È vero,  mai nessun ritorno potrà restituirci quello che avevamo lasciato nella medesima forma in cui lo ricordavamo, certo è così. È pur vero che certe sensazioni le puoi ritrovare o anche solo illuderti di farlo, nella tua mente, scavando dove la velocità di una vita normale di solito non ti permette. Ho ritrovato ad esempio un’idea di paese come la possedevo quarant’anni addietro. L’idea di un paese inteso nella sua dimensione fisica e di interazione sociale come unico orizzonte possibile, luogo di inizio e fine di tutto. Chi ha lasciato nel cassetto da tempo i calzoncini corti ricorderà perfettamente come fosse questa la dimensione paese dell’entroterra, sul finire degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta di un secolo che sembra essere volato via già da un secolo.

Era un moto circolare di vita che si esauriva e si rigenerava di continuo dentro un perimetro urbano rimasto sempre uguale, in realtà piccolissimo ma che allora mi sembrava sconfinato. Centinaia di vite e di storie incrociate che avevano un unico sfondo, un unico palcoscenico, storie che nascevano e finivano velocemente lungo quei viottoli che oggi percorro da solo nel silenzio. In questi giorni ho respirato e sto respirando un dejavu tanto acre all’olfatto quanto nitido nelle immagini che riaffiorano.

Ho ritrovato anche un’altra cosa, un’altra considerazione che ho raccolto con le mani da terra e rimesso in testa. Nel tragitto che faccio ogni pomeriggio nel tentativo di sottrarre alla narcosi le fibre muscolari e alla nevrosi quelle cerebrali, in quei quasi cinque chilometri che separano il centro storico dalla montagna e che ti fanno salire dai 900 metri del paese ai poco più di 1100 della fontana di Travi, che incontri lungo il tragitto che porta ai Campi per poi diramarsi verso i centri abbandonati di Africo, Casalinuovo e Roghudi, mi sono riscoperto cantoniere improvvisato.

Che poesia le case cantoniere, dismesse ormai da un ventennio ma inattive da molto più tempo. Poesia vera la figura del cantoniere, richiamo ad un mondo che non c’è più e che funzionava meglio. E mi ritrovo ogni giorno a ripulire la carreggiata dalle scaglie di roccia calcarea che si sfaldano ogni notte finendo sull’asfalto vittime dell’escursione termica. Moto perpetuo quello della roccia da queste parti. Si modella, si sbriciola erosa dal tempo, dalla pioggia, dal ghiaccio, dal sole. Moto perpetuo che diventava dialogo e lotta allo stesso tempo, punto di congiunzione tra uomo e natura, moto che dava un senso, un verso, una dimensione nobile al compito di una figura certo non solo poetica, anzi tutt’altro, assai utile nel suo aspetto pratico.

Oggi razionalizziamo, tagliamo, conteniamo i costi, invece di contenere I problemi, invece di dare risposte ad un territorio che chiama senza che nessuno ascolti. D’altra parte mi dico poi, a che serve questa poetica demodè, il mondo non è più quello di quarant’anni fa e questa roccia,dura tanto nella sua natura geologica quanto nel comprendonio, questo ancora non lo ha capito e forse come lei, neanche io ho capito che chinarsi a raccogliere non serve a nulla, se non a provare la tenuta della schiena.

 

By Gianfranco Marino