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Figli di un tempo da ricordare; Gaetano Filastò, eroe Calabrese della prima guerra mondiale

Che cosa potrebbe accomunare Loquizza, località del Carso che non rientra più nemmeno tra i confini nazionali, e Santo Stefano in Aspromonte? Ancor di più, a distanza di un secolo, cosa può accomunare il meridione d’Italia ed in particolar modo la provincia di Reggio di Calabria con la Slovenia? Proviamo a scoprirlo assieme, compiendo un piccolo viaggio nel tempo, dai giorni nostri a quelli del 1915-1916.

Chi visita oggi, il Paese di Santo Stefano in Aspromonte, può tranquillamente imbattersi nell’Asilo per l’Infanzia “Filastò”, recante tuttora una lapide tutelata dalla Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio della Calabria, ove sono riportati i Caduti durante il primo conflitto mondiale. L’opera, progettata da Marcello Piacentini nel 1927, (figura che poteva considerarsi come una “archistar” dei giorni nostri), nasce con una duplice funzione: utilitaria, come sede dell’asilo per l’infanzia e della biblioteca ma anche commemorativa, per ricordare i caduti durante il primo conflitto mondiale. L’edificio, ci ricorda il sito della Soprintendenza calabrese, “inaugurato nel 1932 è dedicato a Gaetano Filastò, caduto sul Carso nel 1916” (1).

Alcune figure meritano di essere sottratte all’oblio dopo decenni, sopratutto quando esse sentivano, tra fortissime emozioni, il dovere di compiere sino in fondo la propria missione.

Il 14 ottobre 1916, nel Vallone di Doberdò, una granata austriaca uccideva il caporal maggiore Gaetano Filastò del 20° Fanteria. Era un maestro elementare, figlio di Calabria. Non aveva voluto rinunziare, durante il suo lungo servizio di guerra, alle modeste funzioni di aiuto di sanità per diventare ufficiale. Egli aveva un’intima ripugnanza per la violenza e il sangue: ma fautore convinto dell’intervento italiano nel primo conflitto mondiale e fautore di una guerra restauratrice del diritto violato, aveva cercato di conciliare i contrastanti sentimenti in un servizio che gli facesse correre ogni rischio, consentendogli insieme d’esplicare la sua opera per salvare vite umane. Aveva una mente illuministica, comune a molti maestri dell’epoca: forse un po’ angusta, ma sincera. Credeva profondamente e fervidamente a ciò che per molti altri non era se non un pretesto oratorio: al diritto dei popoli, alla missione italiana di concorrere a un più civile consorzio tra le nazioni, al dovere d’un supremo sforzo per uccidere, sia pure con la guerra, il conflitto stesso, spezzando la brutalità tedesca e schiudendo agli uomini una più degna vita.

Fra un’azione e l’altra il Filastò segnava brevi appunti e osservazioni, che sviluppava nei periodi di riposo e di licenza, inviandoli poi al fratello. Da queste pagine, scaturì l’abbozzo di un diario (2), che la pietà dei congiunti pubblicò poco dopo la morte del Filastò, e la censura di guerra, non molto più intelligente di altre, mutilò nei punti più significativi. Lo stile è spesso incerto: echi letterari – vivissimi quelli di Giuseppe Cesare Abba – spesso perturbano l’immediatezza dell’impressione. Eppure, nonostante questa insufficienza artistica, ben pochi documenti rendono con tanta efficacia la parabola della grande guerra sul fronte italiano.

Le prime notazioni hanno dell’ottocentesco: alcuni episodi del primo inizio di guerra trasportano mezzo secolo indietro: alle battaglie di Magenta e di San Martino. Si vive un sogno di fresco impeto militare, anche laddove la scena è di morte, come nell’episodio dei bersaglieri feriti.

«(20 giugno ’15). Una compagnia di bersaglieri ciclisti attraversava il campo di pieno giorno per recarsi presso Lucinico. Viene scoperta e fatta bersaglio dell’artiglieria nemica del monte San Michele. In breve tempo arrivano al nostro posto di medicazione parecchi feriti più o meno gravi. Fra gli altri il capitano della compagnia, Luigi Pastore, ferito gravemente al capo e alla gamba destra. Egli è sereno, parla delle sue ferite come non gli appartengano, segnalando al medico i disturbi che avverte. Io gli lavo a poco a poco con una specie di religioso rispetto il sangue aggrumito sul viso, ed egli con voce bassa, senza alcuna preoccupazione, continua a discorrere, manifestando i suoi ultimi desiderii. Intanto accanto a lui giacciono altri bersaglieri feriti, i quali, avuta la medicazione, si mettono tranquillamente a fumare con stoicismo ammirevole. Un sottotenente si guarda sorridendo il berretto forato e non vuol neppure medicarsi la leggiera ferita che ha sulla spalla. Saluta il capitano e va a radunare la compagnia. In un altro cantuccio del cortile vi è un bersagliere ferito all’addome, e soffre atrocemente, e di tanto in tanto emette un grido che fa pietà. Il capitano che mi guarda con occhio dolce e fermo, mentre gli pulisco il viso, mi domanda: “chi è che grida così? E’ un bersagliere?” “Signorsì, è un bersagliere ferito all’addome”. “Ditegli che i bersaglieri non gridano mai, anche quando soffrono dolori atroci”. Il bersagliere che ha già smunte le labbra, sente le parole del suo capitano, mormora: “Ha ragione!”, e poi tace per morire in silenzio».

La descrizione del combattimento di Bosco Cappuccio riporta una letizia ariosa: sembra che la vittoria debba sboccare dal bosco in più vaste regioni.

«(18 luglio ’15). Il rombo assordante dei grossi pezzi, lo schianto fragoroso delle batterie da campagna sparse nel piano, e quelle da montagna nascoste nella vicina foresta mi fanno l’effetto d’una tempesta infernale. Questo accanimento di tuoni, di sibili, che straziano e sconvolgono l’atmosfera, questa immensa e fitta rete di proiettili che passano rapidi e leggieri sul mio capo, fischiando, abbiano, ululano, è qualcosa che rasenta il sovrannaturale».

Certamente, anche in quei primi giorni si prova la trepidazione per la vita, ma essa ha il sapore del sacro, di un’offerta.

«(15 giugno ’15). Ormai non vi è più alcuno di noi che pensi di poter risparmiare la vita, e l’avvicinarsi dell’ora solenne – quando la morte non giunge improvvisa – produce nell’animo una visione sublime “che intender non può chi non la prova”, e che io stesso, avendola provata, non riesco ad esprimere».

Vi sono i momenti egoistici: ma l’ora dei combattimenti li cancella.

«(14 luglio ’15). Nei giorni di riposo, quando per poco si dimentica il luogo dove ci si trova, e il pensiero ritorna tutto agli amici più cari, ai parenti più affettuosi, che si amano di più appunto perché più lontani, quando si pensa che qualcuno ci attende e sarà tanto più felice di abbracciarci dopo tanto soffrire e che nessuna gioia può uguagliare quella di un ritorno vittorioso, allora un’idea d’egoismo invade la mente: quella di conservarsi per godere la gioia suprema. Ma è un’idea che sparisce subito quando si entra in azione. Allora non si vuole altro che correre vittoriosi attraverso l’uragano di ferro e di fuoco che si scatena dalle due parti».

L’orrore della guerra tuttavia, non tarda a rivelarsi all’aiutante di sanità.

«(29 luglio ’15). Ad onta dei molti momenti di entusiasmo avuti durante la battaglia, non si può non riconoscere che la guerra è la più grande iattura che affligga l’umanità. Ed io mi compiaccio che in mezzo a tante brutture sia stato chiamato a compiere un servizio umanitario, che, se non procura nessun onore, dà però la grandissima soddisfazione di avere esposta la propria vita – e lo so io come! – non per l’altrui rovina ma per la salvezza altrui. Ciò non vuol dire che io abbia cambiato opinione sull’opportunità della guerra. Speriamo che vada tutto bene! (censura)».

Alla visione del dolore, cominciava poi ad affrancarsi il pensiero dei morti. Ed è a questo punto che per il Filastò, iniziava una lotta interiore per salvare la sua fede, perché «cessato il primo entusiasmo ci vuole una bella forza morale per persistere nelle aspirazioni che si sono avute», e si sdegna per il ritardo posto dall’Italia nel dichiarar guerra alla Germania, biasimando Antonio Salandra sul “sacro egoismo”. Solo la redenzione della guerra poteva per lui giustificare il massacro in atto: «impedire che domani possa risorgere la guerra crudele e feroce, e sulle libere nazionalità si riversi l’incubo della tirannide teutonica». Pia illusione quella del maestro calabrese, che non avrebbe potuto vedere la nuova tirannide tedesca della Germania hitleriana a distanza di poco più di vent’anni d’anni dal termine della prima guerra mondiale.

Tra le trincee alle pendici del Monte San Michele, il tempo scorreva orrido di sofferenze e tormenti. L’estate del 1916, si apriva con l’orrore dell’offensiva dei gas asfissianti a San Martino del Carso, luogo reso immortale dal poeta Ungaretti, e il Filastò vedeva le stragi dai posti di medicazione. Dopo l’espugnazione di Gorizia, nell’agosto del 1916, il maestro elementare calabrese era ormai logoro. Tra i pochissimi superstiti del suo reggimento dall’entrata in guerra, attendeva con triste rassegnazione il suo turno. Scriveva al fratello:

«(27 agosto ’16). Il mio astro tramonta prima del meriggio… Bisogna rinunziare anche alla speranza di sopravvivere e ritenersi destinati dalla sorte a buttare la nostra esistenza nella fucina degli eventi. Io allora mi sento più tranquillo, quando rinunzio a tutto ciò che mi appartiene, quando nemmeno penso che in altri luoghi ho dei parenti che trepidano per la mia sorte. Mi piace, o, per meglio dire, mi fa comodo considerarmi solo al mondo, nato, cresciuto, destinato dalla sorte ad essere consumato né più né meno di come si può consumare una bomba o una cartuccia (…). Ora io vorrei, sì, vivere e migliorare me stesso. Vorrei poter levare da me tutte le scorie e ricomparire la mondo in una veste nuova e verginale; vorrei tentare l’accesso per vie più ampie e più alte.. ma ora cosa vuoi che faccia, cosa vuoi che pensi? Vuoi che mi tormenti coi problemi del domani, mentre mi sta dinanzi l’enorme punto interrogativo del Destino?».

La sua lettera testamento, scritta un anno prima di questi ultimi eventi (il 21 ottobre del 1915) completa la fisionomia laicamente religiosa del modesto maestro di Calabria.

«…Io non ho mai ancora provata l’ebbrezza dell’assalto, né forse la proverò. Nondimeno io sento l’animo mio appagato da un’intima e serena soddisfazione che mi rende men dura l’idea della morte: la soddisfazione di aver potuto sul campo di battaglia alleviare con la pietosa mano e con la dolce parola del conforto i dolori e gli spasimi di tanti gloriosi feriti e raccogliere con venerazione l’ultima parola di qualche agonizzante.

Che io possa ancora e fino alla vittoria continuare la mia missione pietosa, è l’augurio che io faccio per te, o madre mia, perché tu possa provare l’immensa gioia di riavermi più puro e più bello fra le braccia tue: ma se la sorte m’invita ad una sorte più gloriosa, saprò seguirla con animo sereno (…).

Le istituzioni educative nate dalla mia attività di maestro desidero che siano col continuo interessamento dei parenti e degli amici conservate per sempre in ricordo del bene che volli al mio paese, dell’amore e della fede che io posi nell’adempimento del mio dovere. I miei scolari si ricorderanno di me, non ne dubito».

Indubbiamente la Calabria e la provincia di Reggio, il paese di Santo Stefano in Aspromonte possono essere fieri di un maestro che ha donato tutto se stesso per il prossimo, sacrificando la sua esistenza nelle trincee del Carso. A volte, distrattamente osserviamo o addirittura frequentiamo scuole, asili, istituti intitolati a persone di cui ignoriamo non solo il volto, ma anche la storia. Questa, è quella di Gaetano Filastò, maestro elementare di Calabria, partito idealisticamente col treno da Reggio il 25 maggio 1915 e caduto nel Carso un anno dopo. In un ponte ideale tra Slovenia ed Italia, e tra la Calabria ed il Carso, scopriamo che i destini possono portarci in luoghi lontani da quello natio, pensando sempre a quella missione che ognuno di noi, porta nel cuore.

di Valentino Quintana

(1) http://www.14-18.it/lapide/S112_S243/17/01

(2) Sulla Via di Trieste, diario di guerra di GAETANO FILASTO’, caduto sul Carso il 14 ottobre 1916, Catania, 1918, Cavalier Vincenzo Giannotta Editore.

cosma e damiano riace

Riace dalle origini al culto dei Santi Medici Cosma e Damiano

riaceLe origini di Riace risalgono ad epoca aragonese.Tutto il paese ne rivela l’origine in ciò che resta dell’architettura mista catalano-aragonese, nelle viuzze, negli edifici sacri e nei palazzi privati. In precedenza l’area doveva essere sede ambita dal monachesimo Basilano che pone la preghiera, con l’eremitismo alla base della vita in comune (le regole di San Basilio Il Grande, 330-379 d.C. vescovo di Cesarea dal 370). Quanto alle origini del nome, Riace non si discosta da Monasterace, Gerace, o dai paesi alle falde dell’ Etna come Aci Trezza, Aci Bonaccorsi, Aci Platani, Acireale, Aci Catena ecc.
Non si può attribuire a Riace una origine greca come facente parte del territorio di Kaulon. E` vero che ricade nel territorio della Magna Grecia, ma non esiste alcuna prova dell’esistenza di una località chiamata Riace fino a tutto il periodo normanno (1059-1194), svevo oppure angioino (XIV sec.).

Nell’Agosto del 1972 sui fondali del mare antistante Riace vennero rinvenuti i famosissimi “Bronzi di Riace” . Il rinvenimento “fortuito” avvenne il 16 agosto. Il 21 fu recuperato il Bronzo “A” e l’indomani il “B”. Secondo studi e ricerche facevano parte di un gruppo statuario che rappresentava il momento subito precedente al duello fratricida fra Eteocle e Polinice, fratelli di Antigone, del mito dei Sette a Tebe collegato con quello di Edipo.

 

Il più antico documento in cui è citata Riace e` del 1561, in cui si parla della morte, in odore di santità di Cristoforo Crisostomo, Riacese. Un altro dato sulla datazione di Riace ce la fornisce la campana della Chiesa dell’Assunta, su cui e` riportata la dicitura “Hanc fundere fecit campanam Confraternitas s.mi Sacramenti, A.D. 1596” Sino all’epoca Normanna (nel 1059 Roberto il Guiscardo ebbe il Ducato di Puglia e Calabria; la fine del dominio Normanno si ebbe nel 1194 quando Enrico VI, sposando Costanza di Altavilla, uni` alla corona imperiale anche quella di re di Sicilia) la Calabria Jonica e` sotto l’influsso culturale e artistico della civiltà Bizantina. La sua storia si fonde con quella di Stilo, di cui e` casale, almeno fino al Novembre 1666, data in cui l’autorita` centrale consente ai riacesi di pagare le tasse per proprio conto. La città di Riace era fornita di cinta murarie ed esistevano tre porte per l’accesso: la Porta di Santa Caterina, la Porta di Sant’Anna e la Porta dell’Acqua. Ad otto chilometri dall’abitato sorge la Torre di Casamona, a Riace Marina, per prevenire gli sbarchi dei Pirati turcho-barbareschi. Era costituita da due ampie stanze sovrapposte e da una terrazza merlata, ed era dotata di un cannone. L’esistenza di questa torre e` ampiamente documentata dal 1583, prove ne sono le notifiche per i pagamenti, da parte dell’ Università (un tipo di corporazione medioevale) di Riace, per il personale di guardia della torre, (capitani e cavalieri) notifiche che perdurano sino al 1707. La Torre di Casamona ha svolto una vitale funzione di sorveglianza sulle coste Riacesi per un arco di due secoli. Nel 1640 Riace risulta essere abitata da 400 persone, piu` una in mano ai saraceni!. La zona riacese non ha conosciuto, a differenza della maggior parte dell’ Italia, la civltà feudale. La presenza di miniere di ferro e di argento favorirono l’interesse del governo centrale napoletano a non infeudare il territorio. Di questi benefici godevano anche altre città, come Stilo, o Bivongi. Nonostante ciò, negli anni 1647-48 si ebbero una serie di cruenti episodi, omicidi, saccheggi, dovuti al tentativo di infeudamento di Stilo e dei suoi casali, Riace compresa, perpetrato dal Marchese d’Arena, che con un atto illegale acquisto` il casale di Stilo .Per ribadire il proprio diritto all’appartenenza al Regio Demanio ci fu anche una rivolta popolare, in Stilo, soffocata nel sangue (14 morti tra cui un bimbo di due anni). Del casale di Riace risulto` ucciso il Dott. fisico Giuseppe Politi
Nel 1756 la popolazione era costituita da 508 donne e 493 uomini (1001 persone). Di questi 132 sono coltivatori diretti, 27 massari, un guardiano di pecore, due mugnai, un tiratore di seta; ci sono anche 30 sacerdoti e 18 suore; 8 calzolai, 5 sarti, 3 barbieri, 3 fabbri, uno scalpellino, un indoratore, un servitore, un fabbricatore, un aromatario. L’assistenza medica era assicurata da 3 dottori e 2 farmacisti (speziali). L’assistenza giuridica da un giudice e due notai. Risulta che sei fanciulli fossero “addetti alle lettere”, evidentemente in forma privata, perchè la scuola pubblica ancora non era stata istituita. Nel 1773 fu edificata, in Riace Marina, la Cappella di San Biagio, che e` Monumento Nazionale. Fu eretta per ordine del barone Antonio Gagliardi. Si trova in prossimità della provinciale per Riace Superiore, vicino al passaggio a livello, e attesta che Riace Marina era abitata anche nel XVIII secolo. Nel 1783 ci fu un tremendo terremoto. Si lamento` un morto e 20.000 ducati di danni. Nel 1815 venne istituita la scuola pubblica, più volte soppressa (e ripristinata) per mancanza di scolari. Nel 1818 gli abitanti di Riace erano 1062. Gli uomini 231, le donne 362. I fanciulli erano 231, le fanciulle 208. I preti erano 8. 200 sono i contadini, 100 tra artisti e domestici. Tra disoccupati e mendicanti si contano 80 uomini e 167 donne. Si noti come, nonostante sia zona “riverasca”, e nonostante l’antica tradizione dell’università di Riace di mantenere la Torre di Casamona, non risulti esserci nessun pescatore. Con il crollo dei Borboni, Riace diviene uno dei comuni dell’Italia meridionale. Soffre i problemi del brigantaggio, dei moti reazionari, dell’emigrazione, come tutto il resto del meridione. Unica nota nel 1972 vengono ripescati in mare, di fronte alla località “Agranci” due capolavori della scultura ellenistica, i Bronzi di Riace, che hanno portato il nome della città a fama mondiale.

RIACE TRADIZIONE E DEVOZIONE

Una delle feste più sentite che caratterizza Riace è sicuramente la festa dei Santi Medici Cosma e Damiano. Le origini della festa risalgono al 1669, anno in cui sono arrivate da Roma, in dono al santuario, le reliquie dei due santi martiri dell’Oriente, mentre soltanto nel 1734 sono stati proclamati Patroni del paese. Solamente agli inizi del XIX secolo le reliquie sono state trasferite nella chiesa Matrice di Santa Maria Assunta e sistemate in un apposito braccio d’argento per far ritorno al santuario unitamente ai santi nei giorni di festa. Per la Festa dei Santi Medici vi è, ancora, una grande affluenza di fedeli delle comunità Rom e Sinti devoti dei santi medici considerati loro protettori e le cui radici sono molto antiche e profonde. Arrivano da tutta la Calabria i gitani per onorare, anche, il Beato Zeferino Giménez Malla, detto “El Pelé” (1861-1936).

CHI E’ ZEFERINO GIMENEZ MALLA?!

È un analfabeta, che si porta dietro il marchio indelebile di essere un gitano, cioè uno zingaro, “malgrado” il quale è stato elevato alla gloria degli altari. Forse, a dire il vero, più in conseguenza della morte che ha subito, che non della sua dirittura morale e della sua integrità di vita, anche se queste, da sole, già gli avrebbero meritato una corona di gloria. Ceferino Jiménez Malla nasce in Spagna nel 1861, non si sa bene dove e neppure precisamente quando, e fin da bambino conosce la precarietà della vita nomade e la povertà autentica. Fa il panieraio, tesse cioè ceste e canestri, che poi vende di villaggio in villaggio, ma le bocche da sfamare sono tante, anche perché papà ha pensato bene di andar a vivere con un’altra donna, lasciando la prima famiglia nell’autentica indigenza. A 18 anni è già sposato alla maniera gitana con Teresa Jiménez: un matrimonio felice, anche se privo di figli, che durerà più di 40 anni. Le testimonianze concordano: le condizioni di estrema povertà non riescono a fare di lui un ladro o un approfittatore. L’onestà che gli viene da tutti riconosciuta finisce per procurargli un’autorevolezza, una superiorità morale grazie alla quale acquista un ruolo di “capo” dei gitani di Barbastro e del circondario: gli chiedono consigli e lo fanno intervenire da paciere nelle liti famigliari, nelle controversie tra gitani e addirittura nelle dispute tra questi e le persone del luogo. La svolta economica della sua vita avviene per un atto di generosità: un giorno si carica sulle spalle e riporta a casa, incurante del pericolo di contagio, un ricco possidente di Barbastro, malato di tubercolosi, svenuto per strada a causa di uno sbocco di sangue. La famiglia di questi lo ricompensa con una forte somma, con la quale Zeffirino, da tutti soprannominato “El Pelè”, intraprende un redditizio commercio di muli che gli fa raggiungere un invidiabile livello di benessere. Anche nel commercio e nell’ improvvisa agiatezza si rivela però limpido ed onesto, fino allo scrupolo: chi acquista da lui sa che non avrà sorprese, perché gli eventuali difetti delle sue bestie sono messi ben in evidenza, non ammettendo frodi neppure dagli altri gitani. Eppure, un uomo così viene un giorno incarcerato perché due animali che ha comprato si sono rivelati rubati: elemento più che sufficiente per accusarlo di ricettazione o perlomeno di incauto acquisto. Pesano sul suo arresto e sul processo, certamente, la sua origine gitana ed il pregiudizio razziale che fa di ogni zingaro un potenziale disonesto. Assolto per aver dimostrato la sua buona fede e la sua completa estraneità al furto, il Pelè continua la sua redditizia attività commerciale, nonostante la quale si riduce in povertà: ha infatti le mani bucate perchè soccorre chiunque è nel bisogno ed aiuta i poveri, il più delle volte di nascosto dalla moglie che non condivide questa sua prodigalità. Prima di tutto, però, il Pelè è un cristiano convinto, che della sua fede non fa mistero: sempre con la corona del rosario in mano, attivissimo nelle associazioni religiose, impegnato nell’ adorazione notturna e nella San Vincenzo, dalla messa e dalla comunione quotidiana soprattutto da quando, regolarizzando la sua posizione anche con il matrimonio religioso, ha potuto accostarsi ai sacramenti. La rivoluzione del 1936 che scatena l’odio antireligioso, non riesce a fargli mutare minimamente la sua coraggiosa professione di fede: difatti lo arrestano nel mese di luglio, perché ha difeso un prete e perché in tasca gli han trovato la corona del rosario. Che non posa più, neppure quando amici influenti gli promettono l’immediata scarcerazione se soltanto evita di farsi vedere con la corona in mano. Lo fucilano ai primi di agosto, ancora e sempre con il rosario in bella vista, insieme al suo vescovo con il quale è stato beatificato da Giovanni Paolo II nel 1997, primo e finora unico zingaro ad essere portato sugli altari.

I SANTI COSMA E DAMIANO;

Secondo la tradizione Cosma e Damiano sono due fratelli di origine Siriana, due medici che erano detti “Santi Anàrgiri” (nemici del denaro), con questo termine sono passati alla storia, perché prestavano con assoluto disinteresse la loro opera sia ai ricchi che ai poveri, in applicazione del precetto evangelico: “Gratis accepistis, gratis date”. Inoltre, alcune scritture parlano di un loro farmaco chiamato ‘Epopira’. Sono nominati nel canone della messa e designati dalla chiesa Patroni dei medici, dei chirurghi, dei dentisti e dei farmacisti. Vissero in tempi assai difficili per il cristianesimo. Non a caso sotto l’impero di Massimiano e di Diocleziano, tra il 286 e il 305 d. Cr. si ebbero le maggiori repressioni e persecuzioni dovute al rifiuto da parte dei cristiani del paganesimo imperante e del culto dell’imperatore. In esecuzione dell’editto del 23 febbraio 303 i SS. Martiri Medici Cosma e Damiano furono arrestati con l’accusa di professare un credo religioso vietato ed il relativo processo si svolse al cospetto di Lisia, prefetto romano della Cilicia. Il loro primo biografo, il saggio Teodoreto, alla guida dell’episcopato di Ciro, dall’anno 440 al 458, ebbe a definirli ‘illustri atleti di Cristo e generosissimi martiri’. In questo luogo, sulla loro tomba, venne costruita la prima chiesa votiva, meta incessante di pellegrinaggi per venerarvi le sacre reliquie ed implorare la loro intercessione. Il Dioscoro Gentile che da pagano diviene cristiano. Egli si rivolge a Castore e Polluce, divinità greche preposte alla guarigione e li invoca per ottenere una guarigione, questi lo invitano ad avvicinarsi dicendogli, «noi non siamo quelli che tu invochi, ma siamo Cosma e Damiano».

Secondo il Martirologio Romano, erano fratelli e compagni non solo di sangue, ma anche di fede e di martirio. Studiarono assieme medicina in Siria e salirono ben presto a grande fama per la loro valentia nel curare i malati. Forse erano arabi di nascita, ma assai per tempo ricevettero un’ educazione cristiana veramente ammirabile. Animati da vero spirito di fede e di carità si servirono della loro arte per curare sia i corpi sia le anime con l’esempio e con la parola. Riuscirono a convertire al cristianesimo molti pagani . Si portavano in fretta presso chiunque li richiedesse rifiutando ogni compenso, contenti di poter per mezzo della loro arte esercitare un po’ di apostolato. In questo modo si attirarono amore e stima non solo dai cristiani, ma anche dagli stessi infedeli. Venivano da tutti soprannominati “Anàrgiri” (dal greco anargyroi, parola greca che significa “senza denaro”), proprio perché non si facevano pagare per la cura dei malati.

 

IL MARTIRIO DI COSMA E DAMIANO;

Mentre essi compivano tanto bene, ecco scoppiare la persecuzione di Diocleziano. I santi Cosma e Damiano si trovavano in quel tempo ad Egea di Cilicia, in Asia Minore. Così circa l’anno 300 i santi medici si videro arrestati e tradotti davanti al tribunale di Lisia, governatore della Cilicia. «Ho l’ordine, dice il proconsole, di far ricerca dei cristiani, punire quelli che resistono e premiare quelli che si sottomettono alle leggi dell’impero. Voi siete accusati di appartenere alla setta… Scegliete ». « La scelta è fatta, risposero i santi fratelli, siamo cristiani e come tali siamo pronti a morire ».

« Riflettete bene, soggiunse Lisia, perché si tratta di vita o di morte, non potendo, né dovendo io tollerare una ribellione alle leggi ». « Noi rispettiamo come gli altri le leggi civili, ma nessuna legge ci può costringere ad inchinarci ai vostri dei di fango; noi adoriamo il Dio vivo e ci inchiniamo a Gesù Cristo Salvatore ». Lisia sdegnato ordinò che fossero legati e flagellati. Dopo questo primo tormento, persistendo i Santi nel loro fermo proposito, ordinò che fossero gettati in mare. L’ ordine fu all’ istante, mentre una grande turba di cristiani piangeva dirottamente. Il Signore venne in loro soccorso: le onde li spinsero fino alla riva e così poterono salvarsi. A tal vista il popolo gridò : « Siano salvi i nostri medici; si rispettino quelli che il mare stesso rispetta ». Purtroppo tutte queste grida furono vane: il proconsole li voleva assolutamente morti, perciò li fece gettare in una fornace ardente. Liberati miracolosamente dal Signore, dopo altri vari tormenti, furono fatti decapitare a Egea probabilmente nel 303. Sul loro sepolcro si moltiplicarono i miracoli: lo stesso imperatore Giustiniano, raccomandatosi alla intercessione di questi santi medici, fu guarito da mortale malattia e per riconoscenza fece erigere in loro onore una sontuosa basilica.

In loro onore Papa Felice IV (525-530) fece costruire a Roma una chiesa, decorata di mosaici stupendi. I resti dei santi martiri sono custoditi nel pozzetto dell’antico altare situato nella cripta dei Ss. Cosma e Damiano in Via Sacra, dove li depose S. Gregorio Magno (590-604). Vivo il loro culto in Oriente in Occidente, dove numerose chiese e monasteri di epoche diverse sono intitolate ai santi martiri “guaritori”.

 

By Carmine Verduci

il terremoto del 1783

Il grande terremoto del 1783 attraverso i documenti.

Il terremoto del 1783 fu una delle più gravi crisi sismiche della Calabria che colpì con violenza ogni città, ogni villaggio, ogni zona montuosa, collinare, costiera o pianeggiante della calabria. Un sisma che ebbe una durata davvero significativa, con 11 mesi di scosse continue e magnitudo considerevoli se pensiamo che registrò scosse comprese fra il 10°  e 11° grado della “scala Mercalli”.

Con questo articolo racconteremo uno stralcio di cronaca e più precisamente ci si concentrerà sul territorio di Bagnara, Scilla, Reggio Calabria, Palmi e Seminara (per citarne alcuni). Uno spaccato di storia che ancora vive attraverso la cronaca dei documenti antichi, che ne descrivono scenari inquietanti, arricchiti di particolari che ancora oggi fanno venire i brividi.

 Il Presagio:

I segnali premonitori da una Natura inquieta. Ma cosa stava per accadere nel Canale di Sicilia ? E’ sufficiente richiamare qualche episodio per rendersi conto della situazione.

Dopo un fine Inverno freddo e ventoso, ai primi di Maggio del 1782, l’aria sul Canale cominciò a stabilizzarsi verso una calma totale. Non una nuvola e alito di vento per tutta l’estate. La siccità s’impadronì di boschi e colture e durante gli assolati pomeriggi di luglio e agosto, cominciarono a manifestarsi autocombustioni; bruciavano ampie zone delle colline sistemate a vite che da Bagnara salivano verso Solano e Seminara, le costiere di Scilla e Palmi. Chi usciva durante le ore assolate, veniva investito da folate di afa rovente e avvertiva pesantezza nel camminare, quasi che l’aria fosse di consistente spessore e s’opponesse allo sforzo d’incedere. Linee di calore,quasi delle lingue di fuoco, salivano con alternante continuità verso i paesi delle Serre, fino a oltre Tiriolo.

Fra la fine di Settembre e l’inizio di Ottobre, brezze fresche cominciarono a incunearsi nella secca di calore che attanagliava la Calabria meridionale. Il mare del Canale s’andava increspando per vasti tratti, finché venti impetuosi investirono le anse e le colline trasportando ripetuti temporali. Fra Novembre e Dicembre le piogge divennero violente. Le prime furono assorbite dal terreno come se fosse costituito da sabbia, finché cominciò a saturarsi. Il 6 e 7 dicembre un muro di pioggia si rovesciò sul Canale, fra Scilla e Bagnara, e nella notte del sette i temporali rafforzarono e in mezzo a un turbinare di lampi e tuoni, i torrenti strariparono. Il Canaletto ruppe a Bagnara gli argini invadendo il Borgo con sassi, fango e detriti boschivi d’ogni genere. A Nicastro il Terravecchia sorprese gli abitanti nel sonno trascinandone alcuni nella piena di fango e acqua e distruggendo infrastrutture e abitazioni attigue agli argini. Alluvioni si stavano verificando anche in altre aree calabresi, tant’è che a metà Gennaio 1783 risultavano isolati numerosi villaggi dell’interno a causa delle frane e dei ristagni d’acqua a che non defluivano correttamente. A metà Gennaio inoltre, si avvertì una leggera scossa di terremoto, una specie di “brivido” che sorvolò le anse del Canale risalendo fino ad Aspromonte. Ma non provocò danni e dunque passò pressoché inosservata. Fra Gennaio e Febbraio 1783, il tempo si calmò. L’aria «si fermò» e ora sembrava costituita da strati sovrapposti: fra un primo, fermo e grave e un terzo di eguale natura, ne correva uno costituito da caligine che si muoveva da Palmi e Bagnara verso il centro del Canale.

Solo un fenomeno, iniziato verso la metà di gennaio, seguitava a preoccupare i pescatori: le correnti del Canale non erano più regolari. I pescatori guardavano il mare e non riuscivano a capire quello sconvolgimento di orari fra Flusso e Riflusso e le stesse caratteristiche delle correnti.

Nella notte fra il 4 e 5 Febbraio, i marinai di una nave svedese che s’apprestava a doppiare il Capo Peloro per uscire dallo Stretto di Messina, osservarono che in profondità nel mare scuro, improvvisamente apparivano strani bagliori e globi luminosi si spostavano velocemente per poi scomparire, fenomeno frammisto a lingue di fuoco che dalla profondità raggiungevano la superficie. In quei frangenti il Capitano della nave svedese s’accorse che l’acqua del mare era divenuta calda.

Ci fu chi scorse nella notte un bagliore che provenendo dal Nord, “invase” lo Stretto diradandosi quasi subito. Ne scrisse anche un testimone oculare, Alberto Corrao.

Mercoledì 5 Febbraio, la caligine si compattò in nuvoloni che stazionavano a poca altezza dal suolo e riflettevano l’immagine sul mare grigio. La nebbia avvolgeva il Sant’Elia e il promontorio di Scilla. Difficile scorgere Messina perfino dalla vicina Reggio. Il sole appariva pallido e torbido. L’aria pesante provocava una caduta di umidità, una specie di pioggerellina monotona che ancora a mezzogiorno non mostrava d’allentare. Gli animali infine, mostravano inquietudine finché a metà giornata cominciarono a dare segni di nervosismo. Gli uccelli si radunavano in stormi e volteggiavano formando ampi cerchi cinguettando con fragore; le galline non stavano ferme e starnazzavano come impazzite; i cani abbaiavano in continuazione e tentavano di svincolarsi dai guinzagli che li fermavano alle pareti o nelle cucce; i maiali neri erano divenuti aggressivi e infine i buoi non si lasciavano avvicinare, vagando innervositi sui prati recintati. Il mare continuava ad avere comportamenti disomogenei; a riva calmo ma non trasparente; al largo e verso lo Stretto, percorso da correnti e «palombelle», tant’è che i pescatori di Bagnara ritennero prudente non “varare”.

A Reggio erano in molti ad essere “in aspettativa” di una grande calamità. Una vergine di un monastero ebbe una rivelazione in tal senso e dunque il Padre Salvo Votano fondatore dei Filippini a Reggio, uscì a predicare energicamente sulle piazze intimando il popolo alla severa penitenza.

Poco dopo mezzogiorno, un contadino s’apprestava a rientrare dai campi sui Piani della Corona,sopra Bagnara, in località Covala di Seminara o meglio in un sito poi detto Lago del Monte. Improvvisamente avvertì un fiero boato proveniente dalle viscere della terra e che si propagò per l’aria unito a colpi battenti della durata di almeno due minuti. La “romba” giungeva da “jusu”,dal Canale e pareva proseguire verso “susu”, seguendo le montagne. Simultaneamente, circa due moggia di terra si misero a ruotare per 180° e poi correre andando a fermarsi quattro miglia a sud. Il movimento lasciò indenne lo sbigottito contadino, rimasto aggrappato a lungo a un piede d’olivo anche dopo cessato il parossismo. Stava accadendo che una serie di scosse della durata di circa tre minuti, faceva precipitare lo sperone calcareo ove stavano adagiate Palmi e Seminara. La coda montuosa si spaccava a forbice: un primo troncone andava spostandosi verso la bassa valle del Petrace scivolando sullo zoccolo granitico che sta nel sottosuolo dello Stretto e sul quale poggia la struttura argillosa delle montagne aspromontane e della Costa. Un secondo troncone scorreva verso Oppido. Dai Piani di Zervò fra Delianova e Platì, la spinta sismica stava producendo una forza enorme sopraOppido, Cosoleto, Castellace, Sitizano e Acquaro. Gli sciami sismici di magnitudo fra il 6,5 e i 7,5 della Scala Richter, si susseguivano variando diposizione e quasi sempre vaste aree furono interessate da sovrapposizioni di epicentri, da Bagnara a tutta la fascia pre-aspromontana da San Luca a Catanzaro. Questa fase si caratterizzò dunque per i biblici movimenti del suolo:insieme al gigantesco avvallamento che si stava formando nel circondario di Oppido, colline e altopiani come Mojo, Croce, Zervò,vennero giù come fuscelli mentre franavano le vette dei monti Jeio,Sagra, Caulone, Esope.

Ove il terreno era compatto, l’urto aprì fenditure, crepacci e oscuri burroni  mentre falde idriche si seccavano oppure ribollimenti portavano in superficie acque evapori che formavano putridi stagni.

A Santa Cristina ci fu un cambiamento di sito: una vigna in cima a una collina, si ritrovò in pianura in un luogo ove sorgeva un oliveto che occupò il suo posto in cima alla collina, il torrente Cumi si“colmò”, così come il Boscaino. Mentre questo avveniva, un gruppo di contadini si vide inghiottire dal terreno e poi rigettare senza che alcuno avesse subito escoriazioni. Una spaccatura lunga 10 miglia si osservò da San Giorgio Morgeto fino alla stessa Santa Cristina. Un cambiamento di sito avvenne anche a Cosoleto: la piana di Cineti sprofondò di ottocento metri, una valle prese dunque il posto di un’ampia pianura. Nel sommovimento, i Principi perirono nello sprofondamento della loro casa. Tutta la famiglia precipitò nei sotterranei del palazzo per il crollo del pavimento ma il Principe ebbe il tempo di scaraventare da una finestra del pianterreno,  il piccolo primogenito, avvolto in un materasso. Si salvò invece a Palmi Pasquale Zaffiati, allievo di Genovesi che risultò poi l’unico a esser stato estratto vivo dalle macerie dell’abitato.

Lo spostamento provocò una variazione di posizione del terreno fra Setizano e la stessa Cosoleto,si ostruì così il corso di una fiumara che allagò parte della regione. Oppido dalle alture che l’ospitavano,si smembrava franando verso il basso da tutti i lati,e si “colmarono” i torrenti Tricozio e Calabrò (o Boscaino). Distrutte a Oppido le famiglie Malarbì, Grillo e Migliorini. Le spallate che dal Sant’Elia salivano verso Aspromonte o scendevano verso la Piana, dopo Polistena e Casalnuovo raggiunsero Terranova che “slamò” nel Metauro con una velocità sorprendente. La tragedia di Casalnuovo e della sua Principessa, fu narrata di voce in voce a Napoli, ove la Principessa risiedeva e da qui in Italia.  Il Palazzo di Donna Teresa Grimaldi, Principessa di Gerace era stato costruito a un piano e spiccava per la sua graziosa architettura fra le sparse case di Casalnuovo, tuffata in mezzo al folto di oliveti secolari. La Principessa stava ultimando i preparativi per trasferirsi nell’altro suo palazzo di Gioja, per soggiornarvi dopo la Quaresima.

Il radiante della Piana colpì Casalnuovo in pieno, inghiottendo gli abitanti. Il palazzo signorile crollò “in un botto” non consentendo alla Principessa e alla sua corte, di salvarsi.

Ci vollero più giorni prima di rinvenire il cadavere della dama, scoperto in un disperato gesto di fuga. Incredibile l’avventura del cuoco di palazzo. Stava lavorando dentro una loggia di legno ov’era sistemata la cucina, addossata alle mura. Quando le mura crollarono, la loggia “scivolò” insieme ad essi, col cuoco dentro, ridotto a un uccello in gabbia. Eppure si salvò. Le spoglie di Maria Teresa Grimaldi furono successivamente tumulate nella Cappella dell’Immacolata,all’interno della Chiesa Madre, fatta edificare da Maria Antonia Grimaldi dopo il 1783. A Casalnuovo (poi riedificata come Cittanova) gli avvallamenti del terreno non furono accentuati. Si trattò soprattutto di un vero e proprio abbassamento generale, tant’è che le rupi ele altre formazioni rocciose, rimasero scoperte. Si salvò solo la bellissima Fontana dell’Olmo, costruita nel 1730 e fu un’ ecatombe: il 5 febbraio in brevi momenti distrusse il lavoro di molta industria umana e cangiò in una scena di compiuto lutto ciò che dianzi sembrava il soggiorno della pace, e delle grazie. I tempi, i ricchi edifici, le umili case divennero in un fiato solo prede fatali di un terremoto, che confuse e annientò tutto in orribile modo.

 

Invece fra Casalnuovo, Radicena e il torrente Vacale, si verificarono avvallamenti repentini e “solenni”. La floridissima area agricola con i suoi molini, trappeti e fabbricati per la lavorazione e conservazione del prodotto agricolo, scomparve radicalmente. La terra sulla quale poggiava Seminara col suo Casale di Sant’Anna,si mosse come se bollisse,formando avvallamenti che si spostavano in continuazione, anche con movimento rotatorio. Questo è quanto accadde alle colline dei Piani della Corona, di Oppido, del Sant’Elia, della fascia pre-aspromontana e di Bagnara: si accasciarono.

A quel punto la furia s’arrestò. Nelle ore successive solo qualche piccola scossa; niente più. Una calma sinistra aleggiò fra le vie dei paesi diroccati mentre dalle macerie fumanti salivano i lamenti dei sotterrati e chi era scampato,  vagava piangendo di disperazione. La sera piombò sul Canale come un incubo.

Nella notte fra il 5 e il 6 febbraio infatti, un’altra scossa investì la zona terremotata. Il radiante sismico attraversò il Canale piegando sulla Piana per poi frustare la zona delle Serre. Da qui si diresse verso lo Jonio scaricando a mare una forza violenta. A seguito di questo evento, crollò a Bagnara il ponte sullo Sfalassà, costruito nell’ambito del progetto per la “Regia strada litorale”. La frana trascinò anche la grande torre di guardia o “specola” che sovrastava Bagnara, a ridosso dell’antico Passo di Solano,costruita a guardia del passo medesimo e “difesa contro i ladroni”. A fianco di Cocuzzo, proseguendo verso nord, dalla collina Giangreco si staccava una frana di un miglio quadrato e, sempre proseguendo, accadeva lo stesso per le colline rasolate; Acquaranci, Canalello, Caciapullo e Malarosa.Il movimento della Malarosa seccò il millenario corso del Gazziano, che aveva garantito l’approvvigionamento idrico della Città e del comprensorio agricolo a nord del Paese. Sopra la Malarosa, il grandioso comprensorio del Mastio di Barano si abbassò di livello sotterrando parte del bacino idrico che alimentava l’Altopiano. Il radiante sismico raggiunse da qui anche il monte Sirena che s’accasciò su se stesso coinvolgendo il quartierino orbitante intorno alla chiesa delle Anime del Purgatorio. In poco più di due minuti, a seguito di questa seconda scossa, Bagnara venne annullata nell’intera struttura produttiva, cambiata nella fisionomia, cancellati i cognomi di moltissime famiglie. Il cielo era rischiarato dagli incendi. Bruciavano: le rovine della Reale Abbazia, il Convento sede dell’antico, nobile Priorato voluto dall’Imperatore Federico II, la chiesa del Carmine eretta a Congregazione di Spirito il 16.9.1683 dal Duca D. Carlo Ruffo, San Nicola, eretta a Congregazione di Spirito nel 1710 dal Cardinale D. Antonio Ruffo, San Francesco di Paola e il Convento dei PP. Paolotti fondato nel 1683 da D. Enrico Ruffo, la chiesetta di San Sebastiano di jus patronato dei Signori Sciplini, la chiesa di S.Maria degli Angeli e parte del Convento dei PP. Cappuccini, fondato nel 1590, la Cappella di San Giacomo appartenente alla Commenda di San Giovanni di Malta dei Nobili Cavalieri difensori della Sacra Religione. Incendi anche fra le rovine dei magazzini del Duca, i palazzi signorili del Borgo che pure erano parzialmente resistiti al sismo diurno,  il fasciame delle baracche; perduti i depositi di grano, gelso,vino, olio e legname. Grave la situazione dell’approvvigionamento idrico perché le fontane non ricevevano più acqua e dei collegamenti viari coll’esterno ma anche all’interno del Paese ove le stradine Croce e Pinno, franate, erano state fino a quel momento il raccordo fra Borgo e Purello.

Nessuno poté ricevere soccorso perché gli scampati, usciti allo scoperto con circospezione e piangendo di terrore perché atterriti dai ciclopici movimenti del suolo e delle colline, non pensarono che a riparare sugli spianati di Martorano o lungo la via del Mare.

Molte scosse di bassa e media intensità iniziarono a manifestarsi, con repliche poi per tutta la notte,rischiarata dai bagliori degli incendi a Bagnara: una storia millenaria testimoniata da opere, uomini e fatti, strutturata per perpetuare la colossale opera dei padri, tutta dedicata per rendere felice la terra natia, era stata cancellata. Era stato neutralizzato il nesso passato-presente verso il futuro che, attingendo dal ciclo naturale della vita che per indole evolve accumulando esperienze e opere delle generazioni, aveva a Bagnara innescato un ciclo economico in progresso, poggiante su un senso di civile comunità della gente,ereditato dal cosciente coinvolgimento degli avi che bene avevano saputo coniugare le necessità della vita civile con le coscienze spirituali e la vocazione di essere in tanti in un’unica comunità.

IL Maremoto: “il massacro continua”

Giunse la sera anche sulle altre anse del Canale. Nessuno dei terrorizzati abitanti della Costa, si rammentò di quanto avvenuto nel pomeriggio. L’abbassamento dell’altopiano della Corona, del Mastio di Barano e del Sant’Elia, stava formando ondate di flusso e riflusso lungo la costa. Al largo fra Nicastro e Gioja nel pomeriggio, s’erano formati due cavalloni di circa 25 metri,l’uno si perse verso il largo, l’altro investì Nicotera mentre il mare si ritirava fra Gioja e il Mésima, ritornando poi come valanga d’acqua, cavalloni di venti metri, che devastò la foce del Metauro riempiendo di sabbia il Pacolino. Né rammentò che il mare era deserto perché al mattino del 5, i pescatori da Bagnara a Palmi, Bivona e Pizzo, avevano guadagnato gli scali e portato a secco le imbarcazioni, spaventati per aver notato allargo il mare sconvolgersi in un miscuglio di onde che ribollivano e gorgogliavano.

Una specie di torpore s’era impossessato dei terremotati che altro non facevano, nei momenti a ridosso dei parossismi, che cercare spazi aperti ove gettarsi a terra a faccia in giù per tentare di sfuggire al terrore.

A Bagnara la gente aveva abbandonato Purello. Il quartiere normanno, costituito da antiche abitazioni contadine di povera fattura, i “Pagghiari”, frammisti a case “solarate” magnatizie, era crollato con un effetto domino: le case della Livara erano crollate addosso a quelle del Borgo dell’Immacolata e queste su quelle del Pinno e del Castello. Le strette viuzze si erano così riempite di macerie e l’abitato divenne impraticabile per i primi tentativi di soccorso. I Bagnaroti erano sulla spiaggia a osservare gli ultimi focolai della Città che era bruciata per un giorno intero o si dedicavano a preparare grandi pire ove collocare i cadaveri. Quando sopraggiunse la notte, la spiaggia di Bagnara sembrava un cimitero all’aperto ove le cerimonie delle cremazioni, fra pianti e tremolii di terrore, si susseguivano senza interruzione. Anche a Scilla, la gente non si rammentò di alcune particolarità accadute nel pomeriggio, pervasa com’era, dal terrore per i crolli e le scosse. Domenico Puntillo (o Pontillo. Si trovava alla Chianalea (gergo attuale dell’antica denominazione Piano della Galea) e colto dal terremoto di mezzogiorno, aveva cercato rifugio su uno scoglio grande ed esteso, che raggiunse annaspando in mare. Lo seguirono colà la sorella e due nipoti. Da quel sito Puntillo s’accorse che il mare stava ritirandosi. Altro terrore ma nessuno osava saltare a riva, dove il terrore era maggiore e regnava sovrano fra gli scillesi che urlando, tentavano di mettersi in salvo.

Arrivava in quel momento da Bagnara la barca di Totò Costa, cognato del prete, colto dal terremoto al largo della stessa Bagnara. Preoccupato per la sorte della moglie, aveva vogato da esperto e con la forza della disperazione, ma non riusciva ad avvicinarsi allo scoglio perché il mare seguitava a ritirarsi e cominciava ad agitarsi. Poi il mare iniziò a bollire e la marea avanzò gradatamente verso la riva. La cerniera della Chianalea smorzò l’effetto sulla rada. Costa riuscì a governare durante il reflusso del mare, fu mandato distante dalla marea ma riuscì a tornare e caricare la moglie e il Puntillo raggiunsero la riva, ora distante e il prete condusse tutti in alto chiamandosi dietro numerosi cittadini terrorizzati. L’episodio parve occasionale e intanto giungeva la sera. Durante il giorno poi, s’erano verificati sprofondamenti sulla costiera scillese e le antiche caverne “ululanti” erano scomparse negli abissi. Alla Marina Grande gli Scillesi attrezzarono una specie di grande accampamento, utilizzando tende e coperte stese fra una barca e l’altra o ricoverandosi nelle palamatare più grandi. Sull’arenile aveva trovato rifugio anche il Principe D.Fulcone A. Ruffo. Don Fulcone non era riuscito a raggiungere la sua tenuta del Parco, sull’altopiano San Gregorio perché la strada era ostruita dalle rovine del Palazzo dei Signori Nizza, alla salita di San Giorgio.Voleva comunque abbandonare il Palazzo della Chianalea, dopo aver assistito al crollo di un’ala, e al crollo dell’antica Chiesa di S. Pancrazio. L’ottantunenne Don Fulcone, in lettiga, raggiunse dunque la Marina accompagnato da Don Carlantonio Ruffo, abate di Sinopoli, ricoverandosi nella grande paranza di Padron Mommo Baviera,che era stata tirata a secco accanto alla Chiesa dello Spirito Santo. Don Fulcone piangeva disperato. Chiamò da parte Padron Mommo, prese la mano al capo dei Marvizzi  e la chiuse fra le sue cercando, implorante, il suo sguardo: “Perdono!” scongiurò il vecchio feudatario a Padron Mommo. In quella che sembrò più di una confessione, Don Fulcone si pentiva peri mali causati agli Sciglitani e adesso li abbracciava tutti come figli ritrovati, adesso che il dolore tutti accomunava.

Quando la notte avvolse la Marina Grande, bruciava ancora l’altura di San Giorgio con la vicina Chiesa del Rosario.

I sinistri bagliori rischiaravano la spiaggia consentendo così agli Scillesi di finire di ricoverarsi fra le barche in secca, seguendo l’esempio del Principe Ruffo e del suo seguito. Iniziò a piovere e verso l’una e mezza la pioggia spense l’incendio di San Giorgio.I duemila scillesi della spiaggia, rimasero nel buio totale. Silenzio assoluto che faceva ben percepire il leggero scroscio della pioggerella sulle tende e gli armamenti di legno dei navigli. Ma all’improvviso ecco un fiero boato: la scossa fu violentissima, repentina, e falcidiante per Bagnara,come abbiamo notato. Tre minuti di terrore fecero assestare le precedenti frane. A Tiriolo, le punte di una croce di ferro che sovrastava l’entrata della chiesa dei Sette Dolori, le catene di ferro che l’assicuravano al tetto e i fili di ferro delle campane, furono pervase da «scosse scintillanti». Scintille scaturenti dalle strutture metalliche degli edifici, simili a quelle delle catene del campanile a ridosso dell’Abbazia di Bagnara, furono notate ovunque nei paesi terremotati, così come esplosioni di grossi macigni e fuoruscite di vapori dai terreni. Poi un piccolo intervallo di grande silenzio. Quindi dalla parte di Capo Pacì s’udì un fragore immenso che rimbombò nelle orecchie degli scillesi per lo spostamento d’aria che accompagnò l’orrendo rumore. Rumore che fu percepito come se una grandissima macina fosse nell’atto di tritare pietre e poi movimenti d’acqua frammisti a tonfi e fragori di grandi impatti di scogli l’uno contro l’altro. Ma fu questione di secondi.

Gli scillesi ebbero appena il tempo di voltare gli sguardi verso la sorgente di quei fragori biblici per rendersi conto di cosa fosse, quando videro venire verso di loro un altissimo e fragoroso muro d’acqua alto trenta metri, colla velocità di oltre 6 chilometri al minuto. Il maremoto s’era innescato all’imbocco del Canale, a seguito delle sollecitazioni delle numerose e continue scosse di piccola e media entità e del parossismo finale sul radiante sismico che dalle falde pre-aspromontane era sfogato sul Canale e nei fondali dello Jonio dall’altra parte,ove colpì impietosamente Roccella. Qui il mare raggiunse, in alto,il convento dei Minimi depositandovi numerose barche di pescatori. Intere borgate di pescatori furono stravolte da Grotteria a Bova a Giojosa.

In Ricordo delle 50.000 persone vittime della più grande catastrofe che colpì l’Italia meridionale nel XVIII secolo.

 

TRATTO DA:

Civiltà dello stretto “Quaderni Bagnaresi” di Clemente Puntillo

Alla scoperta del borgo di Pentedattilo (RC)

Pentedattilo: cinque dita. Cosi è chiamato questo piccolo borgo arroccato sul monte Calvario nel comune di Melito di Porto Salvo. Un borgo che cattura l’attenzione anche del più distratto, non solo per la morfologia della rocca su cui sorge ma anche per la bellezza della disposizione delle case distribuite lungo una ripida e instabile scoscesa. L’immagine di questo borgo silente è suggestiva tanto da meritargli l’appellativo di “borgo fantasma”.

Dell’antico paese di Pentedattilo si hanno notizie scritte per la prima volta nel IX secolo d.C., epoca in cui era già una cittadella fortificata, e il territorio cui faceva capo era molto esteso – dalle zone marine di Saline Joniche, passando per la Valle del Tuccio e infine arrivando alle zone pedemontane di Bagaladi. Costituì anche un centro nevralgico per l’amministrazione dell’economia agricola relativa ai terreni monastici di tutto il territorio melitese.

Nel 1500 Pentedattilo ebbe per la prima volta un proprietario laico, cioè Michele Francoperta, figlio di Ferrante; nel 1509 il feudo venne acquistato dalla famiglia Alberti di Messina che furono in gran parte protagonisti del clima di rinascita culturale ed economica che il nuovo secolo portò con sé; la casata degli Alberti è diventata famosa in Calabria a causa di un evento funesto: l’eccidio della nobile famiglia, compiuto a opera del barone Abenavoli del Franco di Montebello Jonico.

La strage si consumò la notte di Pasqua del 1686 a causa di dispute sui confini e in parte del rifiuto da parte del fratello di Antonia Alberti di concedere la stessa in sposa a Bernardino Abenavoli. In quella tragica notte venne dato l’assalto al castello e gran parte della famiglia Alberti venne massacrata: non vennero risparmiati né donne né bambini. Nei secoli a seguire Pentedattilo venne dapprima danneggiata dal terremoto del 1783 e in seguito cedette il passo a Melito di P.S., diventando una sua frazione. Oggi la parte antica del borgo è parzialmente in abbandono; ma grazie all’impegno di alcune associazioni sta divenendo un suggestivo centro di cultura e per l’artigianato locale, che si può ammirare nelle casette riadattate a bottega.

Dalla statale 106 è possibile ammirare la sua particolare collocazione che, soprattutto di sera, lo trasforma in un vero e proprio presepe. E’ facilmente raggiungibile in auto ed è possibile visitarlo interamente anche attraverso un percorso di trekking ad anello che consente di ammirarlo nella sua totale bellezza. In modo particolare, al calar del sole, la punta delle dita di questo gigante dormiente si colorano di rosso mentre il tepore dell’aria si fa sempre più denso.

Lo sguardo si perde in mezzo alle infinite vallate circostanti, solcate dalla fiumara Sant’Elia che partendo dagli altopiani dell’Aspromonte e costeggiando le frazioni del comune di Montebello raggiunge la spiaggia di Melito di P.S. per poi perdersi nelle trasparenti acque del mar Jonio. L’erosione di questa rocca di arenaria causata dagli eventi atmosferici la stanno lentamente consumando; anche i ruderi del castello, visibili solo in parte, si stanno progressivamente sgretolando. Probabilmente in futuro resterà ben poco delle antiche vestigia, ma la storia e la memoria di questo borgo continuerà a viaggiare attraverso i racconti e gli scritti, perché la conoscenza non muore ma si conserva nella memoria di chi ama la propria terra.

By Cristian Politanò

antonello gagini

Il Marmo che vive attraverso l’opera di Antonello Gagini

Il Rinascimento in Italia ebbe una notevole rivoluzione nelle arti, in un periodo storico che fu sicuramente contraddistinto dall’ innovazione scientifica unito ad una fiorente concezione dell’arte espressa in ogni modo, dalla pittura alla scultura, passando per l’architettura e la filosofia. In Calabria non è difficile trovarsi di fronte ad un’opera di bottega Gaginiana, ciò equivale a fare un salto nella storia dell’arte Italiana e nella storia del meridione d’Italia intesa come “espressione artistica” che mostra la sua massima diffusione già sul finire del 1400 e fino gli inizi del 1600.

Antonello Gagini (o Gaggini) 1478 figlio d’arte, allievo del Padre Domenico Gagini, scultore Ticinese che operò in Italia e specialmente in Sicilia, dove insegnò al figlio l’arte della scultura fu un grande scultore e architetto, alla sua morte nel 1536 la sua opera proseguì grazie ai figli Giandomenico e Antonino avuti dalle seconde nozze, che continuarono il mestiere del padre, (dunque la Bottega Gagini) ha poi continuato a produrre gran parte delle opere citate, per cui vanno le precisazioni dovute. Alla morte di quest’ultimi Giandomenico e Antonio i figli proseguirono i fino alla terza generazione che lavorò per tutte le committenze in Sicilia, Calabria e in tutto il centro Italia, realizzando numerose opere sacre e monumenti funebri fino alla morte dell’ultimo erede di famiglia Giacomo Gaggini morto intorno al 1627.

Molte sono infatti le opere incompiute del padre che dopo la sua morte, vennero poi completate da Antonello.

La scultura di Antonello, il tocco del suo scalpello, la ricerca nei particolari e nei volumi nelle figure rappresentate, sono una firma inconfutabile. Difficile non rimanere estasiati di fronte un’opera Gaginiana (o di Bottega). I drappi delle sue figure, le espressioni dei volti che caratterizzano ogni scultura, caratterizzano in maniera incisiva la maestranza nel saper rendere quasi viventi ed eteree le figure da lui rappresentate. Sculture che sembrano farci percepire lo stato d’animo dell’opera, per la maggior parte figure sacre, di Madonne sotto vario titolo. La voluminosità delle stoffe che ricoprono il corpo dei personaggi sono l’espressione più evidente delle tecniche che oggi portano la firma del rinascimento del meridione d’Italia. Sembra che l’artista con il suo tocco volesse far vivere il marmo bianco di Carrara con cui ama plasmare i corpi delle figure. Opere, che gli vennero commissionate in tutta Italia da parte di alti prelati o più comunemente da nobili famiglie dell’epoca. Sculture che oggi si trovano in numerosi santuari e chiese del Sud Italia … soprattutto nell’ area della bassa Calabria. Antonello Gagini ci lascia oggi un patrimonio di inestimabile valore storico e di immane bellezza, spesso al centro di numerose diatribe sull’ attribuzione. Fra questi non possiamo non menzionare il gruppo marmoreo dell’ Annunciazione, venerata nella Chiesa di S. Teodoro a Bagaladi (RC) dove le figure sembrano dialogare fra di loro, con una naturalezza tale che sembrano rievocare il momento, con un gioco di sguardi ed espressioni che riescono a disarmare lo spettatore.

Annunciazione a Bagaladi (RC) – Photo Nicola Santucci

Come non stupirsi delle fattezze della statua della Madonna col Bambino a Roccaforte del Greco (RC). Non possiamo però dimenticare anche il mezzobusto di Maria Santissima della Lica o dell’Alìca (attualmente custodito nella chiesa parrocchiale dello Spirito Santo a Pietrapennata, frazione di Palizzi (RC) anticamente venerata in un monastero dedicato alla stessa, che oggi ridotto in rudere, è diventato meta di studiosi ed escursionisti.

Madonna dell’ Alica Pietrapennata di Palizzi (RC)

Ma l’esempio degli esempi, che rende l’opera di Antonello Gagini suprema ed eccelsa è sicuramente la Madonna della grotta di Bombile (Rc), una statua di straordinaria bellezza dalle fattezze sovrumane e forse una delle opere più belle dell’artista, che più rappresenta la bottega Gaginiana in Calabria. Su quest’opera aleggiano misteriose leggende. Si racconta infatti che la statua sia stata scolpita da mani angeliche, un miracolo divino che trasformò il modello in gesso non ancora terminato dallo scultore, nella statua di marmo d’alabastro che conosciamo oggi. Un prodigio, che pare si verificò poco prima di tutti gli altri miracoli, che portò alla sua collocazione in quello che fu il luogo dove venne venerata da fedeli nel mese di Maggio in un Santuario scavato nella roccia tufacea che il 28 maggio 2004 una frana sepolto definitivamente sotto tonnellate di roccia, cancellando cosi secoli e secoli di storia. Il questa triste occasione fortunatamente la statua è rimasta illesa nel crollo. Oggi la statua si trova nella chiesa parrocchiale dello Spirito Santo del paese di Bombile (RC) che accoglie ogni anno centinaia di fedeli provenienti da Sicilia e Calabria.

Madonna della Grotta Bombile di Ardore (RC)

Vi è da dire, che un po in tutta l’area Grecanica vi sono opere dello scultore Palermitano, esistono infatti anche molte opere non ancora riconosciute o presumibilmente attribuite ad altri scultori, come ad esempio la Vergine col Bambino a Bova (RC) nella concattedrale dell’ Isodìa dove sull’altare maggiore troneggia questa bellissima scultura a mezzobusto della Madonna, fino a qualche tempo fa, si pesava fosse opera di Antonello Gagini, ma stando agli studi sull’opera si è rilevato che la statua fu commissionata allo scultore siciliano Rinaldo Bonanno. Caso analogo è stato anche a Staiti (RC) piccolo borgo medievale alle propaggini sud orientali dell’Aspromonte dove all’ interno della chiesa dedicata a Santa Maria della Vittoria vi è collocata su una nicchia laterale una Statua della Vergine col Bambino che è stata attribuita per anni alla bottega Gaginiana, ma in realtà la statua datata 1622 risulterà opera dello scultore Martino Regi come appunto rileva il basamento nel retro che porta la sua firma incisa.

Madonna col Bambino a Staiti (RC)- Photo Carmine Verduci

Altre opere di grande pregio e bellezza non possono passare inosservate, fra tante troviamo a Soverato superiore (CZ), nella chiesa dell’addolorata, come non rimanere incantati di fronte alla Pietà del Gagini che esprime la tenerezza e la compassione della Vergine Maria con il Cristo in braccio. E infine il Trittico del Duomo di S. Leoluca a Vibo Valentia eseguito negli anni 1524-34, opera commissionata dal Duca di Monteleone e vicerè di Sicilia Ettore Pignatelli per la chiesa di S. Maria de Jesu, e poi ancora; la Madonna col Bambino della chiesa di S. Bernardino d’Amantea (CS), commissionata dal nobile Nicola d’Arco; e la Madonna degli Angeli della collegiata della Maddalena di Morano Calabro (CS).

La Pietà a Soverato (CZ) – Photo Luigina Larizza

Molte altre opere disseminate sul territorio Calabrese non sono state ancora attribuite o nella maggior parte dei casi, si pensa abbiano a che fare con la bottega Gaginiana come il caso della statua della Madonna della Catena a Bruzzano Zeffirio (RC) custodita proprio nel piccolo santuario sorto sul luogo del miracoloso ritrovamento, recentemente restaurata, ma che denota molti dubbi sull’attribuzione al Gagini in tal senso.Come ad esempio la statua della Madonna della Neve custodita e venerata nella Chiesa Matrice a Bovalino Superiore (RC), per citarne alcune…

Madonna delle Catene Bruzzano Zeffirio (RC) – Photo: Sonia Musitano

La scultura Gaginiana in Calabria è una ricca costellazione di opere di grande pregio, che oggi arricchiscono importanti chiese e Santuari. Tutte queste opere rappresentano per noi, popolo calabrese una ricchezza di inestimabile valore, da custodire, ammirare e divulgare, specialmente nelle scuole. E’ dunque impensabile non annoverare tali esempi del Rinascimento Italiano che si avvale di maestranze artistiche che appresero dai grandi maestri Fiorentini dell’epoca tecniche e segreti, portando la scultura sacra a livelli equiparabili ai virtuosismi dei grandi maestri rinascimentali che noi tutti oggi conosciamo.

 

(By Carmine Verduci)

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