenausen in merito, dice: ”…Sembra che la grecità meridionale si basi su un sostrato greco anteriore, che non si era mai completamente spento e che fu quindi “rianimato” dalla “riconquista bizantina”. L’illustre studiosa, inoltre, esclude un progetto “dall’alto”, da parte di Costantinopoli, che avrebbe comportato una migrazione “pilotata” di popolazioni  in grado di “colonizzare”, in senso “greco”, la Calabria. Trasferimenti di gruppi etnicamente omogenei, erano normali in un impero plurietnico come quello bizantino, per esigenze militari e  commerciali; ma ciò, “non può essere considerato come uno spostamento di popolazioni numericamente rilevante”; (…)”possiamo calcolare che una flotta di 100 navi, avrebbe potuto trasferire al massimo 15.000 orientali in Italia, se tutte le navi avessero raggiunto la destinazione senza danno”.

Inoltre, i bizantini non hanno mai imposto la propria lingua ai propri sudditi, e, per di più, alla metà del sec. VIII°, la Calabria era già di lingua e liturgia bizantina, tanto è vero che il decreto di Leone III° l’Isàurico (732-733), non incontrò nessuna opposizione “in loco” (cosa che invece non si verificherà quando i Normanni, più tardi, cominceranno a “latinizzare” la Calabria, imponendo  la lingua latina e la liturgia di Roma).

Un ulteriore, significativo contributo alla tesi “magnogreca” ci viene fornito, di recente, da una  pregevolissima e importantissima edizione di 62 epigrafi greche del  Museo di Reggio Calabria, pubblicata dalla “epigrafista” Lucia D’Amore nel 2007. Attraverso la loro attenta lettura, qualsiasi linguista che non abbia posizioni precostituite, può agevolmente rendersi conto, infatti, che la tesi di Rohlfs sulla presenza nella Calabria meridionale, di ellenofoni, fin dai tempi antichi, è qui confermata ”scientificamente”, in quanto, le epigrafi  “occupano”  un arco di tempo che va dal secolo VI° a.C., al 1.000 d.C., cioè, fino all’arrivo dei Normanni (!)… I testi di queste  importantissime  epigrafi, composti in esametri e pentametri in lingua greca, costituiscono, secondo l’illustre studioso reggino, Prof. Mosino, “ una straordinaria testimonianza per la storia linguistica e culturale di Reggio e della sua “Chòra”; inoltre, egli fa notare  che da queste “attestazioni”,  emerge altresì, che a  Rhègion, “si parlava greco e latino secondo la metrica greca”.

Dopo il  piccolo contributo, di cui sopra,  alla tesi “rohlfsiana”,  ci piace ricordare che,   da vivo, il grande glottologo e filologo tedesco, ricevette onori e riconoscimenti  nella  Calabria tutta: la cittadinanza onoraria di Bova, la laurea “honoris causa” dell’Università  di Cosenza; molti Comuni, dopo la morte, gli intitolarono vie e piazze, come di recente il paese di Badolato (CZ) o il paese di Paola (CS).

Tornando alla parte più propriamente “storica”, possiamo affermare, quindi, l’ininterrotta presenza della lingua greca durante l’intero periodo “romano” e la nettamente sua maggior diffusione, specie nella parte meridionale della Calabria; dopo la caduta dell’Impero, anzi, essa  rappresentò anche la “varietà alta” fino all’XI° sec., ovvero, fino all’avvento dei Normanni, i quali diedero avvio – con l’appoggio della Chiesa di Roma – a una irreversibile inversione di tendenza:  linguistica, culturale e religiosa. Gli “uomini del Nord”, infatti, quantunque “nati” predoni e mercenari, si dimostrarono, strada facendo, conquistatori attenti e dotati di uno spiccato senso dell’opportunità politica, e, pur apparendo tolleranti nei confronti della chiesa greca, iniziarono contemporaneamente quell’inarrestabile processo di “latinizzazione” della Calabria meridionale,  che avrebbe condotto, più tardi, alla fine del rito greco e, quindi, anche del prestigio della lingua greca.

Le conquiste normanne

L’anno 1059 (caduta di Reggio) e l’anno 1071 (caduta di Bari), a opera dei Normanni, rappresentano due date storiche molto negative, anzi, “cruciali” per il “destino” della grecità in terra meridionale. Le “buie notti” angioine, aragonesi e spagnole, più tardi, sono una perentoria conferma della  quasi totale “occidentalizzazione” di usi, costumi, cultura, lingua e religione. Anche nella Bovesìa, ultimo baluardo greco, dal punto di vista  linguistico, tradizionale e cultuale, la situazione, già compromessa, sarebbe precipitata dopo la fine (leggi pure: soppressione) del rito greco-bizantino, nel 1572/73, a opera del vescovo armeno-cipriota  Giulio Stauriano. Sull’onda della Controriforma tridentina, al vescovo  di Reggio, Annibale D’Afflitto, basteranno pochi decenni (1593-1638), per  sradicare completamente il rito greco  dalle sue ultime e ormai umilissime “dimore”  intorno a Bova  e  nelle “Cinque Terre” (diocesi “greca” di Reggio), per trapiantarvi quello latino.

Da questa epoca in avanti, nella “Bovesìa e dintorni”, da lingua di culto e di prestigio, il greco, passa  a lingua della “misera plebs”.  Nel 1806, dopo una fase piuttosto oscura, in cui la lingua greca, tra il ‘600 e il ‘700, trova “ospitalità” ma in caratteri latini, nelle opere del De Marco, del Mesiani e del Rodotà, l’interesse per il greco di Calabria si riaccese dopo che J.C. Eustace visitò la zona sud-aspromontana e segnalò “popolazioni di lingua greca” e, più ancora, dopo che alcuni canti “bovesi” scoperti da Karl Witte (1821), furono pubblicati e commentati sulla rivista “Philologus” qualche decennio più tardi da F. Pott (1856). Fu dalla seconda metà dell’800 che cominciò ad aprirsi una profonda discussione sulla origine e la natura di questo “greco-linguaggio”. In particolare (come accennato in precedenza), Giuseppe Morosi (1870-1878),  sosteneva l’origine bizantina dell’idioma greco parlato in questi territori e fu una teoria che fino al 1924 imperò incontrastata  fino a quando, il più grande filologo, glottologo e dialettologo della storia, l’illustrissimo Prof. G. Rohlfs, non  la “demolì”, in modo scientifico.   L’illustrissimo studioso tedesco, a cui la Calabria (e non solo) deve moltissimo, produsse un  fondamentale “corpus  probatorio”, di ordine lessicale, morfosintattico, onomastico, toponomastico, fitonomastico, agionomastico, ecc., raccolto dal 1921 al 1982, anche attraverso  visite “porta a porta”,  di 365 località della Calabria, spesso  a “dorso di mulo”,  con il quale “corpus” fu in grado di fornire, inequivocabilmente, la prova della ininterrotta presenza del greco “ex temporibus antiquis”.

Ma, parallelamente al crescente interesse degli studiosi per la lingua greco-calabra, si imponeva, specie dalla fase immediatamente successiva all’Unità d’Italia, la necessità di imparare la lingua italiana e di adoperarla non più soltanto per iscritto; presso le classi colte e quelle borghesi, l’esclusione  dagli usi familiari delle varietà dialettali veniva concepita come un passo necessario per il buon apprendimento della “lingua della Nazione”. Lo stesso dovette avvenire nella attuale “Isola Ellenòfona”, rispetto, non tanto al dialetto romanzo ma al greco, la varietà più stigmatizzata e percepita lontana dall’Italiano, il cui utilizzo – anche in famiglia – avrebbe solo avuto l’effetto di “inficiare” una adeguata competenza della lingua nazionale. La scolarizzazione obbligatoria, faceva subire alle masse contadine monolingui (parlanti il greco) dell’area, quotidiane umiliazioni e severe punizioni derivanti soprattutto dall’alloglossia più che dall’analfabetismo.  Per cui, ben presto, la “dicotomia”: proletariato grecofono analfabeta/borghesia italofona alfabetizzata, scatena il “meccanismo” della discriminazione e della “tabuizzazione” del greco… All’opera di “demolizione” della lingua greca, pertanto, non sono estranee cause di natura psicologica, in quanto, viene  “pilotato” dall’alto il concetto che tutto ciò che non è cultura nazionale in lingua, è sottocultura, “avanzo ancestrale”… concetto,  che viene interiorizzato  dai “grecofoni” che ormai “percepiscono” il loro idioma e la loro (quantunque, plurimillenaria) cultura, come espressioni  di inferiorità di razza e di civiltà (!)…di cui bisogna “liberarsi” cercando altre identità… (“Sic transit gloria mundi”, mi verrebbe da dire…).

Inoltre,   le comunità dell’Area  Grecanica (e non solo), vengono  “investite” da un saldo migratorio rilevante, che diventa critico,  a ridosso degli anni ’50, ’60 e ’70, derivante, soprattutto, dallo svuotamento delle aree collinari e montane, in cui, tradizionalmente, erano insediate le popolazioni ellenofone. (Come se, in un certo senso, la scoperta di un mondo “nuovo” (Italia, Europa, Americhe, ecc.), diventa, contemporaneamente, la quasi fine di questo “vecchio” mondo, quello dei Greci di Calabria.

A ciò, si aggiungono le alluvioni che si succedono negli anni ’50 e ’70 nell’enclave greca  e che compromettono la sopravvivenza “materiale” delle comunità nell’entroterra  pre-aspromontano, con “l’ineludibile effetto” di giungere all’impoverimento, alla “deplezione” della memoria, il cui “trend negativo”, rischia di cancellare completamente tradizioni e lingua…  A tal proposito, il linguista olandese Dimmendaal, sottolinea quanto sia di vitale importanza per la lingua, rimanere “in situ”, sostenendo che, “i cambiamenti nell’assetto economico e sociale delle comunità alloglotte, possono non essere decisivi nella “sostituzione linguistica”, se la popolazione o una parte di essa rimane “in loco” (l’esempio di Bova-Chòra, nello specifico,  è assolutamente  “probatorio”).

Secondo un’indagine effettuata sul campo, alla fine degli anni ’90, in seno alla quale vennero interessati circa 300 studenti delle scuole medie ed elementari della Bovesìa, è emerso che il “greco di Calabria”, viene considerato “lingua dei vecchi” e non “intriga” le giovani generazioni che, in generale,  non lo parlano pur  comprendendolo passivamente per un 15% circa. La risposta, però, quasi plebiscitaria dei ragazzi all’item: ”ti dispiace che il greco di Calabria stia scomparendo?” (con… l’88% di risposte affermative), deve essere “tesaurizzata” da chi ha a cuore le sorti di un patrimonio così importante da rappresentare un bene immateriale unico…

Oggi, con un ritardo di oltre 50 anni dall’entrata in vigore della Costituzione Italiana – il cui Art.6 “tutela, con apposite norme le Minoranze Linguistiche”- abbiamo finalmente una Legge Nazionale, la N° 482 del 15 Dicembre 1999, nonché, la Legge Regionale 15/03 e il D.P.R. 345/01. Ma, qual è lo stato attuale della lingua greco-calabra nell’Area Grecanica? Quali sono i “limiti” e i territori ammessi a tutela?  E quali veramente ellenofoni? Amministrativamente, l’Area Grecanica comprende  16 Comuni che da Reggio e Cardeto si “spalmano”, da occidente a oriente, nella fascia pre-aspromontana e nella costa ionica fino al Comune di  Samo. Questa organizzazione politico-amministrativa non rispecchia, comunque, quelli che sono gli effettivi  “confini linguistici”, per cui bisogna distinguere i territori dove ancora persiste l’antico idioma,  da quelli in cui l’ellenofonia è pressoché estinta,  “specificando” che esiste una “Area Culturale Grecanica” , che ha nel suo “cuore”,  quel  “diamante incastonato” che è l’Isola Ellenofona o Grecofona, testimonianza vivente di un mondo linguistico che è stato per secoli e secoli, “denominatore comune” non solo dell’attuale Area Grecanica ma di  gran  parte dell’intera  Calabria. Questi Comuni  “ellenofoni” sono: Bova , Bova Marina, Condofuri( con Gallicianò), Roghudi e Roccaforte del Greco: piccoli paesi in cui oggi, più che mai, è importante riscoprirne le “radici” che svelano,  anche a un visitatore un po’ distratto, il carattere che rende unica questa terra: la “grecità”!  “ Rize”, spesso trascurate dalle poche “memorie di carta” di questa terra, ma che è necessario salvaguardare affinchè si ponga un argine e  si  arresti la “diaspora”, “l’emorragia”, l’abbandono  dell’entroterra, con il  favorire  la permanenza , in questi siti, dei “parlanti”, delle  loro famiglie e dei loro concittadini.  Si può dire che Bova, e,  – con encomiabile sforzo – anche Gallicianò’, siano stati in tal senso, antesignani, in quanto hanno scommesso sulla antica lingua e cultura dei Padri (“in loco”),  riuscendo, così facendo,  anche  a valorizzare in maniera esemplare, emblematica,  quelli che sono considerati,  a ragione,  due fra i “Borghi più belli d’Italia”.

E  andiamo ad affrontare, ora,  il “nocciolo” del problema , ovvero, la “obbligatorietà dell’insegnamento”  nelle scuole dell’obbligo. L’auspicio  è che il Legislatore Regionale  possa modificare il dettato legislativo, trasformando  l‘insegnamento della “lingua di minoranza”, da “servizio a richiesta”, in obbligo scolastico, in modo che concorra, a pieno titolo, alla “formazione” dei ragazzi. L’Area  Grecanica, quantunque,  in un tempo passato (ma non trapassato), territorio “monolingue”(greco), non è allo stato attuale – realisticamente – un territorio bilingue, come quello altoatesino, valdostano o friulano-slovenofono (le cosiddette “minoranze frontaliere”), in quanto, se si fa eccezione per una ridotta minoranza di “locutori” (per fortuna, in evidente “ crescita” – quantunque “scolastica”-  in alcuni  paesi), appare lapalissiano che la speranza della sopravvivenza della lingua greca di Calabria sia riposta soprattutto nella scuola. E’ auspicabile che le istituzioni scolastiche della Provincia di Reggio Calabria, ricadenti  nell’Area Grecanica, facciano però il loro dovere  e consentano  l’applicazione – attraverso i Progetti – delle norme di legge (finora sostanzialmente disattese),  e attivino – in attesa dell’auspicata obbligatorietà – corsi di insegnamento, anche extra-curriculari, che, a partire dalle scuole materne accompagnino i ragazzi fino  ad almeno le scuole medie. Se applicate, le leggi 482/99 e 15/03 (oltre al D.P.R. 345/01), contengono già norme specifiche per l’insegnamento delle lingue minoritarie nelle scuole delle  comunità linguistiche “riconosciute”.  Si tratterebbe,  in definitiva,  di riconoscere il diritto degli appartenenti  a  tali minoranze ad ‘’apprendere’’ la propria lingua-madre (o, forse, a…“riappropriarsi” di essa).  Bisogna confidare,  altresì,  in una maggiore sensibilità e senso di appartenenza anche da parte degli stessi dirigenti scolastici. E che le stesse Università facciano la loro parte attivando – “ope legis”-  corsi di lingua in via sperimentale.

In conclusione, non si può non rimanere  in attesa di una effettiva applicazione delle leggi di tutela  già esistenti, e, ancor meglio,  del più che auspicabile  insegnamento nelle scuole primarie e secondarie di 1° grado – altrimenti,  nonostante gli sforzi compiuti  in questi ultimi anni, dalla Provincia di Reggio Calabria  e dalle numerose Associazioni Culturali Ellenofone presenti nel territorio- le lingue minoritarie, non “frontaliere”, sebbene, fondamentali segmenti  di antichissime  culture, corrono concretamente il  malaugurato rischio di scomparire completamente  nel giro di qualche decennio…

In definitiva, però, il “patrimonio genetico” di una cultura plurimillenaria, che conserva tratti di preziosa rarità, e, addirittura, di assoluta unicità, non si può  pensare di riuscire a salvaguardarlo e a rivalutarlo solo con  l’applicazione di leggi di tutela, ma, deve essere “in primis”, un vivo interesse del cuore, una appartenenza consapevolmente vissuta…La tutela  della memoria storica, per quanto poco “cartacea”, può giocare un ruolo primario, se vissuta, non in termini “nostalgici” (…”Io dico memoria, passato, nel senso di riappropriazione e non di pura nostalgia”…).

Anche per questo, e per amor del vero, va riscritta la storia dei Greci di Calabria, in quanto quella (poca) già scritta, si presenta come una “storia negata”…Sarebbe necessario promuovere una “nuova stagione” di contributi storiografici, condotti deontologicamente e nella direzione della formazione di una corretta coscienza storica.

La lacunosa conoscenza del proprio percorso storico da parte dei “GrèKi  tis Kalavrìa”, unita alla sensibilità ancora scarsa da parte di Enti e Istituzioni (come già accennato), costituiscono tuttora  ulteriori ostacoli per la valorizzazione dell’importante patrimonio storico-linguistico-culturale-religioso del territorio greco-calabro. Per fortuna, le Associazioni Ellenofone – ribadiamo- hanno avuto un ruolo fondamentale, quasi da “supplenza istituzionale”  nell’ambito, soprattutto,  della difesa del patrimonio immateriale, caratterizzato da  una tale peculiarità, da indurre la Regione Calabria (con il sostegno delle Provincia di Reggio Calabria  e delle altre Province  calabresi) a far approntare un dossier per una ambiziosa candidatura all’Unesco – delle Minoranze Linguistiche Calabresi -come Patrimonio dell’Umanità.

Mi sia consentito, infine,  di  stigmatizzare quegli “sporadici rigurgiti di campanile”, di qualche singolo “ellenofono” (o, pseudo-tale), che non giovano alle comunità “greche di Calabria” (in quanto tendono più a dividere che a unire) le quali invece hanno bisogno di coesione per alimentare assieme e cementare il comune, granitico “spirito greco”, vivendo fino in fondo l’emozionante privilegio di essere (senza, per questo, voler stabilire “gerarchie culturali” che non esistono…), i legittimi eredi  di quella cultura che è stata l’elemento fondante della civiltà occidentale e di quella antichissima “glossa”, per secoli, “lingua del cuore” di gran parte delle popolazioni del Meridione, e che le inossidabili comunità grecofone della  Bovesìa   hanno ancora l’onore di condividere e di esserne  suoi orgogliosi e gelosi custodi…

 

BY: Franco Tuscano (Esperto in lingua, storia e Cultura Greco Calabra)

La Sibilla Aspromontana. Leggenda o verità?

Le manifestazioni nel cielo, ​ così come quelle sulla terra, ci danno segni. Cielo e terra mandano segni univoci, ognuno per proprio conto, ma non indipendentemente, perché cielo e terra sono interconnessi. Un segno cattivo in cielo, è anche cattivo in terra; un segno cattivo in terra, è anche cattivo in cielo.” ( Da una tavoletta di Scuola teologica di Babilonia ) Uno schianto improvviso distolse la sua attenzione, mentre era intenta a pestare dentro il piccolo mortaio di pietra le erbe raccolte in mattinata nella piccola piana sottostante. Sibilla abbandonò il lavoro. Si avvicinò sul bordo della grotta che dava sullo strapiombo e sbirciò fuori. Un grosso torello si era inerpicato chissà come lungo l’erta salita. Questa portava a quella che un tempo fu una torre del suo castello. Adesso era soltanto un’aspra ed alta pietra che proteggeva l’ingresso di quel che rimaneva del suo maniero. Il bovino apparteneva di sicuro alle mandrie dei Potamiòti che avevano eletto a loro territorio i pascoli impervi della Montagna Bianca. Poco probabile invece, che appartenesse ai Panduriòti, loro non si spingevano quasi mai oltre la Grande Pietra. Rispettavano il confine invisibile che dai vecchi Tempi delimitava il territorio che a lei apparteneva.

Gli animali ormai erano diventati i soli esseri viventi che le tenevano compagnia tra quelle forre abbandonate molti secoli addietro dagli Uomini. Lei viveva lì da diversi millenni oramai, aveva assistito allo scorrere inesorabile del Tempo e degli eventi che si erano consumati tra quelle montagne. Ricordava ancora il suono delle voci degli Umani distribuiti su quel territorio selvatico quando era ancora la loro casa. Era vecchia Sibilla. La più piccola delle Sette Figlie di Lámia, una delle ultime rimaste ancora in vita. Delle altre non ne aveva saputo più niente, tranne di Scilla. Scilla viveva nascosta su un’altra montagna sul mare, di fronte all’isola dei Sicáni. Nascosta dentro una grotta da Lámia per sottrarla all’ira di Era. Era aveva già ucciso le altre sorelle. Scilla Urlava, lo malediceva quel mare ogni volta che vi s’immergeva e sfogava la sua rabbia contro gli incolpevoli e ignari marinai che vi si avventuravano. Erano rimasti in pochi i figli dei vecchi Numi che avevano abbandonato quella Dimensione, lasciando i semidei rimasti in balìa dei nuovi Dei che avevano preso il loro posto. Il loro Potere era cresciuto grazie agli Umani che avevano dimenticato così presto i loro Creatori. Avevano distrutto i vecchi Templi e dimenticato gli antichi riti, le consuetudini nate con loro. Nei secoli passati gli stessi umani le avevano fatto non poche visite. Desideravano ottenere responsi su quanto sarebbe avvenuto nelle loro brevi ed insignificanti vite. Attendevano che le nebbie del tempo squarciassero il velo mostrassero attraverso lei il Passato e il Futuro. Poche volte avevano capito. Poche volte le frasi che diceva erano state di facile comprensione, ma quelle poche volte gli eventi da lei vaticinati si erano rivelati terribilmente precisi. Arrivavano carichi di doni e di speranza, molto spesso accompagnati dal terrore che lei suscitava nei loro fragili e piccoli cuori, certi che avrebbero avuto dall’Oracolo la loro chiave del Mistero. Da quasi un millennio però, non riceveva più quelle visite. Un nuovo e potente Dio aveva occupato il cuore e le menti di quella gente. Li aveva spinti lontano da quei boschi, dai quei luoghi nascosti dove resistevano pochi e fievoli bagliori dei Tempi Antichi. Erano fuggiti via da quelle aspre montagne dove una volta volteggiavano le grandi aquile e i terribili grifoni, dove erano rimaste solo poche rovine, ultimi segni delle loro presenze. Di uno di loro, l’ultimo che era venuto, conservava il ricordo chiaro e netto, anche a distanza dei molti secoli trascorsi. Era arrivato sopra un grande cavallo nero, coperto da una veste di metallo che doveva servire a proteggerlo dagli attacchi dei nemici. Sudava copiosamente sotto i raggi roventi di Elios, in quella primavera inoltrata che aveva assunto da alcuni giorni le temperature torride dell’estate.

Lei invece aveva appena fatto in tempo a mutare aspetto. Si era trasformata in una capra dalle ampie corna, forma che utilizzava sempre, soprattutto per l’agilità e la velocità che le conferiva quello stato. Si mise a seguire il cavaliere fino alla Fonte nascosta. L’uomo sembrava conoscere bene il luogo, così sembrava dal passo spedito e sicuro con il quale si avvicinava al piccolo laghetto che raccoglieva le acque cristalline. Era ancora presto per trovarci le piccole Naráde e i Tritoni intenti a giocare lungo il ruscelletto che scompariva con piccoli salti nel vallone sottostante della fontana. Sibilla in veste caprina si inerpicò tra i fitti cespugli di erica, cercando di non dar nell’occhio allo straniero e in attesa di capire chi fosse. Dopo averlo osservato bere avidamente l’acqua che scendeva incanalata dentro una “ceramìda” lo vide dirigersi alla destra della fonte. Egli aveva individuato come se lo conoscesse da sempre il vecchio sentiero che da moltissimi anni nessuno aveva più percorso. Quello che portava a ciò che era rimasto del rudere in pietra della casa del Vecchio Pàpas che lo aveva abitato per qualche tempo diversi secoli addietro. « Ecco svelato l’arcano!» Pensò Sibilla nel vedere il giovane avvicinarsi alla pietra dove il vecchio aveva conficcato un pezzo di metallo. Era simile ad una spada con l’elsa in alto, lavorata con cerchi che terminavano in un semicerchio rovesciato che assomigliava ad una impugnatura. Lo vide unire le mani come aveva visto più volte fare al Vecchio Pàpas e lo sentì pronunciare le stesse parole che aveva sentito da lui. Parole strane, arcane, intrise di un mistero che lei non era mai riuscita a decifrare. Non aveva mai avuto potere sul Vecchio. In verità, davanti a lui perdeva il potere che le permetteva di trasformarsi. Le si rivelava per come era, una vecchia, molto avanti con gli anni che ogni tanto andava alla fonte per prendere dell’acqua. Lui le aveva detto di chiamarsi Silvestro, di essere un Pápas, un sacerdote del nuovo Dio. Le aveva raccontato che era fuggito dalla persecuzione di un Re potente che voleva ucciderlo. Ma anche il Pàpas aveva capito di trovarsi di fronte ad una Creatura con qualche Potere. Alle domande dell’uomo precise e puntuali, lei non riusciva a sottrarsi. Aveva mentito, per quanto poteva, cercando di celare quanto più possibile l’essenza della sua Natura Antica. Un giorno arrivarono al piccolo rifugio del vecchio molti soldati, lo presero e di lui e del suo destino non ne seppe più niente. Sicuramente il cavaliere era stato indirizzato da qualcuno. Qualcuno che sapeva del Vecchio. Magari il Vecchio aveva raccontato della Maga che abitava quelle montagne lontane ed inaccessibili. Forse quel cavaliere solitario era venuto per lei. Cambiò nuovamente forma, riacquistando il suo aspetto umano e si avvicinò alla fonte, dove il cavallo al vederla emise un nitrito tale da richiamare il cavaliere. Vedendola avvicinare, non si meravigliò più di tanto, confermando a Sibilla il sospetto che aveva avuto poco prima. «Allora era tutto vero!» Esordì il giovane, che da vicino dimostrava i pochi anni d’età, nascosti da una rada peluria che gli ricopriva il viso. Poi s’inginocchiò al suo cospetto. « Chiedo perdono mia Signora, se ho disturbato la quiete della tua dimora, ma ho fatto molto cammino per arrivare fino a qui e non sapevo se avrei trovato quello che sembrava un Mito, o una favola, di quelle che si raccontano ai bambini nelle fredde serate d’inverno per farli dormire. Sei tu l’Antica Signora di questo Regno che conosce quello che è stato e quello che deve ancora avvenire? Sei tu l’Oracolo che riesce a scrutare nel Tempo e nei suoi Misteri?» Era tanto che Sibilla non sentiva una voce umana risuonare in quei luoghi. Ci mise qualche secondo a decifrare le parole del cavaliere e il suo sguardo fisso, mentre le ginocchia premevano la terra. «Cosa cerchi giovane guerriero in queste montagne sperdute dove vivono soltanto animali selvatici e uccelli rapaci e questa vecchia pazza che incute timore e paura ai temerari che si arrischiano al suo cospetto? Cosa ti ha spinto fino a me? Parla dunque!» «La tua fama e il tuo segreto mi sono stati rivelati da una leggenda che si racconta ancora oggi tra i Cavalieri di Re Carlo» – rispose il cavaliere «essi mi hanno raccontato delle tue doti di Maga e di veggente, che tu e tu soltanto mi puoi essere d’aiuto. Mi chiamo Guerrino e sono alla ricerca dei miei genitori, che non ho mai conosciuto. Nessuno ha saputo dirmi chi fossero e dove avrei potuto trovarli. Confido nella tua benevolenza sicuro che tu possa disvelare la verità sulla mia nascita!» Poi, prese un fagotto di stoffa dal cavallo e lo aprì ai suoi piedi, svelando dei gioielli e delle pietre preziose. «Ah,» pensò Sibilla, «quanto sciocchi e incomprensibili sono gli Umani, che credono che qualche pietruzza luccicante e del metallo per loro prezioso, possano ripagare i servigi di una Dea!»

Ma decise di aiutarlo e non per tutto il cammino che il cavaliere aveva percorso pur di incontrarla, ma perché in fin dei conti nessuno mai se ne era andato via senza aver ottenuto da lei un responso. La sua giovane età le ispirava strane ed inspiegabili sensazioni materne. Gli recise una ciocca dei capelli intimandogli contemporaneamente di attenderlo presso la fontana per tutto il tempo che sarebbe occorso per ottenere il responso richiesto. Lontana dal suo sguardo si trasformò di nuovo in capra e con pochi e agili balzi si inerpicò fino alla sua caverna, lì si mise ad armeggiare con i funghi, erbe, foglie di alloro essiccate unite ai ciuffi di capelli. Il tutto serviva per penetrare nello stato mistico che le avrebbe provocato visioni divinatorie. Mise il composto dentro un piccolo braciere di pietra e dopo averlo acceso, ne inspirò profondamente i fumi che ne scaturirono e si preparò ad entrare lì dove Passato e Futuro si mescolavano in un groviglio di immagini e voci. Sembrava non esserci logica apparente in quello scorrere del Tempo e dello Spazio che gli disordinatamente gli si svelava. In quel continuum dove le sensazioni arrivavano come onde. Plausibili o folli e irreali. Stava a lei riuscire a mettere ordine e a rendere comprensibili le risposte che le venivano da quelle visioni. Stava a lei trasformarle in parole dal senso più o meno chiaro. Era quasi sera quando tornò dal giovane Guerrino. Dopo averlo scrutato gli rivelò quello che aveva visto nel suo passato e cosa sarebbe accaduto nel suo immediato futuro. « Ho visto il padre di tuo padre cavalcare come te in queste contrade, al seguito di un Re potente. Egli combatteva contro guerrieri dalla pelle scura sotto una bandiera raffigurante una croce come quella che il vecchio Pápas adorava sulla pietra davanti alla sua dimora. Tu sei figlio di uno dei quattro figli avuti da lui. Il suo nome è Milone. Il Re per il quale ha combattuto lo ha fatto Principe della città di Taranto. È lì che lo troverai, così avrà termine il tuo lungo viaggio e la tua ricerca.» All’alba del giorno seguente il giovane cavaliere ripartì, dimenticando o lasciando volutamente vicino alla Fontana, i gioielli recati in dono a Sibilla. Da quel giorno, riscoprendo una femminilità insospettata, la donna iniziò ad indossarli, in ricordo di quel giovane Cavaliere, di quell’ultimo umano con cui aveva scambiato delle parole. Li aveva osservati per gli anni e i secoli seguenti, i pochi Umani che arrivavano vicino alla sua grotta. Erano quasi sempre pastori alla ricerca di qualche animale perso tra quelle rocce. Aveva osservato i Pápas solitari, che portavano una veste di lana grezza con un cappuccio che lasciava scoperto il capo rasato sopra le folte barbe incolte. Abitavano come lei nelle caverne scavate nelle rocce vicino alla Grande Pietra, rifugio che con le sue insenature e i suoi crepacci servivano da riparo anche alle bestie selvatiche nei giorni in cui Zeus scagliava i suoi fulmini dall’Olimpo ed Eolo slegava l’otre dei venti ad inseguire e percorrere le nubi cariche di pioggia sotto un cielo buio avaro di stelle. Della vecchia casa vicino alla Fonte rimaneva solo qualche pietra.

La croce arrugginita caduta dalla pietra era stata trovata da un pastore che cercava un vitello disperso. Quella Croce adesso era venerata dentro un Tempio dedicato ad una nuova Dea che regnava su quelle montagne attirando carovane di gente nelle calde giornate di fine estate, con processioni di suoni e di canti, che si sentivano fino dalla sua grotta. Ormai diventata una spelonca dalla quale ogni tanto una vecchia capra dalle ampie corna scendeva con salti sicuri ad osservare incuriosita, nascosta dalla fitta vegetazione, quella nuova Umanità ignara del suo Passato e di un Futuro incerto nascosto nelle pieghe del Tempo.

 

By: Mimmo Catanzariti

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