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La ricetta segreta dello “Stomatico” reggino!

Lo stomatico è un dolce reggino che affonda le sue origini nelle influenze greche da cui deriva il nome “to stoma” ossia “la bocca”, nella cultura calabrese.
Si tratta di un biscotto secco, simile al panpepato, preparato tramite un impasto di zucchero caramellato, miele, farina, burro, ammoniaca per dolci, acqua, sale e aromi (chiodi di garofano e cannella).
*Per zucchero caramellato si intende:
270 g. zucchero
220 g. di acqua
(Portare a caramello scuro, infine inserire acqua mancante che va in evaporazione)

Ricetta :

Farina g. 800
• Zucchero g.270
• Acqua g 220
• Zucchero g 95
• Burro g. 80
• Bicarbonato di ammonio 24
• Mandorle g 125
• Sale g 2
• Chiodi di garofano g 2
• Cannella g 1

Preparazione:

L’impasto viene steso su una teglia, inciso in quadratini spennellati con dell’uovo sbattuto, posizionando sulla superficie delle mandorle intere e infine infornato a 180 gradi per 35/40 min

1- Il primo passo da seguire è quello di far caramellare 250 grammi di zucchero in una pentola a fuoco non troppo vivo, mescolate continuamente per evitare che si bruci oppure si attacchi al fondo della pentola, fino a che non assume corposità e il caratteristico colore ambrato.

2- Una volta preparato il caramello aggiungere pian piano un bel bicchiere di acqua calda e continuate a mescolare il composto.

3- Una volta fatto questo dedicatevi all’impasto degli altri ingredienti: unite la farina con il restante zucchero, assieme ad un cucchiaio di cannella, ai chiodi di garofano, all’olio di oliva e all’ammoniaca. Aggiungete per ultimo il caramello ottenuto in precedenza, continuate ad amalgamare il composto fino a che lo zucchero caramellato non si sarà assorbito.

4- Riponete il composto ottenuto su una teglia precedentemente foderata con la carta da forno e formate uno spessore di almeno 3 centimetri. Utilizzate l’uovo sbattuto per spennellare la superficie e cospargete di mandorle.

5- Infine infornate il tutto per circa 40 minuti a 180 °. Una volta cotto, toglietelo dal forno, lasciate raffreddare per un po’ di tempo e in seguito procedete a tagliare il biscotto in piccoli rettangoli e riponete nuovamente in forno per altri 10 minuti a 80°.

A questo punto lo stomatico è pronto per essere servito!!!

Borghi della Calabria; tra Tradizioni e Cultura Vinicola

FARE IL VINO, OPERAZIONI E PRATICHE DI CANTINA

La viticoltura in Calabria, iniziò al primo millennio a.C.. La penisola calabrese una volta era abitata dai Bruzi, popolazioni di stirpe indoeuropea che penetrarono in diverse ondate in Italia. I Greci a partire dal 750 a.C., colonizzarono le coste della Calabria, che chiamavano “Enotria” (Terra del Vino). Con le colonie Greche si andarono a creare due tipi di viticoltura, una di origine Italica, all’interno, e l’altra di origine Greca, lungo le coste, con centri di commercio a Crotone, Locri e Sibari.

Con l’arrivo dei Romani, si andavano a sostituire i vini greci. Alla fine dell’800, la fillossera portò alla completa distruzione dei vigneti della Calabria. Per molti anni la Calabria ha offerto vini da taglio sia ai produttori italiani che esteri.

La Calabria è, infatti, portavoce di un’antica tradizione vitivinicola locale

Nonostante poco meno del 10% del territorio regionale sia pianeggiante e gli ettari vitati ammontino a meno di 20.000, la regione Calabria è capace di distinguersi ed affermare la sua posizione nel ricco quadro vinicolo italiano grazie agli alberelli di uve autoctone come il Gaglioppo e il Magliocco ed il duro lavoro di piccoli artigiani vignaioli che credono costantemente nell’ enorme potenziale di questa terra baciata dal sole.

La Pigiatura

La pigiatura è la prima operazione meccanica a cui viene sottoposta l’uva dopo la vendemmia, ed ha la funzione di estrarre il succo e la polpa dagli acini, dando vita al mosto che dovrà poi essere trasformato in vino. E’ un’operazione particolarmente delicata che va eseguita con attenzione. E’ fondamentale che le uve non abbiano subito una pigiatura per schiacciamento durante il trasporto, cosa che potrebbe innescare fermentazioni indesiderate. La pigiatura viene condotta su uve intere utilizzando delle macchine chiamate pigiatrici.

La pigiatrice più utilizzata è quella a rulli, costituita da un telaio sul cui fondo sono poste una o due coppie di rulli di pressatura in gomma alimentare la cui rotazione schiaccia delicatamente gli acini. A seguire viene condotta la separazione dei raspi dal pigiato, ossia la diraspatura. Questa operazione può venir condotta direttamente sulla massa immediatamente prima della pigiatura utilizzando delle macchine particolari dette pigiadiraspatrici.

 

I Palmenti Rupestri

I palmenti rupestri sono gli antichi impianti di produzione vinicola. Essi sono ricavati su rocce di arenaria, spesso isolate, nelle quali erano solitamente scavate due vasche comunicanti tra loro da un foro.

I palmenti erano destinati alla pigiatura delle uve ed alla fermentazione dei mosti.
Il mosto ottenuto viene trasferito in fermentatori di legno, dove i lieviti aggiunti attiveranno la fermentazione del mosto a contatto con le vinacce (bucce e vinaccioli).

 

La Macerazione

La fase che contraddistingue la vinificazione in rosso da quella in bianco è  la macerazione. Nel mondo enologico il termine “macerare” indica il contatto della parte solida, quindi le vinacce, con la parte liquida, il mosto. Fondamentale per il prodotto finale che si vorrà ottenere è il tempo di macerazione: nei primi giorni del processo si estraggono soprattutto gli antociani, che conferiscono colori molto intensi in poco tempo. Nei giorni a seguire, parte dei pigmenti vengono riassorbiti dalle bucce andando a indebolire l’intensità del colore, ma conferendo più struttura e gusto al vino grazie ad una maggior estrazione di tannini e altri composti polifenolici. La quantità di colore e di sostanze estratte dipende sempre e comunque anche dal vitigno. Alcune varietà “cedono” più antociani di altre, etc. Durante la fermentazione le vinacce vengono spinte in alto dall’anidride carbonica e formano uno strato chiamato cappello, il quale limita il contatto con la parte liquida. Per rompere il cappello e rimescolare le bucce con tutto il mosto si ricorre dunque a diverse tecniche.
Una di esse è la follatura, un tempo era realizzata a mano con un bastone con cui si spingevano in basso le bucce dentro il mosto.

La Torchiatura

Una volta fermentata l’uva si procede con la fase della Torchiatura. La torchiatura può essere fatta con un torchio meccanico o idraulico. Vengono sistemate nel torchio le vinacce bagnate e vengono pressate, in questo modo avviene la separazione delle bucce dal succo d’uva. Le bucce pressate possono essere impiegate per fare ottimi distillati oppure per concimare in modo naturale il terreno.

Dopo la torchiatura, si ripone il succo d’uva nelle botti di legno o nei contenitori di acciaio inossidabile a seconda della destinazione finale del nostro vino.

 

 

A cura dei Volontari del Servizio Civile Universale- Pro Loco di Brancaleone APS

Progetto grafico a cura di Leonardo Condemi
Materiale fotografico a cura di Domenico Rodà

Tradizioni in Aspromonte; La Musulupara

Con il termine di musulupara si identifica nell’Aspromonte meridionale uno stampo per formaggio quaresimale chiamato musulupo. Intagliati solitamente in legno di gelso questi stampi raffigurano sovente una figura femminile, dai tratti stilizzati. I fori, spesso in corrispondenza dei seni, servivano a far defluire il siero, al momento della pressatura della cagliata sullo stampo, garantendo l’impressione, sul formaggio, dell’immagine intagliata.
Il nome di questo stampo si lega a quello del musulupo, una sorta di toma, il cui termine deriva dal dialetto calabrese, muso lupo, traduzione dell’espressione in greco bovese “to mousso tou likou” (muso di lupo).
Secondo il Rohlfs si tratterebbe di un arabismo, “maslûk” (cotto), importato in Calabria durante la dominazione musulmana della Sicilia. Sull’isola il vocabolo musulucu si riscontra ad indicare sia diversi tipi di formaggi, sia persone dall’aspetto molto magro, forse in allusione alla Quaresima.
Nell’Aspromonte meridionale, il musulupo si prepara infatti nel periodo pasquale, servendosi di due diverse tipologie di stampo che gli conferiscono ora una forma semisferica, simile ad una mammella, ora un’immagine femminile, priva di gambe e di grazia, vista la forte componente astratta che qualifica di norma gli intagli. Il formaggio si consuma fresco o rosolato a pezzetti, come ingrediente principale di una frittata, servita la mattina della vigilia di Pasqua. Fino agli anni Cinquanta del secolo scorso le musulupare erano un dono tipico del fidanzamento.
La foggia a seno della musulupara, in parallelo al colore bianco della toma, lasciano intendere possibili riferimenti alla maternità o più in generale alla fertilità della terra. Più complessa appare l’identificazione dell’immagine femminile, secondo alcuni allusiva alla Vergine, nei tratti stilizzati delle icone bizantine o delle enkolpia altomedioevali.
Interessanti collegamenti si riscontrano con la tipica rappresentazione della Quaresima, immaginata nel folklore dell’Italia meridionale come una vecchia magra, spesso raffigurata con la bocca chiusa, in segno di digiuno, e con sette piedi, ad indicare le sette settimane di Quaresima, (ogni sette giorni una gamba veniva recisa, per mostrare quante settimane di astinenza rimanevano fino a Pasqua).  
Non è quindi da escludere che il cerimoniale di distruzione della Quaresima si incarni nel consumo stesso del musulupo, secondo un rituale non dissimile dallo smembramento delle “pupazze di Bova”, manichini femminili, costruiti con foglie di ulivo, portati in processione la Domenica delle Palme.
Fonti: Pasquale. Faenza
scheda Musulupara in Cibi e pietanze del mondo antico: un viaggio tra quotidiano, rituali ed etnografia–catalogo della mostra, Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria,
(3 Ottobre -15 Dicembre 2015) a cura di R. Agostino, F. Lugli, Laruffa, Reggio Calabria, 2015, pp. 51-52.

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