Storicamente Aprichos, oggi “Africu vecchiu”, Africo Antico, come lo si qualsivoglia chiamare il toponimo Africo suscita emozioni e reazioni discordi negli animi di chi in maniera diversa ha sentito parlare di questo antico borgo situato nel lembo più remoto dell’Aspromonte.
Di fatto, visitare oggi questo luogo atavico e primordiale scatena in qualsiasi individuo un fiume in piena di sensazioni e sentimenti contrastanti, un’infinità di riflessioni e domande a cui, probabilmente, nessuno mai darà risposta! Perché l’antico borgo è stato abbandonato a se stesso e chi di competenza non ne ha garantito la sopravvivenza, sradicando un’ intera popolazione dal proprio paese di origine, decretando in maniera irreversibile la perdita di una cultura identitaria ben radicata?
Come ha fatto la gente del posto a vivere in mezzo alle montagne, isolata dal resto del mondo, senza corrente elettrica e acqua potabile all’interno delle abitazioni?
Lo stupore sale ancor di più se si riflette sul fatto che l’unico segno della moderna civiltà è rappresentato dall’installazione del telegrafo voluto dal Governo per la cattura del brigante Musolino!
Africo, è per antonomasia il luogo dove più che in altri luoghi si è manifestato l’abbandono e l’assenza dello Stato e delle Istituzioni, e dove di contro la gente del posto, gente dignitosa e temprata dal quotidiano vivere in condizioni precarie e difficoltose, è comunque riuscita ad andare avanti nonostante tutto, adattandosi in maniera quasi simbiotica ad un territorio aspro, selvaggio e indomito come solo l’Aspromonte sa essere. Africo venne descritta in “Tra la perduta gente” dal meridionalista e antifascista Umberto Zanotti Bianco nel 1928 che denunciò, per la prima volta, le condizioni estreme in cui erano costretti a viveri gli africesi, afflitti da pesanti tasse, isolati geograficamente dal resto del territorio e costretti a vivere in abitazioni pesantemente compromesse dai precedenti sismi, in particolare quelli del 1783 e del 1908.
Questi raccontò ad una Nazione intera di come gli africesi si nutrissero di un particolare pane ottenuto dall’impasto di farina di lenticchie e cicerchie. Ciò nonostante, lo stesso Zanotti Bianco restò profondamente colpito da questa “terra bruciata” dimenticata da Dio, terra dove la natura aspromontana regna sovrana e incondizionata, regalando gratuitamente viste mozzafiato e paesaggi peculiari dei quale egli non poté non rimanerne affascinato:
“Le luci si spengono sui monti e le prime stelle tremano in cielo, assieme al trillo lontano dei grilli. Per vederle, ho lasciato aperta la portiera della tenda. La fiamma della candela che ne illumina le pareti aumenta il senso di pace e di poesia che scende in me: la pace tacita e deserta di questi monti, la poesia di questa vita solitaria che è però così vicina al cuore delle cose” (Umberto Zanotti Bianco – Africo 1928).
In seguito, nel 1948, Africo venne ulteriormente immortalata nel reportage fotografico di Tino Petrelli per il settimanale l’Europeo di Milano nella famosa inchiesta sulle condizioni del Mezzogiorno, dalla quale si evinse che a distanza di vent’anni le condizioni di vita della gente di Africo non fossero per nulla mutate. L’alluvione dell’ottobre del 1951 ne decretò il definitivo abbandono: dopo giorni di piogge incessanti, il già violentato e fragile territorio calabrese collassa idrogeologicamente e una valanga di terra e fango si riversa sull’insediamento di Africo, trascinando con sé abitazioni, persone e animali.
La popolazione intimorita trova rifugio nella Chiesa Matrice, inconsapevole di quello che la attenderà al sorgere del sole, quando passato temporaneamente il pericolo si accingerà a raccogliere e salutare per sempre quel che resta dell’amata terra per non farne più ritorno.
Ricalcare oggi i vecchi tracciati che conducono ad Africo, è come ripercorrere un viaggio indietro nella storia, una macchina del tempo che ti trascina vorticosamente alla scoperta di territori e insediamenti che di fatto hanno segnato la storia della Calabria.
Superata la chora di Bova e i cosiddetti Campi si arriva in località Puntone Carrà (925m s.l.m.), presso il cosiddetto Villaggio Carrà, un abitato costituito da poche case popolari edificate dopo l’alluvione del 1951 a sostegno di una parte della popolazione di Africo dedita all’allevamento che ha deciso di non abbandonare questa terra e le proprie attività produttive. Da qui inizia il nostro viaggio a piedi, mediante un percorso ad anello che si articola per circa 8 km lungo i contrafforti orientali aspromontani, percorrendo l’antico sentiero che conduce ad Africo Vecchio, pressoché una mulattiera che si snoda su affioramenti di roccia arenaria.
Spettacolari e secolari boschi di querce e castagni in piena fioritura signoreggiano e fanno da cornice al cammino che procede costeggiando il Puntone La Guardia (865m s.l.m.), passando per il vecchio cimitero comunale per poi proseguire verso la piccola chiesa di San Leo, luogo spirituale e di culto, meta di pellegrinaggio, conteso a tutt’oggi tra la gente di Bova e di Africo. La chiesetta, dalle modeste dimensioni e di semplice fattura, costruita alla fine del XVIII secolo probabilmente sui ruderi di una struttura precedente, custodisce all’interno la statua marmorea di S. Leo e parte delle reliquie del santo patrono.
Lasciata la chiesetta si riprende la mulattiera che conduce al vecchio abitato, attraversando un sottobosco ricco e variegato dominato da felci, cisti, euforbie e biotipi tipici della macchia mediterranea.
Oltrepassato il Puntone La Guardia si giunge ad Africo. Lo scenario che si apre ai nostri occhi è irreale e romantico allo stesso tempo: un labirinto di ruderi completamente invasi dall’edera, dai rovi e da alberi di fico! Radici e rami infestano i vani di quelle che erano una volta le piccole cellule abitative, la vegetazione si è prepotentemente appropriata di ogni piccolo anfratto murario, ogni singolo interstizio o concio lapideo facendolo proprio.
Dalla lettura di quel che resta dell’insediamento si evince che l’impianto urbano si sviluppa sul pendio naturale sfruttando l’acclività del terreno, generando tipi edilizi semplici a cellula singola o doppia, dall’assetto complessivamente spontaneo che si adattano alla morfologia del territorio. La Chiesa Matrice, di più recente costruzione assieme alle Scuole Elementari e il Municipio (realizzati dopo gli anni trenta), costituisce l’unico polo emergente all’interno del vecchio centro abitato. La seppur veloce disanima del lessico costruttivo evidenzia tecniche costruttive che si rifanno alla tipica tradizione locale caratterizzata dall’utilizzo di materiali presenti in loco, con murature in pietra e solai in legno. Gli unici elementi architettonici di un certo rilievo rinvenuti consistono in alcuni pregevoli conci lapidei scolpiti appartenenti ai portali e alle mensole dei balconi.
Procedendo in mezzo a rovi e ruderi dalla piccola e intima piazzetta della chiesa verso la località Campusa, si incrociano quelle che erano le strutture destinate al Municipio, alla Caserma dei Carabinieri, l’asilo e infine le Scuole Elementari. Un brivido corre lungo la schiena nel leggere l’epigrafe delle Scuole Elementari e dover constatare con tristezza che non ci saranno più voci gioiose di bambini che risuoneranno dentro le ormai dirute aule e che le stesse piccole figure infantili non si rincorreranno più lungo la scala di accesso alla Scuola, stagliandosi verso il cielo. Tutto è andato perduto!
Rimangono solo le tracce, i segni, i ricordi, i racconti e le testimonianze della gente di Africo ancora legata passionalmente alla propria terra di origine, custodi premurosi di un pezzo di Calabria che non c’è più e che rivive caparbiamente in loro. Tra di essi, il poeta e cantastorie Giovanni Favasuli, che ha allietato e reso speciale la nostra giornata ad Africo, ammaliandoci con i suoi racconti e i versi delle sue poesie, accompagnati spesso dal suono armonioso della chitarra, versi commoventi e sinceri che raccontano l’amara realtà delle cose.
Adesso più che mai, mi risuona nella mente il ritornello di una canzone, attualissima e profonda nelle parole, che fa così:
“….Nescìmu fora e facìmu rota,
e sutta ’a luna di jancu pittàta,
sentimu ’i vecchj cunti di ’na vota,
facìmu festa tutta la nottata.
Nescimu fora e facìmu rota,
nsin’â quandu ’a lumera esti ddhumàta.
Arretu non tornamu annatra vota…
Esti ’nu viaggiu di sulu andata!”
Testo e foto © Santina Marateia
Evento culturale Kalabria Experience del 18.06.2017