In Calabria, come del resto in altre regioni d’Italia o in stati del bacino del Mediterraneo, si ritrovano, scavate nella roccia, vasche atte a calcare e a vinificare l’uva. Esse non erano scavate singolarmente, ma almeno in due entità, con funzioni diverse: nella vasca superiore si calcava l’uva e si facevano fermentare le vinacce, mentre in quella inferiore più piccola si raccoglieva il mosto, fatto defluire da quella superiore, tramite un foro di comunicazione e dopo la premitura delle vinacce. Tali vasche accoppiate per la vinificazione, generalmente in Italia vengono chiamate palmenti e tali manufatti, scavati nella roccia, possono essere rinvenuti ovunque in Calabria, con frequenza o meno, specie nell’entroterra collinare della costa ionica delle province calabresi, non mancando nell’entroterra della costa tirrenica. La concentrazione più massiccia però è quella che ricade sulla costa ionica della provincia di Reggio Calabria, circa 750 esemplari, tra il comune di Bruzzano e quello di Casignana, in un territorio delimitato a sud dalla fiumara di Bruzzano e a nord dal Bonamico, dove vengono coinvolti principalmente, per i palmenti collinari, scavati nella roccia, i comuni di Bruzzano, Ferruzzano, S. Agata del Bianco, Caraffa del Bianco, Casignana. Mentre per quelli montani, Africo e Samo. Tale comprensorio, che ingloba anche Bianco, che non conta palmenti scavati nella roccia nel proprio territorio, si estende sulla costa per circa 15 km ed è caratterizzato da terreni fortemente argillosi per una striscia dal mare larga circa 3 Km, con l’eccezione di una parte del comune di Bianco, che è contraddistinto da terreni caratterizzati dal bianco caolino. Superata la barriera argillosa, ci si trova di fronte a terreni sciolti, frutto dello sfarinamento delle rocce d’arenaria, che dominano talvolta, con i loro appicchi giallastri i paesaggi. Propria da questo tipo di roccia, che si scava con facilità sono ricavati i palmenti.
A sud della fiumara di Bruzzano, nel comune di Brancaleone resistono 7-8, mentre uno scavato in una grotta, è stato distrutto cinquanta anni addietro, per fare posto ad un asino. Continuando verso Reggio, uno solo è localizzato in contrada Gadaro, nel comune di Palizzi, mentre 7-8 resistono a Bova (alcuni sono stati distrutti). Oltre la linea della fiumara del Bonamico, una decina sono presenti nel comune di S. Luca, 7-8 nel comune di Careri, uno solo a Ciminà, alcuni ad Antonimina, meno di dieci nel comune di Gerace e poi si ritrova uno solo a S. Giovanni di Gerace, mentre poco meno di dieci si ritrovano a Caulonia e si chiude la lista con uno solo nel comune di Camini. Superata la provincia di Reggio, i palmenti, questa volta scavati nel granito, ricompaiono con circa venti esemplari, nel comune di S. Caterina. Nelle aree montane di Africo e Samo, a quote altimetriche considerevoli per la vite si ritrovano antichi palmenti, ricavati questa volta dal granito o da pietra dura in genere. In questi due comuni le viti si coltivavano a quote più basse rispetto i palmenti, in strette fasce sorrette da muri a secco ed in terreni sciolti e ricchi di humus e allora quale tipo di uve venivano calcate nelle vasche vinarie? Non molto lontano da questi manufatti sopravvivono decine di viti silvestri, per cui è ipotizzabile che in tempi lontanissimi, il vino veniva ricavato proprio dalle viti silvestri, quando esse erano abbondantissime nelle aree lungo i corsi d’acqua. Ritornando nelle aree collinari, dove abbondano i palmenti scavati nell’arenaria e camminando per le campagne, ci si accorge che i muri a secco che orlano le fasce caratterizzano i territori dove nel passato remoto c’erano i vigneti e nel complesso superano di molto i 100 km. In riferimento ancora ai palmenti di questa ristretta area, tra il Bruzzano ed il Bonamico, dei 750 esemplari, di cui almeno 400 intatti, solo 157 sono stati studiati non scientificamente da Orlando Sculli, nel comune di Ferruzzano e tale ricerca, I Palmenti di Ferruzzano, è stata pubblicata dall’Istituto Internazionale di Restauro, Palazzo Spinelli di Firenze nel 2002. Lo studio dei palmenti di Ferruzzano, ha evidenziato che essi erano stati scavati solo in aree dove il terreno era sciolto e mai in quello argilloso e che essi sorgevano a ridosso di antiche strade selciate fino a sessanta anni addietro, di cui rimangono solo dei tratti superstiti. Quello che ancora fa stupire è la ricchezze di vie di media e di lunga percorrenza, che convergevano su questo territorio e lo oltrepassavano. Una via per alcune centinaia di metri scavata nella roccia incuriosisce particolarmente; essa verso sud corre per una trentina di km in direzione di Bova, mentre, continuando verso nord, s’innesta a Bianco al dromo greco. Attorno ad essa gravitano numerosi palmenti in vista dell’abbandonata, Rocca degli Armeni, circondata pur’essa da campi dove sorgono svariate vasche di vinificazione. Un’altra via, attraversava il territorio dal mare verso la montagna, chiamata inizialmente la carrera, e lambiva l’abitato ora abbandonato di Ferruzzano proseguendo, attraverso il bosco di Rudina, che ospita misteriosi palmenti e viti silvestri verso S. Agata, Caraffa e Casignana, che completano con numerosissime vasche di vinificazione, il quadro d’assieme. Proprio al bosco di Rudina ha rivolto la sua attenzione la ricercatrice dell’Università Statale di Milano, Barbara Biagini, che ha identificato e censito circa 20 esemplari di vite silvestre, prendendo per ognuna dei tralci che poi sono stati messi a dimora nel campo di conservazione che la Statale possiede a Lodi. Ella ha continuato la perlustrazione con successo sulle montagne di Africo, nel comune di Staiti e nel resto della Calabria, scoprendo che tale regione è la più ricca d’Italia, di tale essenza, dopo la Toscana. Infatti la sua indagine, condotta in solitudine, è continuata per circa quattro anni per tutta l’Italia peninsulare e nelle isole, arrivando a dei risultati rilevanti.
L’arrivo dei Greci
Verso la metà dell’ VIII secolo a.C., una spedizione di coloni proveniente dalla Grecia, guidata dall’ateniese Teocle e composta da Calcidesi, Megaresi e Dori, approdò in Sicilia, dove i calcidesi fondarono Naxos, i megaresi Megara Hyblea, i Dori discriminati tentarono di ritornare in patria, ma giunti al promontorio dello Zefirio (attuale Capo Bruzzano, tra Ferruzzano ed Africo, nel comune di Bianco) si fermarono e fondarono una piccola colonia, secondo quanto è raccontato dallo Pseudo-Scimno. Anni dopo, Archia di Corinto guidò una spedizione di coloni alla ricerca di un luogo adatto per fondare una città e giunto al promontorio dello Zefirio, aggregò i Dori che lo guidarono verso la Sicilia, dove fu fondata Siracusa. All’inizio del VII sec. a.C. un’altra spedizione di coloni greci, non si sa se proveniente dalla Locride Ozolia o dalla Locride Opunzia, sbarcò ancora allo Zefirio e fondò la colonia di Locri Epizephiri, ma dopo quattro anni gli abitanti spostarono l’insediamento nell’attuale piana di Locri, secondo quanto afferma Strabone. Lo spostamento a nord, avvenne a danno delle deboli comunità di Siculi, che con un patto spergiuro vennero prima ingannati e poi probabilmente massacrati. Costoro costituivano le sparute rappresentanze di quei siculi, che centinaia di anni prima erano emigrati dall’Italia in Sicania, chiamata poi da loro Sicilia, spingendo verso ovest i Sicani, popolazione d’origine iberica, secondo quanto afferma Tucidide: “Invece la verità assodata è che i Sicani erano degli Iberi, scacciati ad opera dei Liguri dalle rive del fiume Sicano, che si trova appunto in Iberia. Dal loro nome l’isola fu chiamata Sicania, mentre prima era Trinacria; e anche ora essi vi abitano nella parte occidentale. Espugnata che fu Ilio, alcuni dei Troiani sfuggiti agli achei approdarono con le loro imbarcazioni in Sicilia, ove si stabilirono ai confini dei Sicani; e tutti insieme ebbero il nome di Elimi; Erice e Segesta furono le loro città. Ad essi si aggiunsero e con loro abitarono alcuni dei Focesi che, al ritorno da Troia, erano stati dalla tempesta sbattuti prima in Libia e da là poi in Sicilia. Dall’Italia, dove abitavano, i Siculi, che fuggivano gli Opici, passarono in Sicilia su delle zattere… Passati dunque in Sicilia in gran numero, vinsero in battaglia i Sicani che confinarono nelle regioni meridionali e occidentali e fecero sì che l’isola, da Sicania si chiamasse Sicilia”. Di tutti questi passaggi di popoli non ci sono tracce vistose nel territorio qui preso in considerazione, ma piuttosto dei deboli indizi costituiti da frammenti di embrici ellenici o di pitos ed eccezionalmente dal fondo di una anfora vinaria MGS. Ma allora a quale civiltà si deve attribuire questo complesso sistema di palmenti, incentrati su un reticolo di strade finalizzato a servire l’attività agricola connessa ad una viticoltura specializzata? Non ci sono fonti storiche né antiche né recenti che parlino specificatamente di ciò e allora bisogna ricorrere a supposizioni e a deduzioni. Durante la sua visita ai palmenti del territorio, Attilio Scienza dell’università statale di Milano, affermò di aver visto analoghi manufatti nell’isola di Chio, in Grecia, di cui almeno una parte sono collocabili cronologicamente attorno al 1.000 a.C., mentre Lin Foxhall dell’università di Leicester in Gran Bretagna, disse di aver visto di simili nell’isola di Egina, dove sono stati catalogati un centinaio. Di conseguenza quelli dell’area in questione sarebbero stati prodotti dalla civiltà ellenica espressa da Locri Epizephiri, dal VII al IV sec. a. C., almeno in buona parte, tanto più che nei pressi di essi, in due località distinte, in contrada S. Domenica e Carruso, nel comune di Ferruzzano, dopo un devastante incendio, nella prima contrada e un dilavamento dopo piogge torrenziali, nella seconda, apparvero per larghi tratti, frammenti di embrici, pitos, un frammento di vaso locrese e un frammento di vaso corinzio, nonché un fondo di un’anfora MGS. La base dell’anfora MGS, emerse miracolosamente in contrada Carruso, dopo un mini saggio di scavo, eseguito, dopo un pressante invito dello scrivente, nel 1996 dal dott. Federico Barello, Ispettore Archeologico per la Sovrintendenza di Reggio Calabria.
I numerosi frammenti di embrici ritrovati, secondo il suo punto di vista, erano appartenuti a delle tombe a cappuccina, il che dimostrava che in tal sito era esistito un villaggio, collocato nel tempo attorno al Vi sec. a.C., in quanto ciò si poteva dedurre da un frammento corinzio di un vaso dipinto del periodo indicato. Il fondo di una MGS, obbligatoriamente indicava che in quel territorio esistevano estesi vigneti e per giunta vicino alla fiumara La Verde, navigabile nell’antichità, non per la portata d’acqua abbondantissima e perenne, ma per il fatto che nelle attuali parti terminali dei corsi d’acqua, sul versante ionico, s’immettevano lingue di mare. Le prove più importanti che avvalorano l’ipotesi che nel territorio tra il Bruzzano ed il Bonamico ci fosse una importante produzione di vino ce le offre Vandermesch, che ha studiato la diffusione nel Mediterraneo delle anfore vinarie MGS che nella sigla sottintendono Magna Grecia e Sicilia. Ebbene dalle coste della Siria in Medio Oriente, fino al Tartesso (Portogallo) sono state trovati frammenti delle suddette anfore, che sono catalogate dalla I alla VI e naturalmente sono presenti anche quelle di Locri Epizephiri, le MGS II e le MGS III e quelle delle sue sotto colonie di Medma ed Hipponion. Probabilmente le viti piantate dovevano produrre dei vini che assecondassero i gusti dei clienti e probabilmente quelli provenienti da tali territori erano costituiti da passiti in prevalenza. Naturalmente questa è un’ipotesi, non molto azzardata però. Infatti Ateneo scrittore greco vissuto, a cavallo del II e III sec. d.C., a Naucrati in Egitto nella sua opera Sofisti a banchetto, ci parla del vino Caicino, considerato ottimo, paragonandolo al Falerno, che era considerato presso i romani il principe dei vini. Gli esperti contemporanei di vino automaticamente e con determinazione localizzano la produzione di tale vino, definito da Ateneo “nobile e simile al Falerno“ nella Campania, collegandolo al Falerno stesso, però ignorano cosa fosse e dove si trovasse il Caicino. A questo punto ci soccorre il più grande storico dell’antichità, Tucidide, di fronte a cui, spero che gli esperti costruttori di mitici vini con la pubblicità, che usano affermare che il vino si beve con la storia, abbiano la decenza di retrocedere. Ebbene proprio Tucidide, descrivendo la guerra del Peloponneso esportata in Italia, parla di una battaglia combattuta attorno ad una fortificazione locrese nei pressi di un fiume, il Caicino, non lontano dal confine con lo stato di Reggio. Il fiume che seguiva il precedente verso sud, l’Alece,segnava il confine tra Locri e Reggio ed è stato identificato con sicurezza nell’attuale Palizzi, per cui il fiume Bruzzano è da identificarsi con il Caicino o allontanandosi di più verso Locri, con il La Verde.
Nei pressi di questo corso d’acqua, alla fine dell’inverno del 427 a.C., un contingente ateniese guidato da Lachete s’impadronì della fortezza sul Caicino, battendo la guarnigione locrese, costituita da 300 soldati, guidata da Prosseno figlio di Capatone. Nel 426 a.C., alla fine dell’inverno, i Locresi contrattaccarono sul fiume Caicino, riprendendosi la fortezza, presidiata da soldati ateniesi al comando di Pitidoro. Il massiccio collinare, alla cui sommità sorge Ferruzzano, ormai completamente abbandonato, ricade anche nei comuni di Bruzzano, S. Agata del Bianco, Caraffa del Bianco, dove è presente la massima concentrazione di palmenti; si aggirano attorno ai 400. La base del massiccio collinare è bagnata dai due fiumi che gli studiosi pretendono d’identificarli con l’antico Caicino: il Bruzzano e il La Verde. A questo punto non si può sfuggire alla ovvia conclusione che il prestigioso Caicino dell’antichità classica si otteneva premendo le uve di queste colline, costellate da centinaia di palmenti scavati nella roccia. Ma che tipo di vitigno era il Caicino? E’ quasi impossibile dare una risposta ed allora ci dà una mano Ateneo di Naucrati, il quale afferma che se nei giorni precedenti la vendemmia spirava lo scirocco, il colore del Falerno era cupo, mentre se avesse spirato per giorni un vento fresco di settentrione, il vino era chiaro. Allora era bianco o era rosso? Per gli studiosi più qualificati se il Caicino era simile al Falerno, obbligatoriamente era rosso, perché il Falerno era rosso, anche se Ateneoin un suo passo afferma quanto segue: “ Il Falerno è dieci anni d’invecchiamento, ma diviene soave tra i quindici e i vent’anni. Superando tale limite, quando lo si beve, arreca il mal di testa e disturbi al sistema nervoso. Vi sono due varietà: il secco e il dolce. Quest’ultimo, se le uve vengono vendemmiate quando spira il vento di scirocco diviene più scuro. Il vino che non è prodotto in tali condizioni è secco ed assume un colore giallognolo”. I moderni vinificatori però, oltre al Rosso producono un bianco nei sei comuni del Doc Falerno, ricavandolo dalle uve della Falanghina, mentre nei pressi di Pompei vengono coltivati delle viti archeologiche, di cui si sono trovate i riscontri nelle pitture parietali e tra i bianchi è presente, secondo gli esperti, la Cauda Vulpium, ossia la coda di volpe che probabilmente faceva parte delle aminie lanate, portate dai tessali nell’area della distrutta Sibari nel V sec. a.C. Massacrati in maggioranza dai crotoniati, i superstiti si rifugiarono a Posidonia, in seguito denominata Paestum, sottocolonia di Sibari. La Coda di volpe, presente in Campania è fortemente pubescente, quasi cotonosa nella pagina inferiore ed essa è sopravvissuta nell’area dei palmenti della Locride, dove è denominata Lacrima Cristi, da cui a Bianco, ricavavano un passito superiore al Greco, in un passato non tanto remoto. Probabilmente il Caicino si ricavava da un’ aminea lanata e nel territorio in questione, fino a poco tempo addietro di lanate c’era più di una, oltre la Lacrima, anche la Guardavalle pilùsa, ora rara, quasi estinta.
Confronto con palmenti lontani
Nel dicembre del 2004, il direttore dell’Istituto Internazionale di restauro, Palazzo Spinelli di Firenze, Francesco Amodei, d’accordo con le autorità culturali maltesi, inviò due suoi collaboratori, Santino Pascuzzi e Orlando Sculli, a visitare un palmento a Malta, per verificare la somiglianza o meno con quelli di Ferruzzano, su cui c’era stata una pubblicazione nel 2002. Il palmento visionato fu quello di Minska Tanks, vicino al tempio megalitico di Mnaidra e la sorpresa fu grande quando fu ravvisata identità nella foggia, con alcuni palmenti di Ferruzzano. Scattò un’intensa collaborazione tra Palazzo Spinelli e le autorità culturali di Malta, dove si distinsero per impegno il Prof. Anthony Bonanno, professore di Archeologia nel Dipartimento di archeologia classica e il prof. Nathaniel Cutajar, a capo della Sovrintendenza del patrimonio culturale maltese. Ci furono scambi di opinioni e convegni organizzati in comune, in Italia e a Malta, tra cui uno tenuto il 21 gennaio 2010, nella Casa italiana di cultura, a La Valletta. Mentre in Calabria le indagini archeologiche sui palmenti non furono neppure pensate, in quanto non esiste per la Sovrintendenza ai beni archeologici un’ emergenza palmenti, che sono volutamente ignorati, perché i preposti considerano le vasche vinarie, di nessun valore culturale, anche perché non darebbero visibilità nelle passerelle mediatiche, come alcune opere d’arte dell’antichità classica, a Malta invece ci fu un fervore di iniziative. Indagini accuratissime furono effettuati sui palmenti dell’isola di Gozo, attorno a cui, durante una campagna di scavi, furono trovati reperti punici del Vi sec. a.C. Addirittura in un campo vicino ad una vasca vinaria, scavando in profondità, furono trovati i segni di un sesto d’impianto di un vigneto del periodo romano. I palmenti di Ferruzzano furono allora conosciuti in tanti ambienti universitari del mondo, perché il Prof. Bonanno, in un suo scritto sulla tematica delle vasche di vinificazione, li mise talvolta a confronto con quelli maltesi, quando ravvisò analogie. Addirittura le autorità culturali maltesi, organizzarono, in collaborazione con Palazzo Spinelli un viaggio in Calabria, per visitare il primo sito di Pietrapennata, fondato da maltesi in fuga, durante la conquista araba dell’isola, pensando di fare uno studio comparativo tra i vitigni residui di Malta e quelli di Pietrapennata e Palizzi. Nonostante le numerose iniziative di Palazzo Spinelli tutto è fermo attorno ai palmenti della Locride e della Calabria tutta, anzi qualcosa si muove e sono le ruspe, che sbriciolano migliaia di anni della nostra storia.
Il paesaggio agrario magnogreco
Per avere un’idea del paesaggio agrario nella Magna Grecia, ricordiamo quello di Metaponto del IV sec. a.C., quando il territorio agricolo era diviso in lotti di circa 7 ettari ciascuno, in cui gli agricoltori vivevano stabilmente, mentre nelle tavole di Eraclea sono riportate le risultanze di un’indagine nelle terre sacre a Dionisio e ad Atena Poliade, dove viene evidenziato un modello agricolo senza insediamento abitativo; probabilmente i contadini abitavano nei komai (villaggi) vicini sparsi nelle campagne. Nelle tavole vengono citati depositi di prodotti, fienili, caseifici, granai, stalle perbuoi, mentre sono menzionati gli alberi da frutta, viti, boschi, cereali. Fra gli alberi da frutta erano coltivati, fichi, prugni, peri, meli, mandorli, castagni, melograni, meli cotogni.
Il sesto d’impianto per gli ulivi era all’incirca di 30 metri per 30, ossia venivano piantati 4 piante per ogni 1000 metri e per tale genere di coltivazione e per la cura delle piante, esistevano norme severissime e i lavoranti o gli affittuari, dovevano badare a sostituirle, quando esse seccavano. Molto curati erano i boschi, le cui essenze erano usate per la cantieristica navale e per la costruzione di mobili, utili per le esigenze domestiche. Negli orti poi predominavano le fave, i piselli, le rape, i porri, le piante per insalate.
Cruciale era poi l’allevamento del bestiame e massima cura veniva data all’allevamento delle pecore, che venivano sottoposte a selezione e a pulizia estrema; il vello di esse, veniva pettinato molte volte all’anno. La preoccupazione fondamentale era data dal vigneto, fonte di reddito principale ed in ogni kleros (lotto), alla vite era destinato lo 0,45 a 1,6 ettari. Per impiantare i vigneti, venivano scelti preferibilmente terreni situati in declivi, difficilmente in pianura, come spesso è dimostrato dai muri a secco che sopravvivono e che nei secoli sono stati sottoposti a manutenzione.
Il terreno scassato per una profondità superiore al metro e ripulito delle pietre, usate per costruire i muri a secco, veniva trasformato in fasce, difformi nella larghezza, in quanto più il terreno era in pendenza, più le fasce sarebbero state strette. Le viti piantate con il sesto d’impianto di un metro per un metro, venivano allevate ad alberello, alte circa 60 cm e potate “a testa“, nel senso che venivano ricavate nella sommità di ogni vite, tre quattro speroni, dotati ognuno di tre gemme, per cui con il passare del tempo, la sommità di ogni vite ingrossava e assumeva la forma di una testa. Le viti venivano sorrette da sostegni morti, ossia ognuna era retta da un palo di determinate essenze, tagliato nel periodo di stasi vegetativa e lasciato a seccare per un lungo periodo, prima dell’uso.
La presenza romana nel Bruzio (Calabria romana)
Agli inizi del III sec. a.C., dopo duecento anni di guerre intestine, le città elleniche avevano terminato la loro energia propulsiva e la capacità di organizzare la difesa contro il popolo italico dei Bruzi, che partendo dalla città più rappresentativa, Cosentia, dilagavano ovunque, sottomettendo con facilità le città greche, che una dopo l’altra, caddero nelle loro mani. L’unica soluzione che restava loro, per non finire annientate, era quella di chiedere aiuto ai Romani e lo fecero. Costoro arrivarono ben volentieri, delimitando le pretese dei Bruzi e deducendo anche delle colonie nelle aree ormai scarsamente abitate a causa delle guerre. Una certa autonomia restò alle città greche che risultarono alleate dei Romani, che momentaneamente permisero loro di conservare le proprie leggi e di gestire il territorio. Naturalmente si continuò a coltivare anche i vigneti, secondo le tecniche precedentemente usate, specialmente nella parte meridionale del Bruzio (Calabria attuale), in quanto più distanti dalle città più importanti dei Bruzi, da cui partivano le incursioni, ma nubi fosche si stavano addensando sul panorama politico dell’epoca. Era finita la prima guerra punica con la vittoria di Roma e la conseguente conquista della Sicilia, ma nel 219 a.C, con l’attacco e la distruzione da parte di Annibale della città iberica di Sagunto, alleata dei Romani, si riaccese la guerra che portò il geniale condottiero cartaginese ad invadere i cuore dello stato romano, stringendo da vicino Roma stessa.
Dopo le spettacolari sconfitte in campo aperto, contro Annibale i Romani iniziarono una guerra di usura e la politica della terra bruciata e il condottiero cartaginese, nel tentativo di raggiungere la Sicilia, per essere più vicino alle aree di rifornimento da Cartagine, restò intrappolato per circa dieci anni nel Bruzio (attuale Calabria), dove conquistò tutte le città greche, tranne Reggio e dove fu accolto in modo fraterno dai Bruzi, che gli aprirono le porte delle loro comunità e gli offrirono soldati per il suo esercito In dieci anni di permanenza, tutto il territorio dell’attuale Calabria fu sottoposto a violenza di ogni genere, con ritorsioni incrociate, tra Romani e Cartaginesi e quando Annibale lasciò l’Italia per l’Africa, si portò dietro i fedelissimi soldati bruzi, che costituirono la riserva strategica nella battaglia di Naraggara (Zama). I Romani furono implacabili e tutte le comunità dei Bruzi furono decimate, gli uomini più validi condannati come schiavi nelle miniere della Sardegna e il loro territorio confiscato divenne ager publicus, mentre le città greche, tranne Reggio persero alcuni privilegi. Il territorio devastato da anni di guerra risultò spopolato e cominciarono le deduzioni massicce di colonie romane, mentre di conseguenza la produzione vinicola diminuì e l’antico modello agrario, portato dai Greci fu soppiantato dai nuovi modelli romani, che divennero dominanti a partire dal I secolo d.C., che si basarono sulle ville rustiche. Già dalla fine delle guerre Annibaliche, per tutto il periodo repubblicano il vino della Calabria e della Locride fu diffuso non più dalle MGS, ma dalle Dressel. Ai Kleroi inalienabili, non coltivati con manodopera servile perché vietato dalla costituzione, inizialmente divisi fra le cento famiglie aristocratiche della città, successero già a partire dal I secolo d.C., le immense ville rustiche, che programmavano la produzione, in base alla richiesta del mercato.
E sul territorio della Locride, numerose sono gli esempi, da quelle piccole di contrada Stracozzara nel comune di Brancaleone studiata, o a quella non conosciuta di contrada Arie Murate nel comune di Ferruzzano a quelle spettacolari di contrada Palazzi del comune di Casignana ed il Naniglio di Giojosa Jonica. Per avere un’idea sulla villa romana di contrada Palazzi di Casignana, essa si articolava, in dimore del dominus e del fattore, in sale di rappresentanza, in doppie terme, in sauna, in abitazioni per i lavoranti, in magazzini, in laboratori, sviluppandosi per almeno 10 ettari (100.000 metri quadri). La dimora padronale, le sale di rappresentanza, le terme e la sauna, erano impreziosite da mosaici e marmi di provenienza orientale; in uno di questi mosaici campeggia un grappolo trialato, simile a quelli che si ritrovano nei vigneti ormai marginali del territorio. Al momento sono stati messi in luce solo gli ambienti più importanti e già sono emersi frammenti o anfore intere di Kaey LII, le urne vinarie che veicolarono i vini del territorio per tutto il tardo-antico, la cui presenza è attestata sulle coste di tutto il Mediterraneo. Sulle dolci colline attorno al Naniglio di Gioiosa Jonica, nell’antichità classica prosperavano le viti dal periodo ellenico fino ad un certo punto del tardo-antico e ciò è documentato dalla grande vasca di vinificazione, messa fuori uso definitivamente nel corso del V secolo d.C., probabilmente dalle incursioni dei vandali che partivano dalle loro basi in Africa settentrionale, provato dalla presenza di frammenti del V sec., nella vasca interrata. Successivamente la grande villa fu abbandonata e probabilmente la viticoltura fu ripresa, ma non sappiamo dove le uve venivano vinificate.
Possiamo dedurre l’estensione degli spazi agricoli di tale entità produttiva da due elementi: la localizzazione degli edifici della villa rustica stessa a circa 5 km dalla costa, sulla sinistra idrografica del Torbido e da un piccolo teatro di età romana a ridosso della spiaggia, sempre sulla sinistra idrografica del fiume sopra citato. Considerando che gli edifici non potevano essere posizionati in modo molto eccentrico, di sicuro l’estensione dei terreni di pertinenza della fattoria si estendevano almeno per qualche km ancora in direzione delle montagne, inglobando le colline ad ovest e a est, mentre l’attuale Torbido con le sue rive, segnava il confine verso sud; non possiamo dedurre la larghezza del podere, ma senza dubbio non sarà stato inferiore ad 1,5 km. L’estensione del territorio della villa rustica di Palazzi di Casignana è ancora più chiara, in quanto essa sorgeva sul mare, sulla destra idrografica dell’attuale Bonamico e alla sua foce. All’incirca ad un 1,3 km verso sud scorre d’inverno un rigagnolo d’acqua, il S. Antonio, oltre cui è stata individuata un’ altra villa rustica romana, mentre ad oltre cinque km verso le montagne, in contrada Favara sopravvivono le vasche di acqua sulfurea, che rifornivano le terme della villa ed ancora oltre, in contrada Varet, si contano due palmenti scavati nella roccia. Pertanto il terreno agricolo appartenente alla villa di contrada Palazzi si estendeva dal mare verso la montagna per circa 7 km, partendo da una base vicino al mare di circa 1,5 km e allargandosi, nel lato opposto per circa 2,5 km; dentro questa delimitazione esistono circa 30 palmenti scavati nella roccia, tra cui una misteriosa vasca perfettamente quadrangolare di dieci metri di lato. Non essendo stata trovata per il momento la vasca di vinificazione, dentro gli edifici vicini al mare, si può supporre che le uve venissero calcate e premute nei palmenti scavate nella roccia ed ubicate nelle colline dell’entroterra dove il terreno è sciolto.
Inoltre la misteriosa vasca scavata nell’arenaria di 10 x 10, alta 1,40 mt, se fosse utilizzata per vinificare, conterrebbe 100 quintali d’uva per volta. Del resto Diodoro Siculo ci dà la seguente notizia: “Policleto nelle sue Storie descrive la cantina di Tellia, e dice di averla vista ancora esistente quando faceva il servizio militare ad Akragas: essa comprendeva trecento cisterne tagliate nella stessa pietra, ciascuna della capienza di cento anfore; vicino a queste c’era una vasca intonacata della capacità di mille anfore, da cui si effettuava il travaso nelle cisterne”. Sicuramente, dati questi indizi, la villa di Contrada Palazzi gestì un cospicuo commercio basato essenzialmente sul vino, che veniva ricavato dai vigneti impiantati sulle colline dell’entroterra, che probabilmente confinavano con quelli delle altre ville rustiche che svolgevano delle attività agricole verso sud e raccordandosi in continuazione con l’attività vitivinicola che raggiungeva in modo intenso la fiumara di Bruzzano; dentro questo territorio, ripetiamo per l’ennesima volta, tra il Bonamico ed il Bruzzano sopravvivono ancora 750 palmenti scavati nella roccia. La villa di contrada Palazzi ha di fronte il mare che dopo pochissimi metri dalla riva, sprofonda in una fossa che supera i cento metri e di conseguenza il posto era adatto per essere usato come approdo, da cui partivano le navi per raggiungere i porti del Mediterraneo, cariche sicuramente di vino, fino a quando ebbe vita.
Il tardo antico
Il tardo antico, contrariamente a quanto capitò alle altre regioni d’Italia, fu di un certo benessere per la Calabria e per l’area qui analizzata. Mentre altrove le ville rustiche furono abbandonate per oltre il 70%, in Calabria continuarono a svolgere attività produttive per il 50% e questo caso capitò alla villa di contrada Casignana, che costruita nel I sec. d.C., ristrutturata nel IV,momentaneamente abbandonata nel V sec. a causa degli attacchi dei vandali, poi riprese a vivere per quasi altri due secoli, facendo probabilmente da collettore per tutta l‘area vitivinicola che dal Bonamico arrivava fino alla Fiumare di Bruzzano. Intanto era avvenuto che tutte le altre aree d’Italia o della stessa Calabria erano state attraversate da eserciti in armi che saccheggiavano, bruciavano, uccidevano, mentre la parte più meridionale dell’attuale Calabria, escludendo le incursioni vandale, che furono operative tra il 440 e il 477, rimase immune da questi flagelli per lungo tempo. Pertanto poté riorganizzarsi, continuare a produrre e commerciare specialmente con la parte dell’impero d’oriente, di cui la Calabria faceva parte, che era stata pur’essa immune dai flagelli della guerra: l’Africa settentrionale. Le ville romane sopravvissute si ristrutturarono, si espansero, divennero polivalenti nelle colture, diversificate, producendo ricchezza. Essa sicuramente nel periodo della dominazione ostrogota fu amministrata da qualche dominus non latino, che si sentiva comunque un cittadino della parte dell’impero romano che sopravviveva ancora: quello d’oriente. E gli Ostrogoti intendevano ripristinare l’ordine ovunque non ci fosse, come ci racconta Cassiodoro, ministro del re ostrogoto che si preoccupava di rendere tranquilla l’area della sua Squillace e di far diminuire la pressione fiscale, descrivendo indirettamente il paesaggio agrario della sua zona, che era quello della Calabria tutta di quel periodo: “Si dice che Squillace… gode anche delle delizie marine, poiché si trovano là vicino le peschiere da noi costruite..si osservano bene le abbondanti vendemmie, la ricca messe trebbiata nelle aie, nonché l’aspetto dei verdi ulivi”. Ancora indirettamente ci menziona i vini che in quel periodo erano ritenuti i migliori, invitando un suo collaboratore a reperirgli un vino che era ritenuto al pari del Sabino, del Gazeto (il vino ricavato da viti originarie di Gaza), ossia il Palmaziano, che sicuramente non era della sua area: “ricerca anche il vino che…è pari al Gazeto e simile al Sabino ed è singolare per l’odore eccellente“. Il Palmaziano non era tipico di Squillace o dell’area circostante ed un indizio ci riporta nell’area in questione ossia quella tra il Bonamico e la fiumara di Bruzzano, così fornita di palmenti scavati nella roccia. Proprio a Ferruzzano fino a 70 anni addietro, veniva da alcuni, prodotto in purezza un vino rosso brillante, fragrante, ricavato da un vitigno chiamato parmisano, che non significa di Palmi, perché fatta un’ indagine su quel territorio, mai di esso hanno sentito parlare. Di conseguenza nelle colline, circondati dagli antichi palmenti, probabilmente veniva prodotto il Palmaziano, simile al Sabino ed il vino ricavato dalle sue uva prendeva direzioni svariate nel Mediterraneo, contenuto dalle Kaey LII, di cui sia a S. Lorenzo che a Pellaro, sono state trovati tracce nei resti di antiche fornaci che le fabbricavano.
Il ritorno dei Greci: i Bizantini
In virtù della decisione di Giustiniano di riconquistare l’occidente dell’impero, occupato dai regni romano-barbarici, i soldati di Bisanzio conquistarono l’Africa settentrionale, massacrando i vandali, che l’occupavano, poi le armate bizantine si rivolsero in Italia e guidate da Narsete, nel 552 sconfissero a Tagina il re degli Ostrogoti Totila, che cadde in combattimento e poi sui Monti Lattari le residue forze del popolo germanico, guidate dall’eroico Teia, che si battè strenuamente fino alla morte. Con la scomparsa letterale degli Ostrogoti, iniziò la bizantinizzazione dell’odierna
Calabria con l’arrivo di flussi di coloni greci o ellenizzati, provenienti da tutto l’impero. Il territorio, marginale ai teatri della guerra contro i goti, continuò a prosperare e a produrre, guidato dalla funzione trainante della grande villa rustica di Palazzi di Casignana che riprese a vivere e a esportare i molteplici prodotti, principalmente il vino, come ci indicano le Keay LII ritrovate. Tra le altre etnie ellenofone giunte nella Calabria attuale, in periodo bizantino, ci furono gli Ebrei e gli Armeni, di cui ci sono le testimonianze materiali sul territorio,, dentro l’area della nostra indagine e al di fuori di essa. Tra la fiumara di Bruzzano ed il Bonamico ci sono almeno alcuni toponimi che ricordano gli Ebrei, riportate da cartine del 700: Judariu (villaggio degli ebrei), vallone del giudeo, portella del giudeo, nel comune di Ferruzzano, Judariu nel comune di Casignana e contrada Giudei a Bianco. A sud, nell’area di S. Pasquale di Bova, nel contesto di una villa di età imperiale, sono emerse le tracce più notevoli della presenza ebraica, con una sinagoga che ebbe vita forse fino al VII sec. d.C., corredata da mosaici che riproducono la menorah e il nodo di Salomone, un’ansa di una Keay LII che porta impressa la menorah stessa. Quest’ultimo particolare ricorda che nel territorio si produceva anche vino kosher, il vino per gli Ebrei, che doveva seguire una trafila obbligata con cui si escludeva che il prodotto finale fosse stato toccato da mani non ebree; dalla coltivazione della vigna, alla lavorazione dell’uva, all’imbottigliamento. Nel tardo antico, il commercio era veicolato da navicularii (ossia da armatori o padroni di navi in genere) giudei, che trasportavano ovunque, nel Mediterraneo, il vino del territorio.
Per quanto riguarda le testimonianze materiali armene, a sud della fiumara di Bruzzano, sopravvive la chiesa grotta di Brancaleone Superiore e un sistema di silos, per la conservazione di derrate alimentari, mentre dentro il territorio in questione, ricordiamo la Rocca degli Armeni o Armenia o Vetus Bruttianus, che visse fino al terremoto del 1907, che distrusse l’abitato di Ferruzzano. Sui 157 palmenti analizzati nel comune di Ferruzzano, ben quattro portano impresse delle croci armene, tra cui, uno situato nei pressi del luogo dove sorgeva, il monastero basiliano di S. Nicola del Prato; ricordiamo fra l’altro, che il santo era armeno. Su tanti palmenti studiati sono state individuate delle croci bizantine, che indicano che la produzione di vino continuò ad essere notevole nell’area e tra di essi, due sono di estrema importanza, in quanto risulta impressa su di essi, la croce giustinianea, ed essi rappresentano gli unici esempi in Calabria. La suddetta attestazione incisa, rappresenta il documento incontestabile, che denuncia l’uso di questi due palmenti, nel Vi sec d.C., al tempo di Giustiniano. Pertanto durante la dominazione bizantina, la suddetta area continuò a produrre vino e non possiamo sapere se la suddivisione del territorio, interessato al fenomeno dei palmenti sia stato parcellizzato allora, precedentemente o successivamente, dato che mancano i dati derivanti da un’indagine scientifica o in seguito ad una campagna di scavi. In tale territorio si espresse anche il monachesimo basiliano che esprimeva la sua essenza oltre che con la preghiera, con il lavoro. Numerosi sono i monasteri o luoghi di culto basiliani, ricordati nelle memorie documentali, dal Bruzzano al Bonamico, tra cui S. Nicola del Prato, S. Giovanni, Santissimi Anargiri, S. Floro, S. Mercurio ecc., ma nessuno di essi sopravvive, tranne il monastero della madonna di Polsi, che sorge nei pressi delle sorgenti del Bonamico.
Alla fine del VII sec. d.C., anche le immense fattorie su cui si reggeva l’economia di tutta la Calabria attuale e nel caso nostro quella di Palazzi di Casignana, entrarono in crisi in modo irreversibile e senza apparente motivo, in quanto non ci furono fatti storici sconvolgenti, tranne l’arrivo dei longobardi in Italia. Era intervenuto un fatto nuovo però, determinato dall’irrompere sulla scena della storia della forza sconvolgente dell’Islam, che sperimentò il suo dinamismo dopo un’interminabile guerra d’usura tra impero persiano ed impero bizantino. Nel 636 le armate dei Califfi sconfissero prima i Bizantini sul Yarmuk, nel 639 entrarono ad Alessandria d’Egitto e poi dopo una travolgente avanzata arrivarono nell’estremo occidente del Mediterraneo e nel 711, sotto la guida del berbero Tarik attraversarono l’attuale stretto di Gibilterra ed occuparono tutta la Spagna, ma attraversati i Pirenei, pronti a sommergere l’Europa, furono fermati nel 732 a Poitiers, dal Maestro di Palazzo Carlo Martello. Nello stesso anno 711 la cavalcata islamica raggiunse Samarcanda, dopo aver sommerso l’impero dei Parti. Nello spazio di pochi anni, tutto il mercato del nord Africa, su cui si reggeva l’economia della Calabria, venne a mancare e l’attività basata sul vino collassò, tanto più che tale bevanda era vietata dalla religione musulmana. E i vigneti tra il Bruzzano ed il Bonamico, che erano stati attivi per mille anni, poco alla volta furono abbandonati o parzialmente coltivati. E non era ancora finita, perché nel 827 iniziò la conquista della Sicilia da parte degli Arabi e già all’inizio del X secolo iniziarono gli attacchi incessanti degli islamici sulla Calabria che disperatamente resistette, sotto la guida bizantina. Intanto nella Campania si erano attestati i Longobardi, che partendo dal ducato di Benevento e dal principato di Salerno, attaccavano la Calabria settentrionale, dove furono creati castaldati autonomi. Ormai nelle lande devastate della Calabria bizantina, la gente aveva abbandonato le are costiere,arretrando sulle colline più interne e più facili da difendere e proprio a ridosso di queste ultime trincee difensive, era stato trasferito il prezioso germoplasma della Calabria, con la creazione inconsapevole di aree di conservazione di tante specie botaniche usate nell’ agricoltura.
L’arrivo dei Normanni
In questo contesto infuocato, dall’attuale Normandia francese, cominciarono ad arrivare come mercenari, dei formidabili combattenti al soldo dei Bizantini e poi dei principi longobardi di Salerno e tra questi emerse una famiglia di guerrieri straordinari: quella degli Altavilla, che sotto la guida di Roberto il Guiscardo, a cominciare dal 1047, conquistò tutta l’Italia meridionale mentre con l’ultimo degli Altavilla, Ruggero, in seguito assoggettò la Sicilia. Con la caduta di Reggio nel 1060, i Bizantini furono estromessi definitivamente dalla Calabria e dal resto d’Italia, anche se sopravvissero per poco tempo ancora sacche di resistenza. Dopo 150 anni di guerre o di attacchi continui, la Calabria era stremata ed il suo territorio ferito in tutte le sue componenti, ma nonostante ciò dava segni di vitalità ancora. Il riflesso conseguente a 150 anni di combattimenti ed incursioni incessanti si ebbe anche nel territorio interessato dagli antichi palmenti. Infatti nell’opera Le brébion de la métropole byzantine de Règion (vers 1050) – Città del Vaticano 1974, ricavata dalla documentazione d’archivio studiata, André Guillou menziona: una vigna a Bruzzano, una vigna a Plaghìa, nel comune di Ferruzzano, vicino al sito dove sorgeva il monastero basiliano di San Nicola del Prato e il monastero femminile di San Clemente, un’altra ancora nel villaggio di Panaghìa, ancora nel comune di Ferruzzano ed un’altra in contrada Vitina, nell’attuale comune di Bianco; 4 vigne contro 750 palmenti! I Normanni, utilizzando tutte le risorse dello stato da loro costruito, edificarono una struttura statale potente ed economicamente efficiente, basata su molteplici attività artigianali, agricole e commerciali, puntando sulle coltivazioni tradizionali e rafforzando la tendenza in atto già nel periodo bizantino, incrementando l’allevamento del baco da seta, previa coltivazione dei gelsi. La coltivazione della canna da zucchero, degli agrumi, ereditata dagli Arabi in Sicilia, fu estesa in altri territori propizi anche in Calabria, però il territorio che va dal Bruzzano al Bonamico, per le pianure costiere fu abilitato per l’allevamento dei cavalli delle razze calabresi, per motivi militari, considerate validi, tanto che in seguito Federico II, trasferì in Puglia 600 stalloni di tali razze. Nella descrizione del territorio della nostra indagine, che fa Edrisi, storico arabo, ospite del re di Sicilia Ruggero, alla corte di Palermo, emerge l’assenza totale della coltivazione della vite e specificatamente nell’area di Bruzzano, mentre è indicata in quello più a nord, di pertinenza della città di Gerace: “da Capo Zefirio al fiume Petracucca, fiume perenne tre miglia. Da questa a Bursana (Bruzzano) sei miglia. Bursana è casale sul monte; fertile è il territorio che ne dipende; la popolazione ha bestiame minuto e grosso, colti non interrotti ed entrate considerevoli. Da Bursana al fiume di Gerace 12 miglia. Sopra questo fiume è posta Gerace, città bella, grande ed illustre, con colti, seminati e viti..”. Sicuramente la coltivazione della vite sarà stata presente, ma non con l’intensità del periodo ellenico, romano e della prima parte di quello bizantino. Evidentemente tale territorio era stato scelto per altri tipi di colture, oppure non era presente una popolazione consistente, che offrisse manodopera e che nel contempo consumasse il vino, mentre nello stesso tempo il territorio era stato infeudato, tranne quello appartenente alla Curia Regia e i feudatari preferivano portare avanti coltivazioni estensive di cereali oppure allevare pecore, in quanto a quell’ epoca c’era una forte richiesta di lana.
La dominazione angioina
Lo scontro furibondo tra Federico II di Svevia ed il papato, determinò, dopo la morte dell’imperatore, la fine del regno di Sicilia e l’arrivo degli Angioini nell’Italia meridionale. Infatti quando salì sul soglio pontificio il cardinale francese Guy Foulques, con il nome di Clemente IV nel 1265, si affrettò ad offrire la corona del regno di Sicilia al francese Carlo D’Angiò, che scese in Italia nel 1266 e sconfisse a Benevento, Manfredi figlio naturale di Federico II di Svevia, che si era impadronito del Regno di Sicilia. La maggior parte dei feudatari d’origine normanna si erano schierati con gli angioini, in quanto pretendevano l’infeudamento di vaste aree appartenenti alla Curia Regia e così fu più facile per Carlo D’Angiò mantenere il suo potere circondandosi di uomini a lui fedeli, che egli comunque gratificava. Nell’anno 1268 Bruzzano con i suoi casali fu concessa al cavaliere francese Egidio Appard, mentre Policore (che comprendeva l’attuale territorio di Samo e di S.Agata), fu concessa a Filippo Balderi o Baldello, e Bianco (che comprendeva gli attuali territori di Caraffa e Casignana) fu concessa ai Ruffo, signori di Bovalino; pertanto a tre feudatari era stato concesso quasi tutto, tranne Africo, il territorio dei palmenti. Nel 1274 Appard rinunciò a Bruzzano che fu assegnato a Giovanni De Brayda di Alba, che si rifiutò di pagare alla regia curia, 444 once dovute, per cui nel 1274 il giustiziere di Calabria Folco de Roquefeille sequestrò al signore di Bruzzano, fra le altre cose, 40 salme di vino bianco, corrispondenti a circa 10.000 litri. Non era una grande quantità, però ciò ci dà l’indicazione che la viticoltura non era stata abbandonata del tutto nell’area in questione, durante il periodo normanno-svevo che era appena finito e durante quello angioino, da poco iniziato.
Dagli Aragonesi ai Borbone
La dominazione aragonese cercò di operare in modo incisivo e ci furono dei timidi miglioramenti sul piano culturale, amministrativo ed economico. Addirittura furono introdotte in Calabria nuove coltivazioni, come la canna da zucchero, specie sulla costa tirrenica, con impianti per la sua lavorazione, mentre le coltivazioni tradizionali, quali il grano e i cereali in genere predominavano, accanto alle piante tessili. Una testimonianza ce la offre Atanasio Calcheopulos, in qualità di legato pontificio, con funzione ispettiva per la visita ai monasteri basiliani e dai suoi resoconti abbiamo degli accenni alla produzione di vino per l’area in questione, solo da due monasteri, quello di S. Maria di Tridetti e di S. Nicola di Butramo, che avevano vigneti anche dentro il territorio delimitato dalle due fiumare predette. Al monastero di S. Maria, di decime (ossia la decima parte del prodotto) toccavano 30 salme di vino (8 mila litri circa), al monastero di S. Nicola 10 salme (meno di 3.000 litri). Scarsissima era dunque la coltivazione della vite, ma non era scomparsa del tutto. Il resoconto per il periodo spagnolo, ci è dato specialmente da Gabriele Barrio, che accenna genericamente di produzione di vino, ad Africo, a Bianco, a Bovalino, mentre a partire dai primissimi anni del 500, iniziarono le incursioni incessanti del pirati turchi e barbareschi, che riproposero gli stessi problemi che erano stati provocati dalle incursioni arabe nei secoli precedenti, ossia l’abbandono dei terreni per una profondità dalla costa, di circa 10 km. Agli inizi del 700, negli ultimi anni della presenza spagnola in Italia meridionale, attraverso l’apprezzo, ossia la stima delle rendite, della baronia di Bianco, che comprendeva anche Caraffa e Casignana, emerge un quadro inedito. Essa risulta, sotto i Carafa, principi di Roccella, marchesi di Castelvetere e duchi di Bruzzano, ben amministrata ed in ogni sua parte razionalmente sfruttata; persino si ricavavano introiti dall’amministrazione della giustizia. Nella terre di contrada S. Anna, c’era stato un rinnovo del vigneto e, tagliate le vecchie vigne, era stata piantata una nuova di 56 tomolate, aggiunta ad una vecchia di 8, mentre dalle vigne rimaste della Corte, perché le altre erano state distrutte, si ricavava due salme di mosto, che rappresentavano un quinto prodotto da affittuari o da contadini. Era poco o niente quanto si produceva sulle colline che erano state coltivate dai greci, dai romani e poi dai bizantini, ma lasciava ben sperare. La situazione invece peggiorò anche durante la breve dominazione austriaca e poi borbonica, fino all’ultimo scorcio del secolo XVIII, secondo quanto ci racconta il viaggiatore inglese Henry Swinburne, il quale da Gerace a Bova non trovò altro che desolazione e i terreni ovunque abbandonati. Solo verso la metà dell’800, con i Borbone, la situazione era cambiata ed il viaggiatore inglese Edward Lear, da Bruzzano a S. Agata, attraversò l’area degli antichi palmenti, incontrando ovunque dei vigneti.
Dall’unità d’Italia all’attualità
Prima dell’unità d’Italia l’area dei palmenti, al pari di tutto il Regno delle Due Sicilie era in forte crescita, con agricoltura basata sulla viticoltura e la cerealicoltura, mentre dava buoni renditi, l’allevamento del baco da seta. I Francesi arrivavano con i bastimenti a Palizzi, dove si rifornivano di mosto per tagliare i loro vini, proveniente da tutto il circondario, ma ben presto la guerra delle tariffe commerciali, tra Italia e Francia rovinò i rapporti tra i due paesi e furono danneggiati i meridionali, che non trovarono sbocco per i loro vini. Ancora una volta i vigneti delle aree degli antichi palmenti, scomparvero e ricomparvero per breve tempo solo durante il periodo del fascismo. Dal secondo dopoguerra in poi, uno dopo l’altro furono di nuovo furono abbandonati quasi tutti i vigneti e nei comuni di Bruzzano, Ferruzzano, Samo, Africo, Caraffa, S. Agata, Casignana e Bianco, famoso per un D.O.C., il greco di Bianco, i terreni vitati non superano i 150 ettari, a fronte di 750 palmenti, scavati anticamente nella roccia. Da tutto questo sfacelo emerge solo la prova che le vasche vinarie presenti tra il Bruzzano ed il Bonamico, furono scavati a partire dall’arrivo dei greci nel VII sec. a.C., in quanto in epoche recenti non ci fu mai una produzione che potesse giustificare la loro presenza.
By Orlando Sculli