Popoli solo apparentemente lontani che in un passato più o meno recente, comunque ricco e degno di una terra crocevia del Mediterraneo, hanno vissuto e lasciato tracce ancora oggi da riscoprire, studiare e interpretare nella nostra Calabria e oltre. E’ il caso degli Armeni, vittime della persecuzione ottomana durante la Prima guerra mondiale e del primo genocidio del Novecento.

Durante la nuova ondata anti cristiana di siriani e turchi islamizzati, verso la fine dell’ottavo secolo d.C., gli Armeni approdarono anche sulla coste calabresi, in particolare sul litorale reggino, per rifugiarsi sulle alture. Pare che un gruppo si fosse raccolto in solitaria preghiera tra le montagne – secondo le regole del monachesimo orientale diffusosi anche in Armenia grazie all’opera di San Basilio – per sfuggire alle incursioni degli arabi provenienti dal mare. Qui coltivarono usi e tradizioni religiose e intrapresero attività agricole come la vinificazione, con la creazione di veri e propri Silos per custodire le derrate alimentari.

Di questi ultimi tracce esistono ancora tra i ruderi di Brancaleone, a Reggio Calabria. Segni significativi di questo passaggio armeno sopravvivono oggi nella toponomastica (la Discesa Armena a Bova o la Rocca Armena a Bruzzano Zeffirio), nell’onomastica e nell’archeologia, con alcuni reperti che richiamano i motivi religiosi della Croce e dei Pavoni rinvenuti negli attuali comuni di Ferruzzano, Casignana e Staiti, sempre nel reggino. Tra questi luoghi in Calabria, uno ha rievocato, proprio nel 2015 in cui ricorreva il centenario del primo genocidio del XX secolo che ebbe come vittime gli armeni, il primo popolo Cristiano della storia, la presenza di questa antica Comunità.

Questo luogo è stato Brancaleone (anticamente denominato Sperlinga dal termine latino e greco significante caverna), di fondazione greca, culla dei Locresi prima del loro avanzamento, promontorio strategico unitamente a Reggio, Gerace e Bruzzano Zeffirio, dove oggi il rudere di un antico castello, denominato proprio Rocca Armenia, custodisce in una grotta segni di celebrazioni religiose tipiche della cultura del più antico popolo Cristiano. Brancaleone superiore con lo sviluppo della Marina, nella seconda metà del Novecento, fu abbandonato. Oggi conserva il fascino di un luogo antico che custodisce anche i ruderi di una chiesa rupestre, probabilmente unica nel suo genere a queste latitudini e di cui ne esisterebbe una simile solo in Georgia.

All’interno di essa, nell’ambito dell’attività di valorizzazione e promozione del territorio della Pro Loco di Brancaleone guidata da Carmine Verduci, al seguito degli appassionati come il medico scrittore Vincenzo De Angelis e Sebastiano Stranges, già ispettore onorario del Ministero dei Beni Culturali, si è svolta nel 2015 una cerimonia con canti armeni e fiori di ginestra posti dove un tempo sorgeva l’altare e dove ora è possibile intravedere, su un muro di antica arenaria, una Croce armena e un Pavone adorante. Al centro della grotta l’emblematico Albero della Vita. Una delle tracce più significative che attestano l’antica presenza del popolo armeno in questi luoghi. Oggi tale chiesa rupestre appare posta sotto il castello Ruffo eretto ne 1300, di cui divenne la prigione. Accanto ad essa dei cunicoli scavati nella roccia (silos).

Poco più su, ciò che rimane della Chiesa proto papale che sorgeva nell’antica Brancaleone e che, secondo le ricostruzioni, era di stile romanico con campanile e orologio, tre navate e affreschi ai lati. Essa crollò nel 1944, ma già nel 1935 era stata edificata quella dell’Annunziata poco più giù, abbandonata unitamente all’intero borgo in modo definito nel 1956.

In quello che oggi è ormai il parco archeologico urbano di Brancaleone Vetus, accanto alle tracce armene, vi è anche ciò che resta della devozione alla Madonna del Riposo. E’ un legame antico quello tra la Calabria e il popolo Armeno. Tra i tanti punti di contaminazione anche la storia di Paolo Piromalli, arcivescovo cattolico e missionario, originario di Siderno, e autore nel Seicento del dizionario Armeno.

Una storia da riscoprire che contribuisce a riscattare l’identità di un popolo di cui – pensando alla ostinata e intransigente posizione negazionista della Turchia sul genocidio – si perseguita anche la memoria.

 

Si ringrazia Anna Foti per questa straordinaria testimonianza

 

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