Una terra autentica

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Calabria; Culla di Civiltà e crocevia di Popoli e genti

La storia della Calabria è una storia affascinante, fatta di popoli e genti che hanno posto le basi ad una delle civiltà più interessante ed evoluta della storia Nazionale ed Europea. Attraverso questo viaggio nella storia e nel tempo, abbiamo attinto da diverse fonti, per cercare di dare un nome ed un volto a tutti quei quelle popoli che hanno dato vita a quell’Humus culturale che rende la nostra Regione fra le più uniche al mondo.

La Calabria, terra e crocevia di popoli, che hanno dato il nome all’Italia

Gli Enotri-Pelasgi, originari della Siria, avendo trovato questo suolo molto fertile, denominarono la regione “AUSONIA” dal nome Ausonide, regione fertilissima della Siria. Enotrio avrebbe regnato per 71 anni lasciando come erede il figlio ENOTRIO-ITALO, uomo forte e savio, e da lui l’Ausonia avrebbe assunto il nuovo nome di  “ITALIA” o “VITALIA” come lo stesso Virgilio cantò nel libro terzo dell’Eneide. Finanche Tucidice confermava tali tesi “…quella regione fu chiamata Italia da Italo, re arcade”. Enotrio-Italo, avrebbe regnato per 50 anni, scrive fra Girolamo da Firenze, ed ebbe come successore “MORGETE”, il quale, per la consuetudine dei suoi predecessori, avrebbe cambiato il nome di Italia in quello di “MORGEZIA”. Il Barrio scrive che a Morgete sarebbe successo “JAPIGIO”, il quale con numerosa flotta sarebbe approdato nel Golfo di Squillace, ne avrebbe occupato il territorio e lo avrebbe chiamato “JAPIGIA”. Aristotile però nell’orazione d’Ercole, precisa che non tutta la regione abbandonò il nome di Italia e aggiunge che BRETTIO, figlio di Ercole, giunto nella nostra regione, l’avrebbe occupata contro i Morgezi e i Japigi e l’avrebbe chiamata “BRUZIA”. La tesi aristotelica fu accettata da Stefano di Bisanzio e dal Guarnacci, il quale scrive: “…Bruzia venne chiamata quella terra, che ebbe il nome di Morgezia, Japigia e Italia”.

Secondo gli scrittori romani, il nome di Bruzia seguì a quello di “MAGNA GRECIA” tra il sec. V e IV a.C. Infatti Ovidio nei “Fasti lib. IV” cantò “...Itala nam tellus, Graecia major erat”. Anche Strabone, Plinio e Cicerone scrivono che “…la regione Italia fu chiamata Grecia per i nuovi numerosi suoi abitatori greci”.

Lo stesso Diodoro Siculo, con Tito Livio scrive che … “il nome di Bruzium la nostra regione lo avrebbe preso dopo quello di Magna Grecia, quando nel sec. IV a.C. i Bruzi o Bretti, scesi dalla Lucania, presero a scorrazzare per tutto il territorio dopo aver, secondo il Barrio, espugnato Cerchiara, prima fortezza incontrata sul confine calabro-lucano. Distrussero Terina, Ipponio e Thurii e fondarono una loro federazione, che si estendeva dal Laos della Lucania all’Aspromonte”. 

Dalle vicende ricordate si deve desumere che la storia dei Bruzi in Calabria cominciò con l’occupazione di Cerchiara. Tra tutti i nomi con cui i vari occupanti hanno voluto chiamare la nostra regione il più affermato rimase quello di ITALIA, usato anche da Erodoto (V sec. a.C.), che di persona aveva visitato la Magna Grecia. Con lo stesso nome spesso si indicò tutta la costa jonica, fino a Taranto, per la sua comunanza di vita storico-culturale con la Magna Grecia (sec. IV a.C.).

Nel sec. III a.C. il nome passò all’Italia centrale e, poi, a quella settentrionale, dall’Arno al Rubicone, fino ad indicare tutto il territorio della penisola con la riforma amministrativa ordinata da Augusto nel 24 a.C. quando Plinio già poteva dire: “…questa è l’Italia sacra agli dei”

Le origini del nome ITALIA, fra storia e mito;

La provenienza del nome Italia e della sua radice da VITELLO-TORO è confermata dal fatto che allo scoppio della guerra sociale (90-87 a.C.), provocata dagli alleati italici: Marsi, Sanniti e Lucani contro Roma, per la parificazione dei diritti, fu dai ribelli vittoriosi scelto il Toro come simbolo monetale e a Corfino, centro del moto insurrezionale, fu dato il nome di “ITALICA”.

Il nome CALABRIA; le origini, il mito, la storia…

Quando da Augusto il nome Italia fu trasferito a tutto il territorio della penisola, la nostra regione rimase col nome di “BRUTIUM” e, nella divisione amministrativa, con la Lucania formò la terza regione. Alla fine del sec. VII d.C., i Bizantini, perdendo il dominio della penisola salentina, trasferirono alla nostra regione, dove si erano ritirati, il nome di CALABRIA, che i Greci avevano attribuito al Salento, fin da quando li avevano fissato la loro prima dimora. All’inizio del sec. IX la Calabria bizantina comprendeva il territorio, che va da Reggio Calabria a Rossano, col nome di “DUCATO DI CALABRIA”, di cui capitale fu, prima, Reggio Calabria e poi Rossano; mentre il resto, quello settentrionale, dove è sita Cerchiara, faceva parte del Ducato di Benevento, appartenente al regno Longobardo d’Italia fin dalla fine del ‘500 estendendosi da Cosenza a Chieti. Col regno di Napoli la Calabria ha avuto i confini attuali da Reggio al Pollino. In conclusione il nome CALABRIA deriverebbe da “KALON-BRION – FACCIO SORGERE IL BENE”, per la fertilità del suo territorio, e può considerarsi sinonimo di “AUSONIA” dal verbo “AUXO-ABBONDO”. Difatti ancora oggi tutta la regione è caratterizzata da estesi oliveti, vigneti, agrumeti e frutteti con produzioni tipiche, quali il bergamotto, il cedro e vini di straordinaria qualità, apprezzato in tutto il mondo.

(Fonte: www.aschenazia.it)

Gli Enotri-Pelasgi

Gli Enotri furono tra le primissime popolazioni pelasgiche a giungere in Italia, all’inizio dell’Età del Ferro (XI secolo a.C.) dalla Grecia si stabilirono da una zona che si estendeva dalla Campania meridionale, grosso modo da Sala Consilina (SA), fino alla Calabria meridionale. Il termine “enotrio” sarebbe stato poi assorbito dalla lingua greca divenendo οἶνος (oinos), “vino”, in quanto la popolazione degli Enotri abitava, come accennato, in un territorio ricco di vigneti. “Enotri” si traduce approssimativamente con i coltivatori di vino. Gli Enotri erano guidati da un leggendario Re di nome Italo, figlio di Penelope e Telegono.

Gli Enotri (tribù guidata da Enotrio o popolo della terra della vite – Οἰνωτρία) furono guidati originariamente da Enotrio era uno dei cinquanta figli di Lione; Lione deriva da Lycaonia (regione della Turchia centro-meridionale). Da quì si trasferirono in Arcadia, nel Peloponneso, come membri di un ramo pelasgico. Successivamente mossero dalla Grecia verso le Calabria, attraversando la Grecia o direttamente dall’Albania tramite il rettilineo di Otranto; in entrambi i casi giunsero in Italia meridionale.
Un punto importante della tradizione antica relativa agli Enotri è che questi non venivano considerati autoctoni, ma immigrati in Italia dall’Arcadia (Dionisio di Alicarnasso), e che la loro origine veniva ricondotta – attraverso genealogie, secondo un procedimento comune all’antica storiografia all’eponimo dei Pelasgi, con i quali d’altra parte venivano connessi e talvolta identificati gli Arcadi. La designazione di Pelasgi era genericamente attribuita ai più antichi abitatori della Grecia, senza che fosse chiaro il carattere etnico, ellenico o panellenico. Erodoto, sosteneva che i Pelasgi fossero “barbari”; ma anche vedeva in loro gli antenati dei Ioni, e degli Ateniesi in specie, assimilatisi in lingua e cultura agli Elleni (Dori) venuti successivamente nel Peloponneso. In ogni caso, la storiografia antica come  ha osservato il Devoto, collega i Pelasgi con l’espansione greca verso l’Occidente: così come i mitografi collegavano con essa i viaggi degli Argonauti e di Eracle. E nella tradizione dell’origine arcadica e dell’affinità pelasgica degli Enotri sembra riflettersi un’oscura memoria di relazioni remote tra la Grecia e le regioni, ove più tardi si costituì la “Grande Grecia”.

I Brettii – Bruzii

Gli storici antichi (Strabone, Diodoro Siculo, Giustino) fanno riferimento alla comparsa in Calabria, intorno alla seconda metà del IV sec. a.C., del popolo italico dei Brettii (noti anche come Bruttii o Bruzi), che si andava espandendo nella terra degli Enotri ai danni delle colonie greche della costa. Pare che essi fossero dei servi-pastori dei Lucani da cui si separarono in seguito ad una ribellione e, dedicatisi dapprima al brigantaggio e alle scorrerie, successivamente si riunirono in una Confederazione che elesse come capitale (metròpolis) Cosenza (circa 356 a.C.). Nonostante vari tentativi di resistenza all’espansione romana in Italia meridionale, che li videro anche alleati dei Cartaginesi durante la seconda guerra punica (219-202 a.C.), non ebbero la capacità di opporsi alla conquista definitiva del Bruzio (fine del III sec. a.C.). Le fonti fanno una descrizione talmente negativa dei Brettii che persino la lingua è definita “oscura” come la loro rinomata pece. Essi, in realtà, erano bilingui, parlavano sia il greco che l’osco, una lingua del ceppo italico.

Gli insediamenti brettii erano posti in aree facilmente difendibili e ricche di risorse: città fortificate o villaggi a vista reciproca, posti in posizione dominante sulle vie di comunicazione che, indipendenti in tempo di pace, si riunivano sotto un comando comune per questioni di politica estera. Gli abitati avevano edifici pubblici imponenti (come il teatro di Castiglione di Paludi) e case costruite in ciottoli di fiume uniti a secco, con alzato in mattoni crudi e tetto in tegole. Di molti di questi stanziamenti sono ancora visibili i resti delle fortificazioni in blocchi parallelepipedi di arenaria che, poiché simili all’architettura militare greca, fanno supporre l’impiego di maestranze provenienti dalle colonie. La vicinanza alle montagne, ai corsi d’acqua e alle pianure connota la loro economia come agricola e pastorale: era basata, infatti, sull’allevamento, la pastorizia, la produzione di lana e latticini e, soprattutto, sulla produzione della famosa pece ricavata dalle foreste della Sila. La cultura materiale dei Brettii si distingue poco da quella dei popoli coevi, di cui importavano o imitavano manufatti, come i vasi fabbricati nelle colonie greche dell’Italia meridionale (vasi italioti) o le armi e gli ornamenti.

I primi coloni Greci

Visitare oggi le tracce del passato greco della Calabria significa incontrare aree archeologiche di suggestiva bellezza e musei con collezioni ricchissime. Ma questa terra è stata abitata e riedificata (anche a causa dei terremoti che periodicamente l’hanno devastata) per secoli, e spesso è difficile individuare le tracce dell’epoca più antica. Tra l’VIII e il V secolo a.C. il Mediterraneo fu teatro di una vera e propria ondata migratoria, che portò uomini dalla Grecia a cercare fortuna nelle terre dell’Italia meridionale. Per chi veniva da una terra aspra e incapace di nutrire una popolazione crescente, quelle coste dovettero sembrare una sorta di paradiso: avevano pianure solcate da fiumi, abbracci di colline a protezione dall’entroterra, porti naturali per ancorarvi le navi e provare a costruirsi un nuovo futuro. Non a caso, molte delle colonie che i Greci fondarono in quella che venne chiamata Magna Grecia divennero più grandi e potenti delle città madre in Grecia. Tra le regioni che videro la fondazione di centri importantissimi per il mondo greco c’è la Calabria: città come Rhegion (Reggio Calabria), Sybaris (Sibari), Kroton (Crotone) e Lokroi Epizephyroi (Locri Epizefiri) divennero così floride e potenti da fondare a loro volta altri insediamenti. Solo le invincibili legioni di Roma, attorno al 280 a.C., riuscirono a privarle della loro autonomia. Questo è particolarmente evidente a Reggio Calabria: le testimonianze greche si limitano a qualche resto della cinta muraria (IV sec. a.C.) e poco altro, ma in compenso la città ospita il Museo Nazionale della Magna Grecia. Tra le sue perle, i Bronzi di Riace, celeberrime statue in bronzo della metà del V secolo, il gruppo dei Dioscuri che scendono da cavallo, proveniente da Locri Epizefiri e la testa in marmo di Apollo, proveniente dal sito di Punta Alice (Cirò Marina), che richiama lo stile di Fidia. E ancora, il Kouros di Reggio, statua in marmo del VI sec. a.C. e, da Locri Epizefiri, la collezione di pinakes, bellissimi ex voto in terracotta, e le tavole bronzee provenienti dall’archivio del tempio di Zeus, che attestano prestiti ricevuti dalla città per la realizzazione di opere pubbliche.

Il viaggio tra le aree archeologiche non può che iniziare da Locri Epizefiri, uno dei pochissimi siti dove sono leggibili i resti dell’epoca greca. Gli scavi, a 3 km a sud della moderna Locri, comprendono oltre 300 ettari, racchiusi dal perimetro delle mura greche: vi si trovano santuari, un teatro, edifici per attività produttive, abitazioni. Parte dei reperti emersi dagli scavi è visibile nel Museo Archeologico Nazionale di Locri. Un’altra area suggestiva è quella di Monasterace, corrispondente all’antica Kaulon: sulla spiaggia restano i ruderi di un imponente tempio dorico, mentre ancora leggibili sono i resti delle mura, databili dal VII al III sec. a.C. Tra le abitazioni del centro urbano, celebre la Casa del Drago, scoperta nel 1960, dove è stato rinvenuto uno dei più bei mosaici della Magna Grecia, di epoca ellenistica. L’area archeologica di Capo Colonna, a 10 km da Crotone, comprende 30.000 metri quadrati di terreno e ospita un Museo Archeologico, costruito con criteri di risparmio ambientale. La rimanenza più importante è una colonna, che faceva parte del santuario dorico dedicato alla dea Hera Lacinia, risalente al V sec. a.C. I reperti provenienti dal tesoro del tempio, invece, tra cui lo splendido diadema, sono ospitati nel Museo archeologico nazionale di Crotone. Spostandosi sulla costa tirrenica, la città di Hipponion, ribattezzata poi dai Romani Vibo Valentia, è un esempio di subcolonia: fondata da Locri Epizefiri nel VII sec. a.C., ha fornito agli archeologi materiale interessante e talvolta rarissimo, come la laminetta in oro del VI sec. a.C., ripiegata più volte e incisa con una formula magico-religiosa, che faceva parte del corredo funebre di una donna. Grazie alla formula, la defunta avrebbe potuto attraversare gli Inferi indenne e arrivare ai Campi Elisi, assicurati ai seguaci della religiosità orfica, tipica della Magna Grecia. Infine, meritano almeno una menzione le due aree di Sibari e quella di Scolacium, a 10 km dall’attuale Squillace. Entrambe sono un esempio della stratificazione vissuta per secoli da questi centri, al punto che attualmente i resti visibili (teatri, abitazioni, terme, tabernae e edifici di culto) sono quasi completamente attribuibili all’epoca romana. Da visitare il Museo Archeologico Nazionale della Sibaritide, che ospita il bel bronzo Toro cozzante, del V sec. a.C.

Gli Ebrei

La leggenda narra che Reggio sarebbe stata fondata da Aschenez, nipote di Noé. Una leggenda senza alcun fondamento storico, ma che, ponendosi al confine tra realtà e fantasia, comunque può attestare una presenza di ebrei della nostra regione. A confermare questa presenza sono i resti della sinagoga, ricca di mosaici, rinvenuta alcuni anni fa presso Bova Marina e risalente al III/IV secolo d.C.: dopo quella di Roma, si tratta della più antica sinagoga occidentale. Anche a Cosenza doveva esserci, fin dall’antichità, un considerevole numero di Ebrei, che vi avevano il proprio quartiere, la Giudeca o Iudaica, la quale fu posta sotto la giurisdizione dell’arcivescovo nel 1903. A S. Severina esisteva il quartiere della “Iudea”, contiguo a quello antichissimo della “Grecia”. Ciò fa supporre che gli Ebrei vi fossero pervenuti fin dai tempi bizantini. Tuttavia una massiccia migrazione verso la Calabria si ebbe con l’avvento degli svevi nella regione, per il trattamento di favore accordato agli ebrei prima da Enrico IV e poi da Federico II, per incrementare le industrie della seta, della tintoria, del cotone, della canna da zucchero e della carta. E ciò non perché essi lavorassero in quelle industrie, ma perché ne intensificassero la produzione, contribuendo così al progresso dell’economia locale, attraverso il prestito di capitali. Essi praticavano tassi molto elevati e il sovrano Federico II, che pure aveva voluto che gli Ebrei si differenziassero dai Cristiani attraverso gli abiti indossati, ben si guardò di mitigare l’usura, giustificandola come una professione non contraria ai sacri canoni.

La Taxatio o Cedula subventionis del 1276 offre una documentazione attendibile che permette di stabilire che, in quell’epoca, comunità ebraiche erano presenti nella maggior parte delle località calabresi, grandi e piccole. Gli Ebrei, riuniti nel proprio Ghetto o Iudeca, si reggevano con ordinamenti propri, secondo le proprie tradizioni. Costituivano, dunque, una comunità a parte, regolata da leggi differenti da quelle osservate dai Cristiani, quali, per esempio, l’osservanza del sabato e la celebrazione della Pasqua. Per gli atti di culto avevano la loro sinagoga e per l’istruzione la propria scuola, che, spesso, coincideva con la sinagoga stessa. A Reggio la sinagoga era situata in una zona abitata da Cristiani e la promiscuità dava origine a non pochi inconvenienti. I Cristiani lamentavano le interferenze del rito ebraico durante lo svolgimento delle loro funzioni e, perciò, chiedevano che i Giudei distruggessero la sinagoga e ne costruissero un’altra nel proprio quartiere. Di fronte a questa situazione il governo angioino cercò di non scontentare né i Cristiani, né gli Ebrei. Fu dato ordine che, se le cose stavano come riferite dai cristiani, se, cioè, la sinagoga si trovava troppo vicino al loro quartiere, questa doveva essere demolita e gli Ebrei compensati in modo equo. Se, poi i Cristiani non ne volevano la distruzione, ma preferivano utilizzare l’edificio, esso poteva essere loro concesso ad un prezzo congruo. E, in ogni caso, agli Ebrei era consentito di costruire una nuova sinagoga nella loro zona. L’attività degli Ebrei si svolgeva soprattutto in campo economico e commerciale. A Reggio essi avevano nelle loro mani l’industria della seta e della tintoria. Gli Ebrei applicavano il metodo di tingere i tessuti con l’indaco e i prodotti pregiati venivano esposti e venduti non solo nelle principali fiere del Regno, ma anche nel resto d’Italia, in Francia, Spagna e nell’Africa mediterranea. Era proprio per l’impulso dato all’economia che gli Ebrei non erano solo tollerati, ma anche favoriti. La stessa benevolenza goduta a Reggio, fu ad essi assicurata anche a Catanzaro e nelle altre città della Calabria. Se il contributo all’incremento dell’industria e del commercio, soprattutto nel secolo XV, fu sensibile, essi non mancarono di distinguersi neanche in campo culturale. A Reggio fu impiantata una tipografia, la seconda nel Regno di Napoli, fin dal 1475, da Abraham ben Garton, che, in quell’anno, vi stampò il Pentateuco in ebraico, prima stampa di un libro in caratteri israelitici non solo in Italia, ma in tutto il mondo. E tre anni dopo un altro ebreo, Salomone di Manfredonia, impiantava una tipografia a Cosenza. Intanto, per ovviare alla piaga dell’usura, i maggiori responsabili della quale erano considerati proprio gli Ebrei, nacquero, nel secolo XV, i Monti di pietà, che si proponevano di prestare denaro ad un tasso molto esiguo o dietro consegna di un pegno. Di questa istituzione si fecero propagatori i Francescani, particolarmente il Beato Bernardino da Feltre. Ne furono fondati anche in Calabria, ma nel secolo XVI, quando ormai gli Ebrei non vi erano più. La convivenza tra gli Ebrei e i Cristiani, tuttavia, non fu sempre pacifica. Nel 1264 gli Ebrei di Castrovillari uccisero B. Pietro da S. Andrea, fondatore e propagatore del francescanesimo in Calabria. Altre volte furono i Cristiani ad infierire sugli Ebrei, accusati di pratiche malefiche, nefandezze ed altri misfatti. Così furono additati come colpevoli di avvelenare le acque delle fontane di Montalto e dei paesi vicini. Gli Angioini non furono teneri verso gli Ebrei, ma non si può neanche dire che furono dei persecutori; si adoperarono per la loro conversione alla fede cattolica, favorendo in ogni modo chi operava questa scelta. Nel Parlamento, tenuto a S. Martino della piana il 30 maggio 1283, si decretò che agli Ebrei non fossero imposti dei gravami oltre a quelli esistenti. Con l’editto del 1 maggio 1294 si concedevano particolari facilitazioni a chi di loro si fosse convertito alla fede cristiana. Viceversa il 4 aprile del 1307 veniva confermata la disposizione di Federico II, poi e riesumata da Carlo I d’Angiò, per cui essi dovevano differenziarsi dai cristiani nelle vesti. Dopo la pace di Caltabellotta (1302) alla città di Reggio furono concessi dagli Angioini diversi privilegi di cui usufruirono anche gli Ebrei che vi risiedevano. Tra gli altri vantaggi si ricorda la fiera franca del 15 agosto, che, accordata da Luigi e Giovanna d’Angiò nel 1375, faceva confluire nella città molti mercanti pisani, lucchesi e napoletani, per l’acquisto della seta e di altre mercanzie, di cui gli Ebrei avevano il monopolio. Nel 1417 l’Università di Catanzaro appoggiò la richiesta da essi rivolta al governo di essere dispensati dal portare il segno distintivo, l’esonero dal pagamento della “gabella della tintoria”, nonché l’assicurazione di non essere molestati né dagli ufficiali regi, né dagli inquisitori ecclesiastici. Poco dopo gli Ebrei ottenevano di formare una comunità unica con i Cristiani, senza alcuna discriminazione nei loro riguardi. Il re Alfonso il Magnanimo, negli anni 1444-1445, fece varie concessioni alle comunità ebraiche di Cirò, Crotone, Taverna ed altre città; nel 1447 concesse agli Ebrei di Tropea la parificazione tributaria ai Cristiani. Anche gli Ebrei di Castrovillari raggiunsero una pacifica convivenza con la popolazione locale. Quando essi lasciarono la città, nel 1512, fecero cessione della loro Scuola all’Università. A Montalto la sinagoga fu soppressa nel 1497 e le rendite furono destinate alla chiesa matrice, mentre la Scuola fu lasciata all’Università, che la trasformò nella Cappella della Madonna delle Grazie. La giurisdizione civile e criminale sugli Ebrei, dai Normanni e dagli Svevi, fu concessa ai vescovi. Nel 1093, la Giudaica di Cosenza fu sottoposta dal Duca Ruggero Borsa alla giurisdizione dell’arcivescovo, al quale gli Ebrei dovevano pagare le decime. Più tardi il re Guglielmo I trasferì alla Curia cosentina alcuni diritti sugli Ebrei, e Federico II, nel marzo 1212, concesse all’arcivescovo Luca non solo le decime ma, anche, la Scuola ebraica. Il papa Bonifacio IX, il 26 giugno 1403, dietro richiesta degli Ebrei di Calabria, esortò i vescovi a difenderli dalle vessazioni degli inquisitori. Ma la giurisdizione vescovile a poco a poco venne meno per le manomissioni dei baroni e delle Università, che la pretendevano. Il provvedimento non migliorò la situazione degli Ebrei, i quali furono angariati dagli ufficiali civili non meno che da quelli ecclesiastici. Di ciò gli Ebrei siciliani, trasferitisi a Reggio, si lamentarono con il re nel 1494; motivo per il quale il sovrano decise di restituire la giurisdizione della Giudeca all’arcivescovo. Ma a mettere la parola fine alle dispute relative alle competenze, intervenne la cacciata degli Ebrei dal Regno, nel 1510. E’ necessario notare, infatti, che alla tolleranza della Chiesa nei loro confronti, si oppose l’atteggiamento antitetico dei sovrani spagnoli. Essi, scacciando gli Ebrei da Regno, non solo commisero un atto di xenofobia, ma assestarono un colpo fatale all’economia dell’Italia meridionale, in generale, e della Calabria, in particolare.

Il periodo Bizantino:

Tra il X e l’XI secolo, la Calabria bizantina divenne la sede del misticismo ortodosso, con monaci provenienti da ogni lato dell’impero; venivano ad abitare queste terre scarsamente popolate, isolandosi nella natura, per essere più vicini nella contemplazione di Dio. In questo modo fiorirono in varie aree della regione: lauree, cenobi e monasteri basiliani; luoghi in cui vissero e studiarono un gran numero di personalità, che nei secoli successivi sarebbero stati venerati come santi dalla chiesa di Roma e di Costantinopoli, tra questi: San Fantino il Giovane, San Nicodemo, San Zaccaria del Mercurion, San Saba del Mercurion, San Luca di Demenna, San Leoluca da Corleone, San Macario Abate, San Nilo da Rossano, Sant’Elia Speleota, San Giovanni Therìstis e molte altre personalità. Questo, soprattutto nell’estremo lembo settentrionale della Calabria, denominato Mercurion, l’attuale area interna dell’Alto Tirreno Cosentino, che divenne un luogo talmente importante da essere definito la Nuova Tebaide.

Il periodo bizantino della Calabria, anche noto come seconda colonizzazione greca, è durato circa cinque secoli, dalla conquista giustinianea nella seconda metà del VI secolo all’occupazione da parte dei Normanni nella seconda metà dell’XI secolo. La Calabria è una regione dalla storia unica nel panorama italiano, infatti, dal 554 d.C. e per oltre 500 anni rappresenterà un pezzo di Oriente incastonato nell’Italia meridionale. Sotto il dominio bizantino la regione, che più di mille anni prima aveva fatto parte della Magna Grecia, subisce una seconda grecizzazione. Durante questo periodo la cultura greca ha lasciato profonde tracce che attraverso i secoli sono arrivate fino a noi.

 

I Normanni:

In Calabria (e ancor di più in Sicilia) i normanni hanno lasciato delle tracce profonde in diversi campi, tra i quali quello dell’architettura; anche se i terremoti hanno in gran parte distrutto il patrimonio monumentale riferibile a quel periodo. Queste tracce le troviamo in molti centri calabresi: Scalea, Laino borgo, Roseto, Malvito, Altomonte, Bisignano, Rossano, S. Marco Argentano, Luzzi (Sambucina), Montalto, Cosenza, S.Giovanni in Fiore, Corazzo, Taverna, Nicastro, Simeri, Catanzaro, Borgia, Squillace, Tropea, Nicotera, Serra S. Bruno (S. Stefano del bosco), Arena, Stilo, Bivongi, Bagnara, Gerace, Reggio Cal., Bova.

Ci sono significative tracce del loro passaggio a Mileto (VV) che fu scelta nel 1059 come capitale del regno dal Gran Conte Ruggero I, ed anche a Sant’Eufemia Vetere, nel territorio di Lamezia Terme. Qui in mezzo ad un agrumeto, si trovano i ruderi dell’abbazia benedettina di ” Santa Maria ” fondata nel 1062. Mentre a Mileto, su una collinetta dalle forme arrotondate, detta un tempo ” Monteverde “, é possibile osservare i ruderi dell’abbazia normanna della Trinità. Di quest’ultima, che in origine fu dipendente dall’abbazia lametina, si é interessato, fra gli altri, lo storico dell’arte prof. Giuseppe Occhiato. Questo autore ha individuato nell’Abbazia di “Santa Maria” a Sant’ Eufemia Vetere e in quella della Trinità di Mileto, poi seguite da quella di Gerace, le prime chiese che hanno importato nel nostro sud, lo stile nordico – benedettino delle costruzioni chiesastiche della Normandia. I modelli francesi di queste costruzioni sono costituiti dalle chiese di Cluny, Bernay, Saint ‘Evroul sur-Ouche, modelli che attraverso le due abbazie calabresi si diffusero anche nella vicina Sicilia, dove vennero costruite le cattedrali di Catania, Messina, Cefalù, Palermo. Da qui discende l’importanza delle abbazie lametina e miletina nel panorama dell’architettura del medioevo meridionale. I normanni, discendenti dei Vichinghi,furono abili costruttori oltre che conquistatori e nel sud Italia stipularono un accordo con il Papa per legittimare le proprie conquiste; in cambio si impegnarono a riportare sotto l’ influenza della chiesa di Roma tutti i territori conquistati, che erano di rito Bizantino. Perciò costruirono monasteri ed abbazie secondo modelli architettonici cluniacensi (da Cluny nel nord della Francia). A Mileto appartiene il primato di essere stata la prima sede episcopale latina di tutto il meridione, infatti Papa Gregorio VII, per compiacere il Gran Conte Ruggero che era molto affezionato alla città, nel 1081 vi istituì la diocesi. I primi artefici della conquista normanna furono i due fratelli Roberto il ” Guiscardo ” e Ruggero d’Altavilla, seguiti da Ruggero II. Essi erano particolarmente legati ai monaci benedettini francesi e fecero venire dalla normandia abati e monaci che, oltre a svolgere un ruolo religioso, fossero capaci di incidere profondamente anche sul piano sociale ed economico. Questi religiosi erano in un continuo rapporto di fiducia con i dominatori normanni ed erano considerati come ” baronizzati “. L’abbazia di Sant’Eufemia Vetere fu voluta da Roberto il Guiscardo nel 1062 come mausoleo per le anime dei suoi cari, mentre la Trinità di Mileto fu voluta (tra il 1063 ed il 1066) dal fratello Ruggero d’Altavilla, poi Conte di Calabria e di Sicilia, come tomba per sè e per la moglie Eremburga (il sarcofago di quest’ultima é oggi in mostra nel museo di Mileto). A costruire l’abbazia di Sant’Eufemia fu un monaco normanno, Robert de Grandmesnil. Si ritiene, infatti, che furono gli stessi religiosi benedettini a progettare le chiese in cui furono nominati abati o vescovi.

 

Gli Armeni

Popoli solo apparentemente lontani, che in un passato più o meno recente, comunque ricco e degno di una terra crocevia del Mediterraneo, hanno vissuto e lasciato tracce ancora oggi da riscoprire, studiare e interpretare nella nostra Calabria e oltre. E’ il caso degli Armeni, vittime della persecuzione ottomana durante la Prima guerra mondiale e del primo genocidio del Novecento. Durante la nuova ondata anti cristiana di siriani e turchi islamizzati, verso la fine dell’ottavo secolo d.C., gli Armeni approdarono anche sulla coste calabresi, in particolare sul litorale reggino, per rifugiarsi sulle alture. Pare che un gruppo si fosse raccolto in solitaria preghiera tra le montagne secondo le regole del monachesimo orientale diffusosi anche in Armenia grazie all’opera di San Basilio per sfuggire alle incursioni degli arabi provenienti dal mare. Qui coltivarono usi e tradizioni religiose e intrapresero attività agricole come la vinificazione, con la creazione di veri e propri Silos per custodire le derrate alimentari. Questo luogo è stato Brancaleone (anticamente denominato Sperlinga dal termine latino e greco significante caverna), di fondazione greca, culla dei Locresi prima del loro avanzamento, promontorio strategico unitamente a Reggio, Gerace e Bruzzano Zeffirio, dove oggi il rudere di un antico castello, denominato proprio Rocca Armenia, custodisce in una grotta segni di celebrazioni religiose tipiche della cultura del più antico popolo Cristiano. Brancaleone superiore con lo sviluppo della Marina, nella seconda metà del Novecento, fu abbandonato. Oggi conserva il fascino di un luogo antico, che custodisce anche i ruderi di una chiesa rupestre, probabilmente unica nel suo genere a queste latitudini e di cui ne esisterebbe una simile solo in Georgia.Gli Armeni sono arrivati in Calabria a partire già dal V° sec. d.C, sono stati commercianti, Stratioti, soldati o nobili condottieri. Nel IX secolo con l’avanzata araba su Reggio fu conquistata dagli Arabi capeggiati da Abû el’-Abbâs, che massacrarono gli abitanti e uccisero il vescovo- Nella vallata di Bruzzano, si stanziarono gli armeni e gli ebrei. Dei primi abbiamo le testimonianze nella toponomastica, Rocca degli Armeni a Bruzzano e nei manufatti religiosi: chiese grotte, di Brancaleone Superiore e a Bruzzano Vecchia. Bruzzano nel 925, fu distrutto dagli arabi, guidati da Abu Ahmad Gafar Ibn Ubayd.

Secondo la tradizione orale del territorio, dopo la distruzione di Bruzzano, gli abitanti superstiti si divisero ed alcuni si stanziarono sulla collina dove sorse Ferruzzano, altri sulla Rocca Armenia. Ma il toponimo “Rocca dell’Armenio” a quale insediamento si riferisce? Probabilmente a quello distrutto dagli arabi nell’862 quando il Wali di Sicilia, Ab-Allah Ibn Al-Abbas, occupò molte rocche bizantine in Sicilia e scatenò la sua furia guerriera in Calabria, distruggendo Qalat- Al Armanin (la Rocca degli Armeni), secondo quanto riferisce Al-Aktir, e che Michele Amari non sa dove collocare nella sua “Storia dei musulmani di Sicilia”. In seguito la comunità distrutta si ricompose, ma nel 925, come abbiamo accennato venne di nuovo massacrata. Proprio in questo periodo le dinastie berbere degli emiri di Sicilia, per via della scarsità della popolazione in Africa del Nord, andavano alla ricerca di mercenari nelle terre slave dell’Adriatico settentrionale tra gli schiavoni della Croazia o nella Dalmazia. Infatti nel 918 molti mercenari schiavoni al soldo degli arabi, sotto la guida di Masud devastarono Reggio e presero la Rocca di Sant’Agata forse nei pressi di Reggio stessa. In quel periodo la vallata di Bruzzano divenne area di acquartieramento delle truppe arabe e una comunità slava di croati, vi si stabilì, come ricorda il toponimo vicino, alla Rocca degli Armeni, “Schiavuni” o “Rocca Schiavuni”. Verso la fine del IX secolo e nel X, con il riaffermarsi della potenza bizantina in Italia, vediamo di nuovo con frequenza, sulla scena della vita politica della Penisola, battaglioni e capi armeni. Già nei primi decenni del IX secolo, si trova in Italia Arsace (Arthsak), ambasciatore di Niceforo I alla corte di Carlo Magno, il quale arrivò a Venezia per giudicare il doge Obelerio. Gli armeni combattevano in Italia, ai tempi di Basilio I, sotto il comando di Niceforo Foca il Vecchio, nonno dell’imperatore dallo stesso nome. Anzi, Niceforo il Vecchio impiantò una moltitudine di Armeni in Calabria, forse Pauliciani, come -numerosi erano gli Armeni in Italia anche sotto il comando del patrizio Cosma, nel 934. LA VALLE DEGLI ARMENI; oggi comprende i Comuni di Brancaleone, Staiti, Bruzzano Zeffirio, Ferruzzano, anche se la presenza armena in Calabria è presente in quasi tutte le provincie, riscontrata grazie alle ricerche condotte attraverso le attività della Comunità Armena Calabria che ha censito molti siti calabresi. La denominazione “Valle degli Armeni” è un termine coniato sulla base delle ricerche condotte su campo dal Prof. Sebastiano Stranges (Ricercatore e Archeologo onorario e Ispettore Onorario del Ministero per i beni e le Attività Culturali) collaboratore della Pro Loco di Brancaleone, nonché Socio Onorario, e dal Presidente della Pro Loco di Brancaleone Carmine Verduci che dal 2015 hanno trasformato questo territorio in una destinazione turistica che in breve tempo ha preso piede nel sistema turistico locale, Regionale, Nazionale ed Internazionale, con percorsi, itinerari turistici, eventi e convegni che riprendono questo aggettivo, identificando la porzione di territorio compresa tra Capo Bruzzano e Capo Spartivento fino ad ora sconosciuta, o meglio dire, identificata confusamente con vari e molteplici significati etimologici.

(Fonti: Sebastiano Stranges, Orlando Sculli, Carmine Verduci)

I Valdesi:

Si ritiene che verso il XIII secolo arrivarono in Calabria dal Piemonte piccoli gruppi di persone provenienti dalle valli a ridosso delle Alpi occidentali. Esse cercavano di sfuggire alla persecuzione alla quale erano soggette dato che praticavano una religione ritenuta eretica: erano di fede valdese. I valdesi che giunsero in Calabria furono ben accolti. Alcuni proprietari terrieri calabresi offrirono loro dei fondi scarsamente abitati da coltivare, in cambio di un canone annuo. Essi si insediarono nei paesi di Montalto, Argentina, San Sisto, Vaccarizzo e San Vincenzo. In seguito edificarono una loro propria città cinta da mura nella località di Guardia che venne conosciuta con il nome di Guardia dei Valdi, poi di Guardia Lombarda e infine come Guardia Piemontese. I valdesi erano apprezzati dai signori del posto. Erano pacifici e operosi agricoltori, pastori, allevatori di piccoli animali e tessitori. Vivevano la loro fede religiosa leggendo la Bibbia e pregando in occitano nell’interno delle loro case. Memori delle stragi avvenute decenni prima in Francia e Piemonte cercavano di dissimulare la loro religione. Aderivano almeno esteriormente ad alcune pratiche della Chiesa Cattolica, manifestando quello che in seguito Calvino definì il “nicodemismo”, termine derivato da Nicodemo, il fariseo che secondo i Vangeli di notte andava di nascosto ad ascoltare Gesù, mentre di giorno simulava una piena adesione alle tradizioni ebraiche. Le cose cambiarono radicalmente quando, nel 1532, le comunità valdesi del Nord decisero di aderire alla Riforma protestante. Alcuni predicatori provenienti da Ginevra incoraggiarono i valdesi di Calabria a praticare apertamente la loro religione. Essi costruirono una chiesa e cominciarono a parlare ad altri di quanto avevano appreso dalla lettura della Bibbia.

L’Inquisizione cattolica diretta da Michele Ghisleri (al secolo Antonio, divenuto poi papa San Pio V) si mise in moto inviando in Calabria i suoi rappresentanti per debellare la setta e costringere all’abiura gli eretici. Le disposizioni alle quali si dovevano sottoporre i valdesi erano durissime. Il Sant’Uffizio vietò loro di riunirsi in più di sei persone; non potevano parlare la loro lingua, l’occitano, ma utilizzare quella parlata localmente; dovevano ascoltare la messa ogni mattina; i bambini dai cinque anni in poi dovevano essere istruiti nella dottrina cattolica; furono obbligati alle pratiche della confessione e della comunione e all’ascolto delle prediche; era fatto divieto di intrattenere rapporti epistolari senza l’autorizzazione dell’Inquisizione; erano vietati i viaggi in Piemonte e a Ginevra e i loro eventuali figli là residenti erano tenuti a rientrare in Calabria, abiurando se eretici; fu imposto di non sposarsi tra di loro; dovettero demolire e non più ricostruire le case che avevano ospitato i predicatori; gli eretici pentiti dovevano indossare un abito giallo. Alcuni valdesi cercarono asilo a Ginevra e nelle valli piemontesi; altri si diedero alla macchia; la stragrande maggioranza rimase nei loro paesi non immaginando quanto sanguinaria potesse essere l’Inquisizione Romana. Non sortendo i risultati sperati il Sant’Uffizio intimò ai governatori locali di passare alle vie di fatto mettendo a morte chi praticava la religione eretica. Dopo una serie di distruzioni, razzie, violenze ed eccidi nei paesi vicini la repressione ebbe il suo culmine con l’occupazione mediante l’inganno di Guardia Piemontese il 5 giugno del 1561. La soldataglia cattolica si diede al massacro di uomini e donne, vecchi e bambini. Molti valdesi vennero squartati e appesi a decine ad alberi e pali lungo la strada che collega la Calabria alla Basilicata per servire da monito a quanti avessero osato mettere in discussione i dogmi della Chiesa Cattolica. Altri subirono un processo farsa e vennero messi al rogo in varie piazze del Meridione. Reminescenza di questa strage è piazza dei Valdesi a Cosenza. Le vittime furono migliaia. Chi scampò alla strage fu condannato a remare sulle galee; altri vennero venduti come schiavi; gli orfani inviati in istituti cattolici per esservi “rieducati”; i pochi rimasti nei paesi che un tempo avevano edificato e abitato liberamente furono costretti a una vita di umiliazioni e vessazioni da parte del clero cattolico. A Guardia Piemontese si insediarono prima i Gesuiti e poi i Domenicani che oltre a ripristinare tutte le summenzionate disposizioni dell’Inquisizione imposero ai sopravvissuti di praticare nella porta delle loro abitazioni uno sportellino apribile solo dall’esterno. In questo modo gli inquisitori potevano verificare in qualsiasi ora del giorno o della notte se coloro che avevano abiurato non praticassero di nascosto la loro fede eretica imperniata sulla lettura della Bibbia. Chi oggi percorre le stradine di Guardia può ancora vedere diverse porte delle vecchie abitazioni con questo caratteristico spioncino. La terribile repressione fece scomparire totalmente dalla Calabria la fede valdese. È rimasta memoria di quei pacifici credenti sterminati in nome di Dio nella lingua occitana parlata dai guardioli e negli abiti tradizionali delle donne del posto.

 

Gli Arbereshe;

Gli Arbëreshë sono una minoranza etnico-linguistica della Calabria originaria dell’Albania e della Grecia, arrivati in regione tra il XV ed il XVIII secolo per sfuggire all’invasione ottomana delle loro terre di origine. Gli Arbëreshë della Calabria rappresentano la popolazione più numerosa tra quelle stanziate in Italia, in molti casi mantengono ancora la lingua, gli usi e la religione dei loro antenati. Le popolazioni di etnia albanese originarie del sud dell’Albania e dal nord della Grecia iniziarono a muoversi verso l’allora Regno di Napoli dopo l’invasione delle loro terre natie ad opera dell’Impero Turco, subito dopo lo sgretolamento dell’Impero Bizantino. I primi profughi giunsero sul finire del XIV secolo, ma la prima vera migrazione di massa avvenne verso la metà del XV secolo.

I primi coloni si insediarono nei territori donati da Alfonso d’Aragona dislocati nell’attuale Provincia di Catanzaro, per l’aiuto prestato da Giorgio Castriota Scanderbeg e le sue milizie nel sopprimere la congiura dei baroni del 1448. La lingua parlata dagli Arbëreshë della Calabria è una varietà dell’antico tosco, un dialetto del sud dell’Albania detto Arbërisht, misto a vocaboli italici assimilati nei cinque secoli di permanenza in regione. Attualmente, si ritiene che solo il 45% dei vocaboli della lingua Arbëreshë sia di origine albanese. La lingua e l’accento Arbëreshë non sono presenti in tutti i centri italo-albanesi della Calabria, in quanto, essendo le comunità dislocate in modo non omogeneo in regione, spesso circondate da “comunità italiche”, hanno effettuato un percorso storico-integrativo diverso da un’area all’altra. Alcuni paesi, come Lungro, Acquaformosa, Civita e Frascineto, ancora parlano la lingua di origine; in altri centri, come Mongrassano, Cervicati, Cerzeto, Falconara Albanese, è quasi del tutto scomparsa.

(fonte: https://www.calabriaportal.com/popoli-della-calabria/4633-arbereshe.html)

 

I Greci di Calabria;

Capitolo a parte, ma nel contempo importante sono i “Grecanici” una delle tre minoranze linguistiche presenti in Calabria, discendenti dei primi coloni greci giunti in regione a partire dal VIII secolo a.C. L’area grecanica calabrese si estende da Capo Zefirio fino alle porte della città di Reggio Calabria, interessando il lembo più meridionale della regione. I primi insediamenti di popoli provenienti dalla Grecia si registrarono in Calabria già in epoca Micenea, ma fu solo con la massiccia migrazione iniziata nei primi anni dell’ VIII secolo a.C. che la presenza greca divenne imponente, soprattutto lungo le coste. In Calabria, i coloni greci svilupparono una civiltà che all’epoca non aveva eguali in tutto il mondo occidentale, tanto da essere denominata Megale Hellas, quella che conosciamo come Magna Grecia. La Calabria fu la principale regione in cui avvenne questo cambiamento, le più importanti città, fondatrici a loro volta di altre colonie nel resto d’Italia, erano quasi tutte situate lungo le attuali coste calabresi: Sybaris, Kroton, Locri Epizefiri, Rhegion, Kaulon, Medma, Hipponion etc.

La parabola greca iniziò a declinare quando le città iniziarono a scontrarsi tra di loro, indebolendo il loro sistema difensivo ed economico; ricevendo, infine, il colpo di grazia con l’arrivo in regione degli agguerriti Lucani e Brettii prima e, successivamente, dei Romani. Per uno “strano scherzo del destino”, i Romani, che con la loro supremazia militare e politica avevano quasi cancellato il mondo greco dall’Italia, furono gli stessi che a partire dal VI secolo d.C. riportarono l’ellenizzazione. Questa volta i Romani vennero da oriente, quelli che conosciamo come Bizantini e, a partire dal 535, con lo sbarco di Belisario in Sicilia, iniziarono una lunga guerra contro gli Ostrogoti, terminata nel 553 con la sconfitta dei germani. Il loro dominio in Italia, soprattutto in Calabria, durò fino al 1059, quando i Normanni, con la conquista di Reggio, li cacciarono per sempre dall’Italia. Il nuovo dominio greco in Calabria, anche se a fasi alterne e in continua lotta con Arabi e Longobardi, durò 506 anni. Furono proprio loro, i Bizantini, a partire dal VII secolo a sostituire l’antico nome Bruttium (leggi Bruzium), dato dai romani, con Calabria, traslandolo dal Salento. Nonostante il mondo greco in Italia terminò nel 1059, la lingua e molti tratti della cultura è arrivata fino ai giorni nostri. Il rito ortodosso, a Bova (RC), fu soppresso solo nel XVI secolo; questo, grazie all’impervio territorio reggino che ha protetto i grecofoni nei secoli, rifugiatisi sulle alture dell’Aspromonte per sfuggire alle scorrerie saracene, prima, e turche, poi.

 

RINGRAZIAMENTI:

Un ringraziamento alle fonti, che ci hanno permesso una ricostruzione sintetica, ma nel contempo approfondita, della storia della Calabria dei suoi popoli e delle sue genti.

Il progetto è stato realizzato con il supporto dei Volontari del Servizio Civile Universale della Pro Loco di Brancaleone.

Ogni immagine presente in questo articolo è a titolo illustrativo, si ringraziano gli autori delle immagini.

Casalinuovo di Africo (RC)- Tra Cronaca e Storia

Casalnuovo (o Casalinuovo) è una frazione del Comune di Africo in provincia di Reggio Calabria. I suoi abitanti, che anticamente venivano chiamati “Tignanisi”, Il paese, che è stato costruito a 737 metri sul livello del mare, oggi disabitato, è situato su una rupe, nei pressi di Africo, alla destra del torrente Apòscipo. Lo si può raggiungere seguendo lo stesso itinerario per andare ad Africo fino ad un bivio dopo i Campi di Bova (Monte Lestì o Grosso).

Pur seguendo le vicissitudini storiche, sociali e umane di Africo e di Casalnuovo si trovano segni distintivi in resoconti di alcuni storici le cui testimonianze si trovano sia nel libro “Africo” di Corrado Stajano che nel libro “Africo dalle origini ai nostri giorni – Una storia millenaria”  di Bruno Palamara. Le cronache, nel seicento, parlano di un casale di Africo nel territorio di Bova; nel Settecento accennano a un gruppo di monaci orientali che a Casalnuovo di Africo professavano il proprio rito e poi lo abbandonarono si stabilirono dapprima in Sicilia, poi in Calabria. La provincia di Reggio, fin dall’ VIII secolo era caratterizzata dalla massiccia presenza di monasteri basiliani. Questi monaci, come sappiamo vivevano in  isolati sulle montagne dell’Aspromonte, lontano dai centri abitati, erano dediti alla preghiera, agli studi religiosi, alla copiatura e traduzione di manoscritti biblici.
Lo storico Fiore riporta nella sua “Della Calabria illustrata” un documento che ricorda che “Nel concedimento fattone dal Re Roberto a Niccolò Ruffo nell’anno 1328, vedo notati per i suoi villaggi Motta Bruzzano o Motticella, il Salvatore o Casalnuovo e Ferruzzano”.


Secondo A. Oppedisano, nel 1629 il Principe di Roccella costruisce a Casalnuovo la chiesa del SS. Salvatore, eretta prima ad oratorio, poi con la bolla del Vescovo Barisani del 4 dicembre 1798 elevata a chiesa parrocchiale.
Verso la fine del 1700 Casalnuovo, che praticava l’allevamento del baco da seta, contava 600 abitanti. Si ricorda anche che, nel 700, “un gruppo di monaci greci a Casalnuovo e ad Africo professavano il proprio rito che poi abbandonarono”. Le tracce dell’origine greca si conservano tutt’oggi nella parlata, tuttavia corrotta dalla modernità.

Lorenzo Giustiniani nel 1797 così descrive Casalnuovo: “Villagio in Calabria ulteriore in diocesi di Gerace, dalla quale città si è lontano miglia 32 circa. Egli è abitato da circa 600 individui tutti addetti all’agricoltura e alla pastorizia. Dal territorio raccolgono tutti i generi di prima necessità ed hanno similmente l’industria dei bachi da seta. La sua situazione è tra monti di aria mediocre. Si appartiene in feudo alla famiglia Caraffa, de’ principi di Roccella”. Nella parte opposta di Africo, e questa è la tesi di Costantino Romeo “Una squadra di pastori fondò molti secoli fa un altro paesello di nome Tignano, anzi gli anziani dicevano che combatterono contro gli arabi”. Dal nome Tignano nacque, secondo il Romeo, il termine “tignanisi” dato agli abitanti di Casalnuovo, che si conservò fino alla fine degli anni ‘60 del secolo scorso.


I terremoti del 1905 e del 1908 danneggiarono gravemente la chiesa insieme a gran parte del paese. Di seguito la chiesa sarà ricostruita ex novo. Da altre fonti citate dal Palamara si desumono le seguenti altre notizie: “Il suo nome cambiò parecchie volte, passando da Casalnuovo a Casalnuovo d’Africo a Salvatore, a seconda dell’appartenenza al comune capoluogo di Bruzzano prima e Africo poi.

Nel 1815 Casalnuovo si stacca da Bruzzano per essere aggregato definitivamente ad Africo che, con l’accorpamento di Casalnuovo, raggiunge una popolazione di 1726 abitanti. Nel 1830, ci ricorda A. Oppedisano, il Vescovo di Gerace si interessa per far elevare Casalnuovo a comune autonomo smembrandolo da Africo; richiesta che non viene accolta perché… la popolazione della frazione non supera i mille abitanti.


Come Africo, anche Casalnuovo è stato gravemente danneggiato dall’alluvione che avvenne dal 15 al 20 ottobre del 1951, in cui morirono sei persone;  e poi, definitivamente, da quella, meno grave, del 1953. Le persone che hanno vissuto quel periodo, raccontano il susseguirsi delle piogge continue e lente che provocarono frane e trasportando a valle valanghe di detriti, fango e pietre dalle montagne adiacenti.

(FONTI: https://www.giuseppemorabito.it/casalnuovo.html )

 

LA RIFLESSIONE:

Casalinuovo, rappresenta tristemente quella parentesi mai interrotta dei centri interni dell’Asprmonte, abbandonati per necessità, per l’evolversi (o l’involversi dei tempi), per l’inerzia politica d’un tempo, che li ha fatto morire. Ed è utile oggi come oggi, tornare ad osservare, a contemplare quei resti che solitari e fragili rimangono a guardare il viandante che s’interroga su come sia potuto accadere che un popolo abbandoni per sempre le loro case.

Questi interrogativi servono e serviranno ad interrogarsi sul futuro, sulla nostra capacità di ascoltare e capire la storia di un passato non molto lontano, che ci ha attraversato velocemente e che attende una decelerazione sul contesto della conservazione del nostro patrimonio storico e culturale.

E’ sempre affascinante tornare a Casalinuovo, cogliere nel volto dei pastori quel senso di inquietudine e di estraneità al mondo contemporaneo. Bisognerebbe tornare spesso in questi luoghi, per resettare i nostri pensieri, riabituarci alla lentezza e al programmare il nostro futuro che appartiene alla montagna.

© Carmine Verduci

 

 

Figli di un tempo da ricordare; Gaetano Filastò, eroe Calabrese della prima guerra mondiale

Che cosa potrebbe accomunare Loquizza, località del Carso che non rientra più nemmeno tra i confini nazionali, e Santo Stefano in Aspromonte? Ancor di più, a distanza di un secolo, cosa può accomunare il meridione d’Italia ed in particolar modo la provincia di Reggio di Calabria con la Slovenia? Proviamo a scoprirlo assieme, compiendo un piccolo viaggio nel tempo, dai giorni nostri a quelli del 1915-1916.

Chi visita oggi, il Paese di Santo Stefano in Aspromonte, può tranquillamente imbattersi nell’Asilo per l’Infanzia “Filastò”, recante tuttora una lapide tutelata dalla Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio della Calabria, ove sono riportati i Caduti durante il primo conflitto mondiale. L’opera, progettata da Marcello Piacentini nel 1927, (figura che poteva considerarsi come una “archistar” dei giorni nostri), nasce con una duplice funzione: utilitaria, come sede dell’asilo per l’infanzia e della biblioteca ma anche commemorativa, per ricordare i caduti durante il primo conflitto mondiale. L’edificio, ci ricorda il sito della Soprintendenza calabrese, “inaugurato nel 1932 è dedicato a Gaetano Filastò, caduto sul Carso nel 1916” (1).

Alcune figure meritano di essere sottratte all’oblio dopo decenni, sopratutto quando esse sentivano, tra fortissime emozioni, il dovere di compiere sino in fondo la propria missione.

Il 14 ottobre 1916, nel Vallone di Doberdò, una granata austriaca uccideva il caporal maggiore Gaetano Filastò del 20° Fanteria. Era un maestro elementare, figlio di Calabria. Non aveva voluto rinunziare, durante il suo lungo servizio di guerra, alle modeste funzioni di aiuto di sanità per diventare ufficiale. Egli aveva un’intima ripugnanza per la violenza e il sangue: ma fautore convinto dell’intervento italiano nel primo conflitto mondiale e fautore di una guerra restauratrice del diritto violato, aveva cercato di conciliare i contrastanti sentimenti in un servizio che gli facesse correre ogni rischio, consentendogli insieme d’esplicare la sua opera per salvare vite umane. Aveva una mente illuministica, comune a molti maestri dell’epoca: forse un po’ angusta, ma sincera. Credeva profondamente e fervidamente a ciò che per molti altri non era se non un pretesto oratorio: al diritto dei popoli, alla missione italiana di concorrere a un più civile consorzio tra le nazioni, al dovere d’un supremo sforzo per uccidere, sia pure con la guerra, il conflitto stesso, spezzando la brutalità tedesca e schiudendo agli uomini una più degna vita.

Fra un’azione e l’altra il Filastò segnava brevi appunti e osservazioni, che sviluppava nei periodi di riposo e di licenza, inviandoli poi al fratello. Da queste pagine, scaturì l’abbozzo di un diario (2), che la pietà dei congiunti pubblicò poco dopo la morte del Filastò, e la censura di guerra, non molto più intelligente di altre, mutilò nei punti più significativi. Lo stile è spesso incerto: echi letterari – vivissimi quelli di Giuseppe Cesare Abba – spesso perturbano l’immediatezza dell’impressione. Eppure, nonostante questa insufficienza artistica, ben pochi documenti rendono con tanta efficacia la parabola della grande guerra sul fronte italiano.

Le prime notazioni hanno dell’ottocentesco: alcuni episodi del primo inizio di guerra trasportano mezzo secolo indietro: alle battaglie di Magenta e di San Martino. Si vive un sogno di fresco impeto militare, anche laddove la scena è di morte, come nell’episodio dei bersaglieri feriti.

«(20 giugno ’15). Una compagnia di bersaglieri ciclisti attraversava il campo di pieno giorno per recarsi presso Lucinico. Viene scoperta e fatta bersaglio dell’artiglieria nemica del monte San Michele. In breve tempo arrivano al nostro posto di medicazione parecchi feriti più o meno gravi. Fra gli altri il capitano della compagnia, Luigi Pastore, ferito gravemente al capo e alla gamba destra. Egli è sereno, parla delle sue ferite come non gli appartengano, segnalando al medico i disturbi che avverte. Io gli lavo a poco a poco con una specie di religioso rispetto il sangue aggrumito sul viso, ed egli con voce bassa, senza alcuna preoccupazione, continua a discorrere, manifestando i suoi ultimi desiderii. Intanto accanto a lui giacciono altri bersaglieri feriti, i quali, avuta la medicazione, si mettono tranquillamente a fumare con stoicismo ammirevole. Un sottotenente si guarda sorridendo il berretto forato e non vuol neppure medicarsi la leggiera ferita che ha sulla spalla. Saluta il capitano e va a radunare la compagnia. In un altro cantuccio del cortile vi è un bersagliere ferito all’addome, e soffre atrocemente, e di tanto in tanto emette un grido che fa pietà. Il capitano che mi guarda con occhio dolce e fermo, mentre gli pulisco il viso, mi domanda: “chi è che grida così? E’ un bersagliere?” “Signorsì, è un bersagliere ferito all’addome”. “Ditegli che i bersaglieri non gridano mai, anche quando soffrono dolori atroci”. Il bersagliere che ha già smunte le labbra, sente le parole del suo capitano, mormora: “Ha ragione!”, e poi tace per morire in silenzio».

La descrizione del combattimento di Bosco Cappuccio riporta una letizia ariosa: sembra che la vittoria debba sboccare dal bosco in più vaste regioni.

«(18 luglio ’15). Il rombo assordante dei grossi pezzi, lo schianto fragoroso delle batterie da campagna sparse nel piano, e quelle da montagna nascoste nella vicina foresta mi fanno l’effetto d’una tempesta infernale. Questo accanimento di tuoni, di sibili, che straziano e sconvolgono l’atmosfera, questa immensa e fitta rete di proiettili che passano rapidi e leggieri sul mio capo, fischiando, abbiano, ululano, è qualcosa che rasenta il sovrannaturale».

Certamente, anche in quei primi giorni si prova la trepidazione per la vita, ma essa ha il sapore del sacro, di un’offerta.

«(15 giugno ’15). Ormai non vi è più alcuno di noi che pensi di poter risparmiare la vita, e l’avvicinarsi dell’ora solenne – quando la morte non giunge improvvisa – produce nell’animo una visione sublime “che intender non può chi non la prova”, e che io stesso, avendola provata, non riesco ad esprimere».

Vi sono i momenti egoistici: ma l’ora dei combattimenti li cancella.

«(14 luglio ’15). Nei giorni di riposo, quando per poco si dimentica il luogo dove ci si trova, e il pensiero ritorna tutto agli amici più cari, ai parenti più affettuosi, che si amano di più appunto perché più lontani, quando si pensa che qualcuno ci attende e sarà tanto più felice di abbracciarci dopo tanto soffrire e che nessuna gioia può uguagliare quella di un ritorno vittorioso, allora un’idea d’egoismo invade la mente: quella di conservarsi per godere la gioia suprema. Ma è un’idea che sparisce subito quando si entra in azione. Allora non si vuole altro che correre vittoriosi attraverso l’uragano di ferro e di fuoco che si scatena dalle due parti».

L’orrore della guerra tuttavia, non tarda a rivelarsi all’aiutante di sanità.

«(29 luglio ’15). Ad onta dei molti momenti di entusiasmo avuti durante la battaglia, non si può non riconoscere che la guerra è la più grande iattura che affligga l’umanità. Ed io mi compiaccio che in mezzo a tante brutture sia stato chiamato a compiere un servizio umanitario, che, se non procura nessun onore, dà però la grandissima soddisfazione di avere esposta la propria vita – e lo so io come! – non per l’altrui rovina ma per la salvezza altrui. Ciò non vuol dire che io abbia cambiato opinione sull’opportunità della guerra. Speriamo che vada tutto bene! (censura)».

Alla visione del dolore, cominciava poi ad affrancarsi il pensiero dei morti. Ed è a questo punto che per il Filastò, iniziava una lotta interiore per salvare la sua fede, perché «cessato il primo entusiasmo ci vuole una bella forza morale per persistere nelle aspirazioni che si sono avute», e si sdegna per il ritardo posto dall’Italia nel dichiarar guerra alla Germania, biasimando Antonio Salandra sul “sacro egoismo”. Solo la redenzione della guerra poteva per lui giustificare il massacro in atto: «impedire che domani possa risorgere la guerra crudele e feroce, e sulle libere nazionalità si riversi l’incubo della tirannide teutonica». Pia illusione quella del maestro calabrese, che non avrebbe potuto vedere la nuova tirannide tedesca della Germania hitleriana a distanza di poco più di vent’anni d’anni dal termine della prima guerra mondiale.

Tra le trincee alle pendici del Monte San Michele, il tempo scorreva orrido di sofferenze e tormenti. L’estate del 1916, si apriva con l’orrore dell’offensiva dei gas asfissianti a San Martino del Carso, luogo reso immortale dal poeta Ungaretti, e il Filastò vedeva le stragi dai posti di medicazione. Dopo l’espugnazione di Gorizia, nell’agosto del 1916, il maestro elementare calabrese era ormai logoro. Tra i pochissimi superstiti del suo reggimento dall’entrata in guerra, attendeva con triste rassegnazione il suo turno. Scriveva al fratello:

«(27 agosto ’16). Il mio astro tramonta prima del meriggio… Bisogna rinunziare anche alla speranza di sopravvivere e ritenersi destinati dalla sorte a buttare la nostra esistenza nella fucina degli eventi. Io allora mi sento più tranquillo, quando rinunzio a tutto ciò che mi appartiene, quando nemmeno penso che in altri luoghi ho dei parenti che trepidano per la mia sorte. Mi piace, o, per meglio dire, mi fa comodo considerarmi solo al mondo, nato, cresciuto, destinato dalla sorte ad essere consumato né più né meno di come si può consumare una bomba o una cartuccia (…). Ora io vorrei, sì, vivere e migliorare me stesso. Vorrei poter levare da me tutte le scorie e ricomparire la mondo in una veste nuova e verginale; vorrei tentare l’accesso per vie più ampie e più alte.. ma ora cosa vuoi che faccia, cosa vuoi che pensi? Vuoi che mi tormenti coi problemi del domani, mentre mi sta dinanzi l’enorme punto interrogativo del Destino?».

La sua lettera testamento, scritta un anno prima di questi ultimi eventi (il 21 ottobre del 1915) completa la fisionomia laicamente religiosa del modesto maestro di Calabria.

«…Io non ho mai ancora provata l’ebbrezza dell’assalto, né forse la proverò. Nondimeno io sento l’animo mio appagato da un’intima e serena soddisfazione che mi rende men dura l’idea della morte: la soddisfazione di aver potuto sul campo di battaglia alleviare con la pietosa mano e con la dolce parola del conforto i dolori e gli spasimi di tanti gloriosi feriti e raccogliere con venerazione l’ultima parola di qualche agonizzante.

Che io possa ancora e fino alla vittoria continuare la mia missione pietosa, è l’augurio che io faccio per te, o madre mia, perché tu possa provare l’immensa gioia di riavermi più puro e più bello fra le braccia tue: ma se la sorte m’invita ad una sorte più gloriosa, saprò seguirla con animo sereno (…).

Le istituzioni educative nate dalla mia attività di maestro desidero che siano col continuo interessamento dei parenti e degli amici conservate per sempre in ricordo del bene che volli al mio paese, dell’amore e della fede che io posi nell’adempimento del mio dovere. I miei scolari si ricorderanno di me, non ne dubito».

Indubbiamente la Calabria e la provincia di Reggio, il paese di Santo Stefano in Aspromonte possono essere fieri di un maestro che ha donato tutto se stesso per il prossimo, sacrificando la sua esistenza nelle trincee del Carso. A volte, distrattamente osserviamo o addirittura frequentiamo scuole, asili, istituti intitolati a persone di cui ignoriamo non solo il volto, ma anche la storia. Questa, è quella di Gaetano Filastò, maestro elementare di Calabria, partito idealisticamente col treno da Reggio il 25 maggio 1915 e caduto nel Carso un anno dopo. In un ponte ideale tra Slovenia ed Italia, e tra la Calabria ed il Carso, scopriamo che i destini possono portarci in luoghi lontani da quello natio, pensando sempre a quella missione che ognuno di noi, porta nel cuore.

di Valentino Quintana

(1) http://www.14-18.it/lapide/S112_S243/17/01

(2) Sulla Via di Trieste, diario di guerra di GAETANO FILASTO’, caduto sul Carso il 14 ottobre 1916, Catania, 1918, Cavalier Vincenzo Giannotta Editore.

cosma e damiano riace

Riace dalle origini al culto dei Santi Medici Cosma e Damiano

riaceLe origini di Riace risalgono ad epoca aragonese.Tutto il paese ne rivela l’origine in ciò che resta dell’architettura mista catalano-aragonese, nelle viuzze, negli edifici sacri e nei palazzi privati. In precedenza l’area doveva essere sede ambita dal monachesimo Basilano che pone la preghiera, con l’eremitismo alla base della vita in comune (le regole di San Basilio Il Grande, 330-379 d.C. vescovo di Cesarea dal 370). Quanto alle origini del nome, Riace non si discosta da Monasterace, Gerace, o dai paesi alle falde dell’ Etna come Aci Trezza, Aci Bonaccorsi, Aci Platani, Acireale, Aci Catena ecc.
Non si può attribuire a Riace una origine greca come facente parte del territorio di Kaulon. E` vero che ricade nel territorio della Magna Grecia, ma non esiste alcuna prova dell’esistenza di una località chiamata Riace fino a tutto il periodo normanno (1059-1194), svevo oppure angioino (XIV sec.).

Nell’Agosto del 1972 sui fondali del mare antistante Riace vennero rinvenuti i famosissimi “Bronzi di Riace” . Il rinvenimento “fortuito” avvenne il 16 agosto. Il 21 fu recuperato il Bronzo “A” e l’indomani il “B”. Secondo studi e ricerche facevano parte di un gruppo statuario che rappresentava il momento subito precedente al duello fratricida fra Eteocle e Polinice, fratelli di Antigone, del mito dei Sette a Tebe collegato con quello di Edipo.

 

Il più antico documento in cui è citata Riace e` del 1561, in cui si parla della morte, in odore di santità di Cristoforo Crisostomo, Riacese. Un altro dato sulla datazione di Riace ce la fornisce la campana della Chiesa dell’Assunta, su cui e` riportata la dicitura “Hanc fundere fecit campanam Confraternitas s.mi Sacramenti, A.D. 1596” Sino all’epoca Normanna (nel 1059 Roberto il Guiscardo ebbe il Ducato di Puglia e Calabria; la fine del dominio Normanno si ebbe nel 1194 quando Enrico VI, sposando Costanza di Altavilla, uni` alla corona imperiale anche quella di re di Sicilia) la Calabria Jonica e` sotto l’influsso culturale e artistico della civiltà Bizantina. La sua storia si fonde con quella di Stilo, di cui e` casale, almeno fino al Novembre 1666, data in cui l’autorita` centrale consente ai riacesi di pagare le tasse per proprio conto. La città di Riace era fornita di cinta murarie ed esistevano tre porte per l’accesso: la Porta di Santa Caterina, la Porta di Sant’Anna e la Porta dell’Acqua. Ad otto chilometri dall’abitato sorge la Torre di Casamona, a Riace Marina, per prevenire gli sbarchi dei Pirati turcho-barbareschi. Era costituita da due ampie stanze sovrapposte e da una terrazza merlata, ed era dotata di un cannone. L’esistenza di questa torre e` ampiamente documentata dal 1583, prove ne sono le notifiche per i pagamenti, da parte dell’ Università (un tipo di corporazione medioevale) di Riace, per il personale di guardia della torre, (capitani e cavalieri) notifiche che perdurano sino al 1707. La Torre di Casamona ha svolto una vitale funzione di sorveglianza sulle coste Riacesi per un arco di due secoli. Nel 1640 Riace risulta essere abitata da 400 persone, piu` una in mano ai saraceni!. La zona riacese non ha conosciuto, a differenza della maggior parte dell’ Italia, la civltà feudale. La presenza di miniere di ferro e di argento favorirono l’interesse del governo centrale napoletano a non infeudare il territorio. Di questi benefici godevano anche altre città, come Stilo, o Bivongi. Nonostante ciò, negli anni 1647-48 si ebbero una serie di cruenti episodi, omicidi, saccheggi, dovuti al tentativo di infeudamento di Stilo e dei suoi casali, Riace compresa, perpetrato dal Marchese d’Arena, che con un atto illegale acquisto` il casale di Stilo .Per ribadire il proprio diritto all’appartenenza al Regio Demanio ci fu anche una rivolta popolare, in Stilo, soffocata nel sangue (14 morti tra cui un bimbo di due anni). Del casale di Riace risulto` ucciso il Dott. fisico Giuseppe Politi
Nel 1756 la popolazione era costituita da 508 donne e 493 uomini (1001 persone). Di questi 132 sono coltivatori diretti, 27 massari, un guardiano di pecore, due mugnai, un tiratore di seta; ci sono anche 30 sacerdoti e 18 suore; 8 calzolai, 5 sarti, 3 barbieri, 3 fabbri, uno scalpellino, un indoratore, un servitore, un fabbricatore, un aromatario. L’assistenza medica era assicurata da 3 dottori e 2 farmacisti (speziali). L’assistenza giuridica da un giudice e due notai. Risulta che sei fanciulli fossero “addetti alle lettere”, evidentemente in forma privata, perchè la scuola pubblica ancora non era stata istituita. Nel 1773 fu edificata, in Riace Marina, la Cappella di San Biagio, che e` Monumento Nazionale. Fu eretta per ordine del barone Antonio Gagliardi. Si trova in prossimità della provinciale per Riace Superiore, vicino al passaggio a livello, e attesta che Riace Marina era abitata anche nel XVIII secolo. Nel 1783 ci fu un tremendo terremoto. Si lamento` un morto e 20.000 ducati di danni. Nel 1815 venne istituita la scuola pubblica, più volte soppressa (e ripristinata) per mancanza di scolari. Nel 1818 gli abitanti di Riace erano 1062. Gli uomini 231, le donne 362. I fanciulli erano 231, le fanciulle 208. I preti erano 8. 200 sono i contadini, 100 tra artisti e domestici. Tra disoccupati e mendicanti si contano 80 uomini e 167 donne. Si noti come, nonostante sia zona “riverasca”, e nonostante l’antica tradizione dell’università di Riace di mantenere la Torre di Casamona, non risulti esserci nessun pescatore. Con il crollo dei Borboni, Riace diviene uno dei comuni dell’Italia meridionale. Soffre i problemi del brigantaggio, dei moti reazionari, dell’emigrazione, come tutto il resto del meridione. Unica nota nel 1972 vengono ripescati in mare, di fronte alla località “Agranci” due capolavori della scultura ellenistica, i Bronzi di Riace, che hanno portato il nome della città a fama mondiale.

RIACE TRADIZIONE E DEVOZIONE

Una delle feste più sentite che caratterizza Riace è sicuramente la festa dei Santi Medici Cosma e Damiano. Le origini della festa risalgono al 1669, anno in cui sono arrivate da Roma, in dono al santuario, le reliquie dei due santi martiri dell’Oriente, mentre soltanto nel 1734 sono stati proclamati Patroni del paese. Solamente agli inizi del XIX secolo le reliquie sono state trasferite nella chiesa Matrice di Santa Maria Assunta e sistemate in un apposito braccio d’argento per far ritorno al santuario unitamente ai santi nei giorni di festa. Per la Festa dei Santi Medici vi è, ancora, una grande affluenza di fedeli delle comunità Rom e Sinti devoti dei santi medici considerati loro protettori e le cui radici sono molto antiche e profonde. Arrivano da tutta la Calabria i gitani per onorare, anche, il Beato Zeferino Giménez Malla, detto “El Pelé” (1861-1936).

CHI E’ ZEFERINO GIMENEZ MALLA?!

È un analfabeta, che si porta dietro il marchio indelebile di essere un gitano, cioè uno zingaro, “malgrado” il quale è stato elevato alla gloria degli altari. Forse, a dire il vero, più in conseguenza della morte che ha subito, che non della sua dirittura morale e della sua integrità di vita, anche se queste, da sole, già gli avrebbero meritato una corona di gloria. Ceferino Jiménez Malla nasce in Spagna nel 1861, non si sa bene dove e neppure precisamente quando, e fin da bambino conosce la precarietà della vita nomade e la povertà autentica. Fa il panieraio, tesse cioè ceste e canestri, che poi vende di villaggio in villaggio, ma le bocche da sfamare sono tante, anche perché papà ha pensato bene di andar a vivere con un’altra donna, lasciando la prima famiglia nell’autentica indigenza. A 18 anni è già sposato alla maniera gitana con Teresa Jiménez: un matrimonio felice, anche se privo di figli, che durerà più di 40 anni. Le testimonianze concordano: le condizioni di estrema povertà non riescono a fare di lui un ladro o un approfittatore. L’onestà che gli viene da tutti riconosciuta finisce per procurargli un’autorevolezza, una superiorità morale grazie alla quale acquista un ruolo di “capo” dei gitani di Barbastro e del circondario: gli chiedono consigli e lo fanno intervenire da paciere nelle liti famigliari, nelle controversie tra gitani e addirittura nelle dispute tra questi e le persone del luogo. La svolta economica della sua vita avviene per un atto di generosità: un giorno si carica sulle spalle e riporta a casa, incurante del pericolo di contagio, un ricco possidente di Barbastro, malato di tubercolosi, svenuto per strada a causa di uno sbocco di sangue. La famiglia di questi lo ricompensa con una forte somma, con la quale Zeffirino, da tutti soprannominato “El Pelè”, intraprende un redditizio commercio di muli che gli fa raggiungere un invidiabile livello di benessere. Anche nel commercio e nell’ improvvisa agiatezza si rivela però limpido ed onesto, fino allo scrupolo: chi acquista da lui sa che non avrà sorprese, perché gli eventuali difetti delle sue bestie sono messi ben in evidenza, non ammettendo frodi neppure dagli altri gitani. Eppure, un uomo così viene un giorno incarcerato perché due animali che ha comprato si sono rivelati rubati: elemento più che sufficiente per accusarlo di ricettazione o perlomeno di incauto acquisto. Pesano sul suo arresto e sul processo, certamente, la sua origine gitana ed il pregiudizio razziale che fa di ogni zingaro un potenziale disonesto. Assolto per aver dimostrato la sua buona fede e la sua completa estraneità al furto, il Pelè continua la sua redditizia attività commerciale, nonostante la quale si riduce in povertà: ha infatti le mani bucate perchè soccorre chiunque è nel bisogno ed aiuta i poveri, il più delle volte di nascosto dalla moglie che non condivide questa sua prodigalità. Prima di tutto, però, il Pelè è un cristiano convinto, che della sua fede non fa mistero: sempre con la corona del rosario in mano, attivissimo nelle associazioni religiose, impegnato nell’ adorazione notturna e nella San Vincenzo, dalla messa e dalla comunione quotidiana soprattutto da quando, regolarizzando la sua posizione anche con il matrimonio religioso, ha potuto accostarsi ai sacramenti. La rivoluzione del 1936 che scatena l’odio antireligioso, non riesce a fargli mutare minimamente la sua coraggiosa professione di fede: difatti lo arrestano nel mese di luglio, perché ha difeso un prete e perché in tasca gli han trovato la corona del rosario. Che non posa più, neppure quando amici influenti gli promettono l’immediata scarcerazione se soltanto evita di farsi vedere con la corona in mano. Lo fucilano ai primi di agosto, ancora e sempre con il rosario in bella vista, insieme al suo vescovo con il quale è stato beatificato da Giovanni Paolo II nel 1997, primo e finora unico zingaro ad essere portato sugli altari.

I SANTI COSMA E DAMIANO;

Secondo la tradizione Cosma e Damiano sono due fratelli di origine Siriana, due medici che erano detti “Santi Anàrgiri” (nemici del denaro), con questo termine sono passati alla storia, perché prestavano con assoluto disinteresse la loro opera sia ai ricchi che ai poveri, in applicazione del precetto evangelico: “Gratis accepistis, gratis date”. Inoltre, alcune scritture parlano di un loro farmaco chiamato ‘Epopira’. Sono nominati nel canone della messa e designati dalla chiesa Patroni dei medici, dei chirurghi, dei dentisti e dei farmacisti. Vissero in tempi assai difficili per il cristianesimo. Non a caso sotto l’impero di Massimiano e di Diocleziano, tra il 286 e il 305 d. Cr. si ebbero le maggiori repressioni e persecuzioni dovute al rifiuto da parte dei cristiani del paganesimo imperante e del culto dell’imperatore. In esecuzione dell’editto del 23 febbraio 303 i SS. Martiri Medici Cosma e Damiano furono arrestati con l’accusa di professare un credo religioso vietato ed il relativo processo si svolse al cospetto di Lisia, prefetto romano della Cilicia. Il loro primo biografo, il saggio Teodoreto, alla guida dell’episcopato di Ciro, dall’anno 440 al 458, ebbe a definirli ‘illustri atleti di Cristo e generosissimi martiri’. In questo luogo, sulla loro tomba, venne costruita la prima chiesa votiva, meta incessante di pellegrinaggi per venerarvi le sacre reliquie ed implorare la loro intercessione. Il Dioscoro Gentile che da pagano diviene cristiano. Egli si rivolge a Castore e Polluce, divinità greche preposte alla guarigione e li invoca per ottenere una guarigione, questi lo invitano ad avvicinarsi dicendogli, «noi non siamo quelli che tu invochi, ma siamo Cosma e Damiano».

Secondo il Martirologio Romano, erano fratelli e compagni non solo di sangue, ma anche di fede e di martirio. Studiarono assieme medicina in Siria e salirono ben presto a grande fama per la loro valentia nel curare i malati. Forse erano arabi di nascita, ma assai per tempo ricevettero un’ educazione cristiana veramente ammirabile. Animati da vero spirito di fede e di carità si servirono della loro arte per curare sia i corpi sia le anime con l’esempio e con la parola. Riuscirono a convertire al cristianesimo molti pagani . Si portavano in fretta presso chiunque li richiedesse rifiutando ogni compenso, contenti di poter per mezzo della loro arte esercitare un po’ di apostolato. In questo modo si attirarono amore e stima non solo dai cristiani, ma anche dagli stessi infedeli. Venivano da tutti soprannominati “Anàrgiri” (dal greco anargyroi, parola greca che significa “senza denaro”), proprio perché non si facevano pagare per la cura dei malati.

 

IL MARTIRIO DI COSMA E DAMIANO;

Mentre essi compivano tanto bene, ecco scoppiare la persecuzione di Diocleziano. I santi Cosma e Damiano si trovavano in quel tempo ad Egea di Cilicia, in Asia Minore. Così circa l’anno 300 i santi medici si videro arrestati e tradotti davanti al tribunale di Lisia, governatore della Cilicia. «Ho l’ordine, dice il proconsole, di far ricerca dei cristiani, punire quelli che resistono e premiare quelli che si sottomettono alle leggi dell’impero. Voi siete accusati di appartenere alla setta… Scegliete ». « La scelta è fatta, risposero i santi fratelli, siamo cristiani e come tali siamo pronti a morire ».

« Riflettete bene, soggiunse Lisia, perché si tratta di vita o di morte, non potendo, né dovendo io tollerare una ribellione alle leggi ». « Noi rispettiamo come gli altri le leggi civili, ma nessuna legge ci può costringere ad inchinarci ai vostri dei di fango; noi adoriamo il Dio vivo e ci inchiniamo a Gesù Cristo Salvatore ». Lisia sdegnato ordinò che fossero legati e flagellati. Dopo questo primo tormento, persistendo i Santi nel loro fermo proposito, ordinò che fossero gettati in mare. L’ ordine fu all’ istante, mentre una grande turba di cristiani piangeva dirottamente. Il Signore venne in loro soccorso: le onde li spinsero fino alla riva e così poterono salvarsi. A tal vista il popolo gridò : « Siano salvi i nostri medici; si rispettino quelli che il mare stesso rispetta ». Purtroppo tutte queste grida furono vane: il proconsole li voleva assolutamente morti, perciò li fece gettare in una fornace ardente. Liberati miracolosamente dal Signore, dopo altri vari tormenti, furono fatti decapitare a Egea probabilmente nel 303. Sul loro sepolcro si moltiplicarono i miracoli: lo stesso imperatore Giustiniano, raccomandatosi alla intercessione di questi santi medici, fu guarito da mortale malattia e per riconoscenza fece erigere in loro onore una sontuosa basilica.

In loro onore Papa Felice IV (525-530) fece costruire a Roma una chiesa, decorata di mosaici stupendi. I resti dei santi martiri sono custoditi nel pozzetto dell’antico altare situato nella cripta dei Ss. Cosma e Damiano in Via Sacra, dove li depose S. Gregorio Magno (590-604). Vivo il loro culto in Oriente in Occidente, dove numerose chiese e monasteri di epoche diverse sono intitolate ai santi martiri “guaritori”.

 

By Carmine Verduci

il terremoto del 1783

Il grande terremoto del 1783 attraverso i documenti.

Il terremoto del 1783 fu una delle più gravi crisi sismiche della Calabria che colpì con violenza ogni città, ogni villaggio, ogni zona montuosa, collinare, costiera o pianeggiante della calabria. Un sisma che ebbe una durata davvero significativa, con 11 mesi di scosse continue e magnitudo considerevoli se pensiamo che registrò scosse comprese fra il 10°  e 11° grado della “scala Mercalli”.

Con questo articolo racconteremo uno stralcio di cronaca e più precisamente ci si concentrerà sul territorio di Bagnara, Scilla, Reggio Calabria, Palmi e Seminara (per citarne alcuni). Uno spaccato di storia che ancora vive attraverso la cronaca dei documenti antichi, che ne descrivono scenari inquietanti, arricchiti di particolari che ancora oggi fanno venire i brividi.

 Il Presagio:

I segnali premonitori da una Natura inquieta. Ma cosa stava per accadere nel Canale di Sicilia ? E’ sufficiente richiamare qualche episodio per rendersi conto della situazione.

Dopo un fine Inverno freddo e ventoso, ai primi di Maggio del 1782, l’aria sul Canale cominciò a stabilizzarsi verso una calma totale. Non una nuvola e alito di vento per tutta l’estate. La siccità s’impadronì di boschi e colture e durante gli assolati pomeriggi di luglio e agosto, cominciarono a manifestarsi autocombustioni; bruciavano ampie zone delle colline sistemate a vite che da Bagnara salivano verso Solano e Seminara, le costiere di Scilla e Palmi. Chi usciva durante le ore assolate, veniva investito da folate di afa rovente e avvertiva pesantezza nel camminare, quasi che l’aria fosse di consistente spessore e s’opponesse allo sforzo d’incedere. Linee di calore,quasi delle lingue di fuoco, salivano con alternante continuità verso i paesi delle Serre, fino a oltre Tiriolo.

Fra la fine di Settembre e l’inizio di Ottobre, brezze fresche cominciarono a incunearsi nella secca di calore che attanagliava la Calabria meridionale. Il mare del Canale s’andava increspando per vasti tratti, finché venti impetuosi investirono le anse e le colline trasportando ripetuti temporali. Fra Novembre e Dicembre le piogge divennero violente. Le prime furono assorbite dal terreno come se fosse costituito da sabbia, finché cominciò a saturarsi. Il 6 e 7 dicembre un muro di pioggia si rovesciò sul Canale, fra Scilla e Bagnara, e nella notte del sette i temporali rafforzarono e in mezzo a un turbinare di lampi e tuoni, i torrenti strariparono. Il Canaletto ruppe a Bagnara gli argini invadendo il Borgo con sassi, fango e detriti boschivi d’ogni genere. A Nicastro il Terravecchia sorprese gli abitanti nel sonno trascinandone alcuni nella piena di fango e acqua e distruggendo infrastrutture e abitazioni attigue agli argini. Alluvioni si stavano verificando anche in altre aree calabresi, tant’è che a metà Gennaio 1783 risultavano isolati numerosi villaggi dell’interno a causa delle frane e dei ristagni d’acqua a che non defluivano correttamente. A metà Gennaio inoltre, si avvertì una leggera scossa di terremoto, una specie di “brivido” che sorvolò le anse del Canale risalendo fino ad Aspromonte. Ma non provocò danni e dunque passò pressoché inosservata. Fra Gennaio e Febbraio 1783, il tempo si calmò. L’aria «si fermò» e ora sembrava costituita da strati sovrapposti: fra un primo, fermo e grave e un terzo di eguale natura, ne correva uno costituito da caligine che si muoveva da Palmi e Bagnara verso il centro del Canale.

Solo un fenomeno, iniziato verso la metà di gennaio, seguitava a preoccupare i pescatori: le correnti del Canale non erano più regolari. I pescatori guardavano il mare e non riuscivano a capire quello sconvolgimento di orari fra Flusso e Riflusso e le stesse caratteristiche delle correnti.

Nella notte fra il 4 e 5 Febbraio, i marinai di una nave svedese che s’apprestava a doppiare il Capo Peloro per uscire dallo Stretto di Messina, osservarono che in profondità nel mare scuro, improvvisamente apparivano strani bagliori e globi luminosi si spostavano velocemente per poi scomparire, fenomeno frammisto a lingue di fuoco che dalla profondità raggiungevano la superficie. In quei frangenti il Capitano della nave svedese s’accorse che l’acqua del mare era divenuta calda.

Ci fu chi scorse nella notte un bagliore che provenendo dal Nord, “invase” lo Stretto diradandosi quasi subito. Ne scrisse anche un testimone oculare, Alberto Corrao.

Mercoledì 5 Febbraio, la caligine si compattò in nuvoloni che stazionavano a poca altezza dal suolo e riflettevano l’immagine sul mare grigio. La nebbia avvolgeva il Sant’Elia e il promontorio di Scilla. Difficile scorgere Messina perfino dalla vicina Reggio. Il sole appariva pallido e torbido. L’aria pesante provocava una caduta di umidità, una specie di pioggerellina monotona che ancora a mezzogiorno non mostrava d’allentare. Gli animali infine, mostravano inquietudine finché a metà giornata cominciarono a dare segni di nervosismo. Gli uccelli si radunavano in stormi e volteggiavano formando ampi cerchi cinguettando con fragore; le galline non stavano ferme e starnazzavano come impazzite; i cani abbaiavano in continuazione e tentavano di svincolarsi dai guinzagli che li fermavano alle pareti o nelle cucce; i maiali neri erano divenuti aggressivi e infine i buoi non si lasciavano avvicinare, vagando innervositi sui prati recintati. Il mare continuava ad avere comportamenti disomogenei; a riva calmo ma non trasparente; al largo e verso lo Stretto, percorso da correnti e «palombelle», tant’è che i pescatori di Bagnara ritennero prudente non “varare”.

A Reggio erano in molti ad essere “in aspettativa” di una grande calamità. Una vergine di un monastero ebbe una rivelazione in tal senso e dunque il Padre Salvo Votano fondatore dei Filippini a Reggio, uscì a predicare energicamente sulle piazze intimando il popolo alla severa penitenza.

Poco dopo mezzogiorno, un contadino s’apprestava a rientrare dai campi sui Piani della Corona,sopra Bagnara, in località Covala di Seminara o meglio in un sito poi detto Lago del Monte. Improvvisamente avvertì un fiero boato proveniente dalle viscere della terra e che si propagò per l’aria unito a colpi battenti della durata di almeno due minuti. La “romba” giungeva da “jusu”,dal Canale e pareva proseguire verso “susu”, seguendo le montagne. Simultaneamente, circa due moggia di terra si misero a ruotare per 180° e poi correre andando a fermarsi quattro miglia a sud. Il movimento lasciò indenne lo sbigottito contadino, rimasto aggrappato a lungo a un piede d’olivo anche dopo cessato il parossismo. Stava accadendo che una serie di scosse della durata di circa tre minuti, faceva precipitare lo sperone calcareo ove stavano adagiate Palmi e Seminara. La coda montuosa si spaccava a forbice: un primo troncone andava spostandosi verso la bassa valle del Petrace scivolando sullo zoccolo granitico che sta nel sottosuolo dello Stretto e sul quale poggia la struttura argillosa delle montagne aspromontane e della Costa. Un secondo troncone scorreva verso Oppido. Dai Piani di Zervò fra Delianova e Platì, la spinta sismica stava producendo una forza enorme sopraOppido, Cosoleto, Castellace, Sitizano e Acquaro. Gli sciami sismici di magnitudo fra il 6,5 e i 7,5 della Scala Richter, si susseguivano variando diposizione e quasi sempre vaste aree furono interessate da sovrapposizioni di epicentri, da Bagnara a tutta la fascia pre-aspromontana da San Luca a Catanzaro. Questa fase si caratterizzò dunque per i biblici movimenti del suolo:insieme al gigantesco avvallamento che si stava formando nel circondario di Oppido, colline e altopiani come Mojo, Croce, Zervò,vennero giù come fuscelli mentre franavano le vette dei monti Jeio,Sagra, Caulone, Esope.

Ove il terreno era compatto, l’urto aprì fenditure, crepacci e oscuri burroni  mentre falde idriche si seccavano oppure ribollimenti portavano in superficie acque evapori che formavano putridi stagni.

A Santa Cristina ci fu un cambiamento di sito: una vigna in cima a una collina, si ritrovò in pianura in un luogo ove sorgeva un oliveto che occupò il suo posto in cima alla collina, il torrente Cumi si“colmò”, così come il Boscaino. Mentre questo avveniva, un gruppo di contadini si vide inghiottire dal terreno e poi rigettare senza che alcuno avesse subito escoriazioni. Una spaccatura lunga 10 miglia si osservò da San Giorgio Morgeto fino alla stessa Santa Cristina. Un cambiamento di sito avvenne anche a Cosoleto: la piana di Cineti sprofondò di ottocento metri, una valle prese dunque il posto di un’ampia pianura. Nel sommovimento, i Principi perirono nello sprofondamento della loro casa. Tutta la famiglia precipitò nei sotterranei del palazzo per il crollo del pavimento ma il Principe ebbe il tempo di scaraventare da una finestra del pianterreno,  il piccolo primogenito, avvolto in un materasso. Si salvò invece a Palmi Pasquale Zaffiati, allievo di Genovesi che risultò poi l’unico a esser stato estratto vivo dalle macerie dell’abitato.

Lo spostamento provocò una variazione di posizione del terreno fra Setizano e la stessa Cosoleto,si ostruì così il corso di una fiumara che allagò parte della regione. Oppido dalle alture che l’ospitavano,si smembrava franando verso il basso da tutti i lati,e si “colmarono” i torrenti Tricozio e Calabrò (o Boscaino). Distrutte a Oppido le famiglie Malarbì, Grillo e Migliorini. Le spallate che dal Sant’Elia salivano verso Aspromonte o scendevano verso la Piana, dopo Polistena e Casalnuovo raggiunsero Terranova che “slamò” nel Metauro con una velocità sorprendente. La tragedia di Casalnuovo e della sua Principessa, fu narrata di voce in voce a Napoli, ove la Principessa risiedeva e da qui in Italia.  Il Palazzo di Donna Teresa Grimaldi, Principessa di Gerace era stato costruito a un piano e spiccava per la sua graziosa architettura fra le sparse case di Casalnuovo, tuffata in mezzo al folto di oliveti secolari. La Principessa stava ultimando i preparativi per trasferirsi nell’altro suo palazzo di Gioja, per soggiornarvi dopo la Quaresima.

Il radiante della Piana colpì Casalnuovo in pieno, inghiottendo gli abitanti. Il palazzo signorile crollò “in un botto” non consentendo alla Principessa e alla sua corte, di salvarsi.

Ci vollero più giorni prima di rinvenire il cadavere della dama, scoperto in un disperato gesto di fuga. Incredibile l’avventura del cuoco di palazzo. Stava lavorando dentro una loggia di legno ov’era sistemata la cucina, addossata alle mura. Quando le mura crollarono, la loggia “scivolò” insieme ad essi, col cuoco dentro, ridotto a un uccello in gabbia. Eppure si salvò. Le spoglie di Maria Teresa Grimaldi furono successivamente tumulate nella Cappella dell’Immacolata,all’interno della Chiesa Madre, fatta edificare da Maria Antonia Grimaldi dopo il 1783. A Casalnuovo (poi riedificata come Cittanova) gli avvallamenti del terreno non furono accentuati. Si trattò soprattutto di un vero e proprio abbassamento generale, tant’è che le rupi ele altre formazioni rocciose, rimasero scoperte. Si salvò solo la bellissima Fontana dell’Olmo, costruita nel 1730 e fu un’ ecatombe: il 5 febbraio in brevi momenti distrusse il lavoro di molta industria umana e cangiò in una scena di compiuto lutto ciò che dianzi sembrava il soggiorno della pace, e delle grazie. I tempi, i ricchi edifici, le umili case divennero in un fiato solo prede fatali di un terremoto, che confuse e annientò tutto in orribile modo.

 

Invece fra Casalnuovo, Radicena e il torrente Vacale, si verificarono avvallamenti repentini e “solenni”. La floridissima area agricola con i suoi molini, trappeti e fabbricati per la lavorazione e conservazione del prodotto agricolo, scomparve radicalmente. La terra sulla quale poggiava Seminara col suo Casale di Sant’Anna,si mosse come se bollisse,formando avvallamenti che si spostavano in continuazione, anche con movimento rotatorio. Questo è quanto accadde alle colline dei Piani della Corona, di Oppido, del Sant’Elia, della fascia pre-aspromontana e di Bagnara: si accasciarono.

A quel punto la furia s’arrestò. Nelle ore successive solo qualche piccola scossa; niente più. Una calma sinistra aleggiò fra le vie dei paesi diroccati mentre dalle macerie fumanti salivano i lamenti dei sotterrati e chi era scampato,  vagava piangendo di disperazione. La sera piombò sul Canale come un incubo.

Nella notte fra il 5 e il 6 febbraio infatti, un’altra scossa investì la zona terremotata. Il radiante sismico attraversò il Canale piegando sulla Piana per poi frustare la zona delle Serre. Da qui si diresse verso lo Jonio scaricando a mare una forza violenta. A seguito di questo evento, crollò a Bagnara il ponte sullo Sfalassà, costruito nell’ambito del progetto per la “Regia strada litorale”. La frana trascinò anche la grande torre di guardia o “specola” che sovrastava Bagnara, a ridosso dell’antico Passo di Solano,costruita a guardia del passo medesimo e “difesa contro i ladroni”. A fianco di Cocuzzo, proseguendo verso nord, dalla collina Giangreco si staccava una frana di un miglio quadrato e, sempre proseguendo, accadeva lo stesso per le colline rasolate; Acquaranci, Canalello, Caciapullo e Malarosa.Il movimento della Malarosa seccò il millenario corso del Gazziano, che aveva garantito l’approvvigionamento idrico della Città e del comprensorio agricolo a nord del Paese. Sopra la Malarosa, il grandioso comprensorio del Mastio di Barano si abbassò di livello sotterrando parte del bacino idrico che alimentava l’Altopiano. Il radiante sismico raggiunse da qui anche il monte Sirena che s’accasciò su se stesso coinvolgendo il quartierino orbitante intorno alla chiesa delle Anime del Purgatorio. In poco più di due minuti, a seguito di questa seconda scossa, Bagnara venne annullata nell’intera struttura produttiva, cambiata nella fisionomia, cancellati i cognomi di moltissime famiglie. Il cielo era rischiarato dagli incendi. Bruciavano: le rovine della Reale Abbazia, il Convento sede dell’antico, nobile Priorato voluto dall’Imperatore Federico II, la chiesa del Carmine eretta a Congregazione di Spirito il 16.9.1683 dal Duca D. Carlo Ruffo, San Nicola, eretta a Congregazione di Spirito nel 1710 dal Cardinale D. Antonio Ruffo, San Francesco di Paola e il Convento dei PP. Paolotti fondato nel 1683 da D. Enrico Ruffo, la chiesetta di San Sebastiano di jus patronato dei Signori Sciplini, la chiesa di S.Maria degli Angeli e parte del Convento dei PP. Cappuccini, fondato nel 1590, la Cappella di San Giacomo appartenente alla Commenda di San Giovanni di Malta dei Nobili Cavalieri difensori della Sacra Religione. Incendi anche fra le rovine dei magazzini del Duca, i palazzi signorili del Borgo che pure erano parzialmente resistiti al sismo diurno,  il fasciame delle baracche; perduti i depositi di grano, gelso,vino, olio e legname. Grave la situazione dell’approvvigionamento idrico perché le fontane non ricevevano più acqua e dei collegamenti viari coll’esterno ma anche all’interno del Paese ove le stradine Croce e Pinno, franate, erano state fino a quel momento il raccordo fra Borgo e Purello.

Nessuno poté ricevere soccorso perché gli scampati, usciti allo scoperto con circospezione e piangendo di terrore perché atterriti dai ciclopici movimenti del suolo e delle colline, non pensarono che a riparare sugli spianati di Martorano o lungo la via del Mare.

Molte scosse di bassa e media intensità iniziarono a manifestarsi, con repliche poi per tutta la notte,rischiarata dai bagliori degli incendi a Bagnara: una storia millenaria testimoniata da opere, uomini e fatti, strutturata per perpetuare la colossale opera dei padri, tutta dedicata per rendere felice la terra natia, era stata cancellata. Era stato neutralizzato il nesso passato-presente verso il futuro che, attingendo dal ciclo naturale della vita che per indole evolve accumulando esperienze e opere delle generazioni, aveva a Bagnara innescato un ciclo economico in progresso, poggiante su un senso di civile comunità della gente,ereditato dal cosciente coinvolgimento degli avi che bene avevano saputo coniugare le necessità della vita civile con le coscienze spirituali e la vocazione di essere in tanti in un’unica comunità.

IL Maremoto: “il massacro continua”

Giunse la sera anche sulle altre anse del Canale. Nessuno dei terrorizzati abitanti della Costa, si rammentò di quanto avvenuto nel pomeriggio. L’abbassamento dell’altopiano della Corona, del Mastio di Barano e del Sant’Elia, stava formando ondate di flusso e riflusso lungo la costa. Al largo fra Nicastro e Gioja nel pomeriggio, s’erano formati due cavalloni di circa 25 metri,l’uno si perse verso il largo, l’altro investì Nicotera mentre il mare si ritirava fra Gioja e il Mésima, ritornando poi come valanga d’acqua, cavalloni di venti metri, che devastò la foce del Metauro riempiendo di sabbia il Pacolino. Né rammentò che il mare era deserto perché al mattino del 5, i pescatori da Bagnara a Palmi, Bivona e Pizzo, avevano guadagnato gli scali e portato a secco le imbarcazioni, spaventati per aver notato allargo il mare sconvolgersi in un miscuglio di onde che ribollivano e gorgogliavano.

Una specie di torpore s’era impossessato dei terremotati che altro non facevano, nei momenti a ridosso dei parossismi, che cercare spazi aperti ove gettarsi a terra a faccia in giù per tentare di sfuggire al terrore.

A Bagnara la gente aveva abbandonato Purello. Il quartiere normanno, costituito da antiche abitazioni contadine di povera fattura, i “Pagghiari”, frammisti a case “solarate” magnatizie, era crollato con un effetto domino: le case della Livara erano crollate addosso a quelle del Borgo dell’Immacolata e queste su quelle del Pinno e del Castello. Le strette viuzze si erano così riempite di macerie e l’abitato divenne impraticabile per i primi tentativi di soccorso. I Bagnaroti erano sulla spiaggia a osservare gli ultimi focolai della Città che era bruciata per un giorno intero o si dedicavano a preparare grandi pire ove collocare i cadaveri. Quando sopraggiunse la notte, la spiaggia di Bagnara sembrava un cimitero all’aperto ove le cerimonie delle cremazioni, fra pianti e tremolii di terrore, si susseguivano senza interruzione. Anche a Scilla, la gente non si rammentò di alcune particolarità accadute nel pomeriggio, pervasa com’era, dal terrore per i crolli e le scosse. Domenico Puntillo (o Pontillo. Si trovava alla Chianalea (gergo attuale dell’antica denominazione Piano della Galea) e colto dal terremoto di mezzogiorno, aveva cercato rifugio su uno scoglio grande ed esteso, che raggiunse annaspando in mare. Lo seguirono colà la sorella e due nipoti. Da quel sito Puntillo s’accorse che il mare stava ritirandosi. Altro terrore ma nessuno osava saltare a riva, dove il terrore era maggiore e regnava sovrano fra gli scillesi che urlando, tentavano di mettersi in salvo.

Arrivava in quel momento da Bagnara la barca di Totò Costa, cognato del prete, colto dal terremoto al largo della stessa Bagnara. Preoccupato per la sorte della moglie, aveva vogato da esperto e con la forza della disperazione, ma non riusciva ad avvicinarsi allo scoglio perché il mare seguitava a ritirarsi e cominciava ad agitarsi. Poi il mare iniziò a bollire e la marea avanzò gradatamente verso la riva. La cerniera della Chianalea smorzò l’effetto sulla rada. Costa riuscì a governare durante il reflusso del mare, fu mandato distante dalla marea ma riuscì a tornare e caricare la moglie e il Puntillo raggiunsero la riva, ora distante e il prete condusse tutti in alto chiamandosi dietro numerosi cittadini terrorizzati. L’episodio parve occasionale e intanto giungeva la sera. Durante il giorno poi, s’erano verificati sprofondamenti sulla costiera scillese e le antiche caverne “ululanti” erano scomparse negli abissi. Alla Marina Grande gli Scillesi attrezzarono una specie di grande accampamento, utilizzando tende e coperte stese fra una barca e l’altra o ricoverandosi nelle palamatare più grandi. Sull’arenile aveva trovato rifugio anche il Principe D.Fulcone A. Ruffo. Don Fulcone non era riuscito a raggiungere la sua tenuta del Parco, sull’altopiano San Gregorio perché la strada era ostruita dalle rovine del Palazzo dei Signori Nizza, alla salita di San Giorgio.Voleva comunque abbandonare il Palazzo della Chianalea, dopo aver assistito al crollo di un’ala, e al crollo dell’antica Chiesa di S. Pancrazio. L’ottantunenne Don Fulcone, in lettiga, raggiunse dunque la Marina accompagnato da Don Carlantonio Ruffo, abate di Sinopoli, ricoverandosi nella grande paranza di Padron Mommo Baviera,che era stata tirata a secco accanto alla Chiesa dello Spirito Santo. Don Fulcone piangeva disperato. Chiamò da parte Padron Mommo, prese la mano al capo dei Marvizzi  e la chiuse fra le sue cercando, implorante, il suo sguardo: “Perdono!” scongiurò il vecchio feudatario a Padron Mommo. In quella che sembrò più di una confessione, Don Fulcone si pentiva peri mali causati agli Sciglitani e adesso li abbracciava tutti come figli ritrovati, adesso che il dolore tutti accomunava.

Quando la notte avvolse la Marina Grande, bruciava ancora l’altura di San Giorgio con la vicina Chiesa del Rosario.

I sinistri bagliori rischiaravano la spiaggia consentendo così agli Scillesi di finire di ricoverarsi fra le barche in secca, seguendo l’esempio del Principe Ruffo e del suo seguito. Iniziò a piovere e verso l’una e mezza la pioggia spense l’incendio di San Giorgio.I duemila scillesi della spiaggia, rimasero nel buio totale. Silenzio assoluto che faceva ben percepire il leggero scroscio della pioggerella sulle tende e gli armamenti di legno dei navigli. Ma all’improvviso ecco un fiero boato: la scossa fu violentissima, repentina, e falcidiante per Bagnara,come abbiamo notato. Tre minuti di terrore fecero assestare le precedenti frane. A Tiriolo, le punte di una croce di ferro che sovrastava l’entrata della chiesa dei Sette Dolori, le catene di ferro che l’assicuravano al tetto e i fili di ferro delle campane, furono pervase da «scosse scintillanti». Scintille scaturenti dalle strutture metalliche degli edifici, simili a quelle delle catene del campanile a ridosso dell’Abbazia di Bagnara, furono notate ovunque nei paesi terremotati, così come esplosioni di grossi macigni e fuoruscite di vapori dai terreni. Poi un piccolo intervallo di grande silenzio. Quindi dalla parte di Capo Pacì s’udì un fragore immenso che rimbombò nelle orecchie degli scillesi per lo spostamento d’aria che accompagnò l’orrendo rumore. Rumore che fu percepito come se una grandissima macina fosse nell’atto di tritare pietre e poi movimenti d’acqua frammisti a tonfi e fragori di grandi impatti di scogli l’uno contro l’altro. Ma fu questione di secondi.

Gli scillesi ebbero appena il tempo di voltare gli sguardi verso la sorgente di quei fragori biblici per rendersi conto di cosa fosse, quando videro venire verso di loro un altissimo e fragoroso muro d’acqua alto trenta metri, colla velocità di oltre 6 chilometri al minuto. Il maremoto s’era innescato all’imbocco del Canale, a seguito delle sollecitazioni delle numerose e continue scosse di piccola e media entità e del parossismo finale sul radiante sismico che dalle falde pre-aspromontane era sfogato sul Canale e nei fondali dello Jonio dall’altra parte,ove colpì impietosamente Roccella. Qui il mare raggiunse, in alto,il convento dei Minimi depositandovi numerose barche di pescatori. Intere borgate di pescatori furono stravolte da Grotteria a Bova a Giojosa.

In Ricordo delle 50.000 persone vittime della più grande catastrofe che colpì l’Italia meridionale nel XVIII secolo.

 

TRATTO DA:

Civiltà dello stretto “Quaderni Bagnaresi” di Clemente Puntillo

Alla scoperta del borgo di Pentedattilo (RC)

Pentedattilo: cinque dita. Cosi è chiamato questo piccolo borgo arroccato sul monte Calvario nel comune di Melito di Porto Salvo. Un borgo che cattura l’attenzione anche del più distratto, non solo per la morfologia della rocca su cui sorge ma anche per la bellezza della disposizione delle case distribuite lungo una ripida e instabile scoscesa. L’immagine di questo borgo silente è suggestiva tanto da meritargli l’appellativo di “borgo fantasma”.

Dell’antico paese di Pentedattilo si hanno notizie scritte per la prima volta nel IX secolo d.C., epoca in cui era già una cittadella fortificata, e il territorio cui faceva capo era molto esteso – dalle zone marine di Saline Joniche, passando per la Valle del Tuccio e infine arrivando alle zone pedemontane di Bagaladi. Costituì anche un centro nevralgico per l’amministrazione dell’economia agricola relativa ai terreni monastici di tutto il territorio melitese.

Nel 1500 Pentedattilo ebbe per la prima volta un proprietario laico, cioè Michele Francoperta, figlio di Ferrante; nel 1509 il feudo venne acquistato dalla famiglia Alberti di Messina che furono in gran parte protagonisti del clima di rinascita culturale ed economica che il nuovo secolo portò con sé; la casata degli Alberti è diventata famosa in Calabria a causa di un evento funesto: l’eccidio della nobile famiglia, compiuto a opera del barone Abenavoli del Franco di Montebello Jonico.

La strage si consumò la notte di Pasqua del 1686 a causa di dispute sui confini e in parte del rifiuto da parte del fratello di Antonia Alberti di concedere la stessa in sposa a Bernardino Abenavoli. In quella tragica notte venne dato l’assalto al castello e gran parte della famiglia Alberti venne massacrata: non vennero risparmiati né donne né bambini. Nei secoli a seguire Pentedattilo venne dapprima danneggiata dal terremoto del 1783 e in seguito cedette il passo a Melito di P.S., diventando una sua frazione. Oggi la parte antica del borgo è parzialmente in abbandono; ma grazie all’impegno di alcune associazioni sta divenendo un suggestivo centro di cultura e per l’artigianato locale, che si può ammirare nelle casette riadattate a bottega.

Dalla statale 106 è possibile ammirare la sua particolare collocazione che, soprattutto di sera, lo trasforma in un vero e proprio presepe. E’ facilmente raggiungibile in auto ed è possibile visitarlo interamente anche attraverso un percorso di trekking ad anello che consente di ammirarlo nella sua totale bellezza. In modo particolare, al calar del sole, la punta delle dita di questo gigante dormiente si colorano di rosso mentre il tepore dell’aria si fa sempre più denso.

Lo sguardo si perde in mezzo alle infinite vallate circostanti, solcate dalla fiumara Sant’Elia che partendo dagli altopiani dell’Aspromonte e costeggiando le frazioni del comune di Montebello raggiunge la spiaggia di Melito di P.S. per poi perdersi nelle trasparenti acque del mar Jonio. L’erosione di questa rocca di arenaria causata dagli eventi atmosferici la stanno lentamente consumando; anche i ruderi del castello, visibili solo in parte, si stanno progressivamente sgretolando. Probabilmente in futuro resterà ben poco delle antiche vestigia, ma la storia e la memoria di questo borgo continuerà a viaggiare attraverso i racconti e gli scritti, perché la conoscenza non muore ma si conserva nella memoria di chi ama la propria terra.

By Cristian Politanò

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