il futuro nelle nostre radici

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Profumo di Primavera; tra riti e tradizioni Calabresi

Un antico proverbio recita “Quandu fhjurìscia ‘a bruvèra, arrivàu ‘a primavèra”.

La primavera è tornata, lo annunciano gli alberi fioriti degli altopiani calabresi, come la bruvera (erica), arbusto sempreverde, utilizzato per la lavorazione delle pipe e per la realizzazione di alcuni strumenti musicali tradizionali calabresi.

Convenzionalmente l’equinozio di primavera coincide con il 21 del mese, ma quest’anno, alle 22;24 del 20 marzo, siamo già entrati nella stagione “fhjuruta” e non per sola pura coincidenza siamo a metà della quaresima.

I falò di San Giuseppe, ancora in uso in alcune regioni della nostra penisola, avvengono proprio la vigilia dell’equinozio di primavera, e affondano origini nei riti dionisiaci, che segnavano la fine dell’inverno e il risveglio della natura. Nelle società contadine, inoltre, si attribuiva proprio al Santo Falegname, il rito simbolico di “segare” a metà i quaranta giorni di quaresima.

In Calabria come in tutta Europa, sono molto diffusi riti di fertilità e di buon auspicio per il raccolto, per aver superato l’inverno che come recita una filastrocca calabrese è sempre duro e difficile: “Sona e canta, pecuraru, ch`è venuta ‘a primavera. Alla faccia ‘e Jennaru, quandu facìa chiddha nivèra.” (Suona e canta, pastore, che è giunta la primavera. A dispetto di Gennaio e delle sue fredde nevicate.)

Quest’anno la festa di San Giuseppe è coincisa con la quarta domenica di quaresima, giorno in cui, nelle società tradizionali, venivano interrotte, per un giorno, le restrizioni e privazioni quaresimali, un tempo osservate con maggior riguardo. In Calabria, le memorie su queste ritualità sono del tutto cancellate ma fortunatamente ne troviamo traccia negli scritti di alcuni etnografi come Vincenzo Dorsa, il noto scrittore calabrese di origine arbereshe: “Quando la quaresima è giunta a metà del corso, le donnicciuole serrano la vecchia, festeggiando il punto medio della stagione tenebrosa con mangiare in compagnia di amiche, mele, fichi, castagne e altri cibi simili…” – Segare a metà quaresima” un fantoccio fatto di paglia e stracci o spezzare a metà un dolce a forma di pupa è comune a molti paesi della penisola.

La letteratura calabrese ci riporta anche l’usanza di dare il benvenuto alla primavera, così da accattivarsi le simpatie del mese pazzerello e salutare la vecchia stagione, simbolicamente scacciando via “Frevaru, curtu e amaru”.

A Villapiana, grazioso borgo, dell’alto cosentino, ancora oggi, nell’ultimo giorno di febbraio, ci si ritrova nella piazza principale del paese e ci si aggira per le strade facendo rumore e baccano con latte, pentoloni, coperchi, trombette, e strisciando per terra cianfrusaglie così da allontanare con l’assordante frastuono le negatività, scacciare febbraio e dare il benvenuto a Marzo, per detta dei villapianesi «Jam`a scuntruè a Marz». Si tratta di una sorta di festa – rito propiziatorio, che ritrova le origini nel mondo classico, greco.

Numerosi i proverbi, le filastrocche e le leggende che evidenziano quanto Marzo sia un mese pazzerello e caratterizzato dall’instabilità climatica. Si tramandano a tal proposito colorite espressioni dialettali come: “Eu su marzu marzicchiu, nu jornu ti vagnu, nu jornu t’assulicchiu”. “Megghju mammata ma ti ciangia ca u sula ‘e marzu ma ti tingia”. ; e ancora: “U friddu ‘e marzu trapana ‘u cornu d’o viteddhazzu e ammazza ‘a vecchia nto jazzu!”

Marzo passa improvvisamente dal sole alla pioggia, dalla pioggerellina ai raggi di sole così da regalarci spesso piacevoli e incantevoli spettacoli naturali: oltre ai prati verdeggianti, ai mandorli e ai peschi in fiore anche qualche meraviglioso Arcobaleno. La forma dell’arcobaleno dà l’idea di un collegamento, una scala tra terra e cielo, un passaggio dal materiale al divino.

 

 

 

Nella credenza popolare calabrese era di buon auspicio l’arcobaleno serale. Al contrario quello mattutino, non designava la fine della pioggia, ma annunciava forti temporali pomeridiani: “Arcu sirala bonu tempu matinala. Arcu matinala, si sbacanta e s’inchia ‘u cannala.”

È veramente raro vedere per intero un arcobaleno… Secondo la credenza popolare calabrese nel punto in cui finisce l’arcobaleno si trova un tesoro nascosto. Anche in Irlanda si tramanda che nel punto in cui termina l’arco c’è un pentolone d’oro sorvegliato da un piccolo gnomo. Tante le leggende legate a questo fenomeno ottico atmosferico, un vero magico spettacolo della natura… con i suoi sette colori…

 

 

Nei dialetti armeni, l’arcobaleno è detto cintura di Dio, cintura di Gesù, cintura della Vergine Maria, cintura di San Karapet, cintura del padrino, Assuimishkap .

In Galizia l’apparizione dell’arcobaleno è attribuita ad una divinità precristiana, una Vecchia Filatrice, dea creatrice e distruttrice. Si tramanda avesse sette figlie e che fosse influente sul clima. In Galizia l’arcobaleno è chiamato “Arco da Vella” (arco della Vecchia) e in un canto popolare la Vecchia dopo aver mangiato tanto, esplode e subito dopo in cielo è apparso un arcobaleno.

In Sardegna, come in Spagna, la Vecchia filatrice, detta Filonzana o Filandorra è responsabile dell’apparizione dell’arcobaleno.

Anche in Calabria, le tracce di questa figura ancestrale sono ben visibili nei modi di dire, in canti, in leggende e nei nomi di alcune località. Ne sono un esempio la “Timpa della Vecchia” a San Sosti, borgo cosentino che sorge in una conca nell’alta valle dell’Esaro e l’Elce della Vecchia, piccola verdeggiante contrada di Guardavalle, in provincia di Catanzaro.

La figura della vecchia filatrice è personificata dalla moglie di Re Carnevale, rimasta vedova nella notte di Martedì Grasso… Nelle società tradizionali le privazioni quaresimali dettate dalla dottrina cristiana erano osservate con maggior rigore. Tant’è che l’immaginario popolare ha conferito un volto alla quaresima… 40 giorni di restrizioni, sono un vero sacrificio.

Ed è “Corajisima” che li faceva rispettare. Si tramanda, che la brutta Vecchia, alta e smilza, disponesse, in un luogo appartato del paese, dei calderoni di acqua bollente, per scottare la gola, di quanti avessero mangiato carne e non avessero rispettato le proibizioni quaresimali… dopo ogni brutto temporale risplende il sole e appare un meraviglioso arcobaleno… così dopo ogni sacrificio si hanno delle soddisfazioni… e dopo i quaranta giorni quaresimali risuoneranno a festa, anche quest’anno le Campane.

Testo e foto di Andrea Bressi 20/03/2023

 

 

Borghi della Calabria; tra Tradizioni e Cultura Vinicola

FARE IL VINO, OPERAZIONI E PRATICHE DI CANTINA

La viticoltura in Calabria, iniziò al primo millennio a.C.. La penisola calabrese una volta era abitata dai Bruzi, popolazioni di stirpe indoeuropea che penetrarono in diverse ondate in Italia. I Greci a partire dal 750 a.C., colonizzarono le coste della Calabria, che chiamavano “Enotria” (Terra del Vino). Con le colonie Greche si andarono a creare due tipi di viticoltura, una di origine Italica, all’interno, e l’altra di origine Greca, lungo le coste, con centri di commercio a Crotone, Locri e Sibari.

Con l’arrivo dei Romani, si andavano a sostituire i vini greci. Alla fine dell’800, la fillossera portò alla completa distruzione dei vigneti della Calabria. Per molti anni la Calabria ha offerto vini da taglio sia ai produttori italiani che esteri.

La Calabria è, infatti, portavoce di un’antica tradizione vitivinicola locale

Nonostante poco meno del 10% del territorio regionale sia pianeggiante e gli ettari vitati ammontino a meno di 20.000, la regione Calabria è capace di distinguersi ed affermare la sua posizione nel ricco quadro vinicolo italiano grazie agli alberelli di uve autoctone come il Gaglioppo e il Magliocco ed il duro lavoro di piccoli artigiani vignaioli che credono costantemente nell’ enorme potenziale di questa terra baciata dal sole.

La Pigiatura

La pigiatura è la prima operazione meccanica a cui viene sottoposta l’uva dopo la vendemmia, ed ha la funzione di estrarre il succo e la polpa dagli acini, dando vita al mosto che dovrà poi essere trasformato in vino. E’ un’operazione particolarmente delicata che va eseguita con attenzione. E’ fondamentale che le uve non abbiano subito una pigiatura per schiacciamento durante il trasporto, cosa che potrebbe innescare fermentazioni indesiderate. La pigiatura viene condotta su uve intere utilizzando delle macchine chiamate pigiatrici.

La pigiatrice più utilizzata è quella a rulli, costituita da un telaio sul cui fondo sono poste una o due coppie di rulli di pressatura in gomma alimentare la cui rotazione schiaccia delicatamente gli acini. A seguire viene condotta la separazione dei raspi dal pigiato, ossia la diraspatura. Questa operazione può venir condotta direttamente sulla massa immediatamente prima della pigiatura utilizzando delle macchine particolari dette pigiadiraspatrici.

 

I Palmenti Rupestri

I palmenti rupestri sono gli antichi impianti di produzione vinicola. Essi sono ricavati su rocce di arenaria, spesso isolate, nelle quali erano solitamente scavate due vasche comunicanti tra loro da un foro.

I palmenti erano destinati alla pigiatura delle uve ed alla fermentazione dei mosti.
Il mosto ottenuto viene trasferito in fermentatori di legno, dove i lieviti aggiunti attiveranno la fermentazione del mosto a contatto con le vinacce (bucce e vinaccioli).

 

La Macerazione

La fase che contraddistingue la vinificazione in rosso da quella in bianco è  la macerazione. Nel mondo enologico il termine “macerare” indica il contatto della parte solida, quindi le vinacce, con la parte liquida, il mosto. Fondamentale per il prodotto finale che si vorrà ottenere è il tempo di macerazione: nei primi giorni del processo si estraggono soprattutto gli antociani, che conferiscono colori molto intensi in poco tempo. Nei giorni a seguire, parte dei pigmenti vengono riassorbiti dalle bucce andando a indebolire l’intensità del colore, ma conferendo più struttura e gusto al vino grazie ad una maggior estrazione di tannini e altri composti polifenolici. La quantità di colore e di sostanze estratte dipende sempre e comunque anche dal vitigno. Alcune varietà “cedono” più antociani di altre, etc. Durante la fermentazione le vinacce vengono spinte in alto dall’anidride carbonica e formano uno strato chiamato cappello, il quale limita il contatto con la parte liquida. Per rompere il cappello e rimescolare le bucce con tutto il mosto si ricorre dunque a diverse tecniche.
Una di esse è la follatura, un tempo era realizzata a mano con un bastone con cui si spingevano in basso le bucce dentro il mosto.

La Torchiatura

Una volta fermentata l’uva si procede con la fase della Torchiatura. La torchiatura può essere fatta con un torchio meccanico o idraulico. Vengono sistemate nel torchio le vinacce bagnate e vengono pressate, in questo modo avviene la separazione delle bucce dal succo d’uva. Le bucce pressate possono essere impiegate per fare ottimi distillati oppure per concimare in modo naturale il terreno.

Dopo la torchiatura, si ripone il succo d’uva nelle botti di legno o nei contenitori di acciaio inossidabile a seconda della destinazione finale del nostro vino.

 

 

A cura dei Volontari del Servizio Civile Universale- Pro Loco di Brancaleone APS

Progetto grafico a cura di Leonardo Condemi
Materiale fotografico a cura di Domenico Rodà

Cavalli infuocati nelle notti d’estate

Difficile stabilire luogo e origine di una tradizione, Bruno Cimino nel suo volume “Tropea perla del Tirreno” scrive che “per ricordare la cacciata definitiva degli infedeli saraceni dal territorio di Tropea… durante la festa de “i Tri da Cruci” si rappresenta una tra le figure più odiate dal popolo, quella dell’infedele turco quando in groppa ad un cammello girava per la città e per i casali con il compito di riscuotere le tasse. La singolare rievocazione si svolge con la cattura dell’usuraio, raffigurato da un fantoccio, che viene legato ad un cammello di legno imbottito di fuochi pirotecnici accesi per l’allegorico “ballo du cameju“.

A Seminara, ci racconta il farmacista Domenico Spinelli, si esce anche con lo “Scavuzzu“, lo schiavetto, uno strano personaggio nero in groppa ad un cammello. Lo Scavuzzo segue il corteo dei giganti che sono preceduti a loro volta da un fantoccio di un cavallo che apre il festoso corteo processionale. Questi fantocci ricoperti di carta velina, di tessuto o nudi di canne legate, sono sempre ciucci, cammelli e cavallucci simulacri di animali arcaici che vengono costruiti per sfilare lungo le strade dei nostri paesi, da soli o con i giganti. Sono animali finti che simboleggiano goffi personaggi del periodo saraceno, l’ingresso dei normanni, il trionfale ingresso a Messina di Ruggero d’Altavilla, o semplicemente voraci belve che mangiano di tutto. Secondo alcuni racconti popolari il ballo si riferisce all’incendio delle navi musulmane ad opera della flotta cristiana nella Battaglia di Lepanto. Altre volte il fantoccio dell’animale viene bruciato e questa operazione ha dei riferimenti propiziatori, di protezione, con una funzione apotropaica: il fuoco purificatore chiude la festa e riporta la normalità del quotidiano vivere.

I camejuzzi i focu sono costruiti da scheletri di canna lavorata e da listelli di legno, che vengono rivestiti di carta e successivamente abbelliti con carta velina di diversi colori. Alla costruzione provvedono di solito sempre le stesse persone, fuochisti che tramandano a familiari le esperienze e le informazioni necessarie. Questi personaggi animaleschi sfilano la sera a conclusione della festa e culmina con l’accensione dei fuochi pirotecnici. Un ballo infuocato per purificare il territorio dalle influenze negative, è questa la profonda simbologia di questo rituale di chiusura delle feste nei nostri paesi.  La tradizione del camejuzzu i focu tende a sottolineare la funzione protettiva dalle negatività con il suo sopravvissuto rituale di esorcizzazione del nemico invasore turco. Per alcuni “u camejuzzu i focu” simboleggia proprio la cacciata dei musulmani che, per un certo periodo, dominarono alcune città della Calabria ed andavano a riscuotere i tributi con i loro cammelli. 

Nel ballo infuocato viene allestito un cammello costruito in modo rudimentale con delle canne riempite di polvere da sparo e cariche esplosive e girandole esplodenti. Quando la festa si conclude un uomo si carica sulle spalle il cammello di canne ed inizia a ballare al ritmo frenetico di tamburi assordanti. Il ballo si protrae per circa un quarto d’ora o mezz’ora tra fumo, spruzzi colorati di fiamme, scoppiettii di petardi e poi I 8n crescendo fino all’esplosione della girandola colorata posta all’altezza della coda”.

 

Fonte: https://www.italiamappata.it/calabria/vv/2105-favelloni/storia/

Tradizioni; Corajisima la pupa segnatempo dalle origini remote

Dopo le abbuffate del Martedì Grasso tra polpette e salsicce, risate e commozione, muore Carnevale, onorato con cortei funebri, roghi e altri riti ancora in uso in molti paesi calabresi. Resta il dolore della moglie di Carnevale, la vedova Corajisima che nell’immaginario popolare è rappresentata da una vecchia, alta e secca, dall’aspetto inquietante avvolta in stracci neri.

In molti centri della nostra regione, si tramanda che da mezzanotte di martedì grasso Corajìsima, comincia ad aggirarsi per le vie del paese ed è solita disporre, in un luogo appartato, dei pentoloni pieni di acqua bollente per scottare la gola di quanti non rispetteranno le privazioni del periodo quaresimale.

Dal mercoledì delle ceneri, ancora oggi, è molto facile vedere, fuori dalle abitazioni, alle finestre, ai balconi, sulle porte o sospese a un fino teso da una casa all’altra, delle rudimentali pupattole vestite con un lungo abitino nero, dalle faccine di stoffa bianca sulle quali risaltano gli occhietti neri, il naso e la bocca ricamati. Sono le corajìsime, fantocci rituali dalle origine remote, rappresentate nell’atto di filare, che reggono tra le mani il fuso e la conocchia, unite dal filo, che rappresenta lo scandire del tempo, di questi quaranta giorni di penitenza e digiuno dalle carni, comportamenti sobri e in generale privi di eccessi alimentari, un tempo osservati da tutti con un certo rigore.

Infatti molto spesso le corajisime sono addobbate con collane di castagne, uvetta, fichi secchi, o laddove le pupe sono sospese ad una corda, sulla stessa possiamo ritrovare sarde, aringhe, code di baccalà e altri simboli del magro.

Ai piedi, o sulla testa delle pupattole, a seconda delle località, viene posta un arancia selvatica o anche una patata, con conficcate sette penne di gallina. Ogni domenica che passa, se ne  strappa una.

Un tempo il più giovane della famiglia assumeva il compito di tirare l’ultima penna nel giorno del Sabato Santo, quando le campane riprendevano a suonare a festa per annunciare la resurrezione di Cristo.

In alcune località, era previsto un rito di eliminazione del fantoccio, un modo per vendicarsi con Corajisima per le sue dure privazioni. Era comune bruciare la bambola per allontanare le negatività, ma c’era anche chi la conservava per riesporla nell’anno seguente. Nell’immaginario popolare, quandu spara ‘a Gloria Pasqua scaccia via Corajisima dicendo:

Nesci tu sarda salata
ca trasu eu la ricriata.
Ma recriu sti zzideddhi
cu li beddhi cuzzupeddhi.

E’ finalmente possibile per i bambini, e non solo, consumare i desiderati dolci pasquali (come le gute, le cuzzupe ecc ) e ritornare a mangiare i cibi grassi.

 

Di Andrea Bressi

Tradizioni in Aspromonte; La Musulupara

Con il termine di musulupara si identifica nell’Aspromonte meridionale uno stampo per formaggio quaresimale chiamato musulupo. Intagliati solitamente in legno di gelso questi stampi raffigurano sovente una figura femminile, dai tratti stilizzati. I fori, spesso in corrispondenza dei seni, servivano a far defluire il siero, al momento della pressatura della cagliata sullo stampo, garantendo l’impressione, sul formaggio, dell’immagine intagliata.
Il nome di questo stampo si lega a quello del musulupo, una sorta di toma, il cui termine deriva dal dialetto calabrese, muso lupo, traduzione dell’espressione in greco bovese “to mousso tou likou” (muso di lupo).
Secondo il Rohlfs si tratterebbe di un arabismo, “maslûk” (cotto), importato in Calabria durante la dominazione musulmana della Sicilia. Sull’isola il vocabolo musulucu si riscontra ad indicare sia diversi tipi di formaggi, sia persone dall’aspetto molto magro, forse in allusione alla Quaresima.
Nell’Aspromonte meridionale, il musulupo si prepara infatti nel periodo pasquale, servendosi di due diverse tipologie di stampo che gli conferiscono ora una forma semisferica, simile ad una mammella, ora un’immagine femminile, priva di gambe e di grazia, vista la forte componente astratta che qualifica di norma gli intagli. Il formaggio si consuma fresco o rosolato a pezzetti, come ingrediente principale di una frittata, servita la mattina della vigilia di Pasqua. Fino agli anni Cinquanta del secolo scorso le musulupare erano un dono tipico del fidanzamento.
La foggia a seno della musulupara, in parallelo al colore bianco della toma, lasciano intendere possibili riferimenti alla maternità o più in generale alla fertilità della terra. Più complessa appare l’identificazione dell’immagine femminile, secondo alcuni allusiva alla Vergine, nei tratti stilizzati delle icone bizantine o delle enkolpia altomedioevali.
Interessanti collegamenti si riscontrano con la tipica rappresentazione della Quaresima, immaginata nel folklore dell’Italia meridionale come una vecchia magra, spesso raffigurata con la bocca chiusa, in segno di digiuno, e con sette piedi, ad indicare le sette settimane di Quaresima, (ogni sette giorni una gamba veniva recisa, per mostrare quante settimane di astinenza rimanevano fino a Pasqua).  
Non è quindi da escludere che il cerimoniale di distruzione della Quaresima si incarni nel consumo stesso del musulupo, secondo un rituale non dissimile dallo smembramento delle “pupazze di Bova”, manichini femminili, costruiti con foglie di ulivo, portati in processione la Domenica delle Palme.
Fonti: Pasquale. Faenza
scheda Musulupara in Cibi e pietanze del mondo antico: un viaggio tra quotidiano, rituali ed etnografia–catalogo della mostra, Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria,
(3 Ottobre -15 Dicembre 2015) a cura di R. Agostino, F. Lugli, Laruffa, Reggio Calabria, 2015, pp. 51-52.

Il Racconto di Caterina “La Festa della Madonna Annunziata” a Motticella

Ai piedi del monte Scapparrone (1058mt s.l.m.) incastonato tra le rocce del vallone Bambalona sorge, quello che un tempo è stato uno dei più bei paesini del nostro entroterra pre-aspromontano, tanto antico quanto caratteristico. Ricordiamo che “Motticella” diede i natali a Vincenzo Mollica (noto giornalista Rai), il poeta Luciano Nocera, la poetessa Caterina Zappia, e Domenico Marino (Noto Artista e Fumettista conosciuto anche come Mico Marino).

Oggi Motticella frazione di Bruzzano Zeffirio, è un piccolo borgo che sorge tra il Torrente Bruzzano ed il Torrente La Verde abitato poco più che da una manciata di persone, dove il monte Scapparone o “Scapparruni” (come viene chiamato in dialetto locale) lo veglia fin dalla notte dei tempi con la sua inquietante maestosità che sembra proteggerlo ed abbracciarlo.

Durante una delle mie visite al borgo, ho conosciuto la Sig. Caterina, che vista la mia curiosità interessata proprio alle antiche tradizioni popolari, dopo le presentazioni del caso e qualche breve discorso, non esitò ad invitarmi a casa sua. Eeh si….; la gente qui ha l’ospitalità , insita nel sangue tipica della cultura Greca, che caratterizza la gente della nostra meravigliosa Calabria, che affonda le proprie origini nei tempi più remoti, dove l’accoglienza era un valore primario nella vita quotidiana, in ogni casa e in ogni nucleo familiare. Entrai nella Casa, e sedendomi davanti al fuoco dove la legna scoppiettante scandiva gli attimi di un pomeriggio cupo ed uggioso, tipico di quelle giornate invernali, di quando lo scirocco irrompe dal mar Jonio creando un manto esteso e grigio che non lascia intravedere il cielo azzurro di queste parti. La Signora Caterina, dopo avermi offerto ogni ben di Dio, con voce rotta e nostalgica si rivolge a me ed inizia a raccontarmi:
<<Oggi ti parlerò di quella che una volta era l’icona più venerata della Vallata, e di cui ormai oggi non ci rimane che raccontare a voi giovani, quella che fino agli anni ’60 era una festa molto sentita e partecipata. Parlo della statua della Vergine Annunziata che si trova nella piccola chiesetta al centro del paese intitolata oggi a San Salvatore. Sull’altare minore giace la scultura lignea, risalente probabilmente al 1800, dai colori brillanti e dal volto materno che invaghiscono l’occhio. Ella, è raffigurata inginocchiata davanti all’angelo annunciatore, e porta in capo una corona, che nel corso degli anni è stata cambiata svariate volte dai devoti per grazia ricevuta. Alle spalle della statua c’è un arco con motivi decorativi di fiori in ferro battuto, argento e bronzo, anch’esso dono di devoti per grazia ricevuta. Per i suoi festeggiamenti la statua veniva deposta dall’altare il 24 Marzo di ogni anno, e portata in processione verso la chiesetta del Cimitero, a circa 1Km dal paese per iniziare così la novena.
L’armonia che si creava proprio in quei giorni di festa era incredibile…, sembrava trovarsi dentro una favola, i fedeli provenivano da tutti i paesi vicini: Samo, Bianco, Staiti, Africo, Casignana e perfino da Reggio Calabria. Proprio poco tempo fa, mi è capitato di parlare con un’anziana signora di Africo, che mi ha ricordato di quando proprio nei giorni di festa, partivano con l’asinello seguendo le mulattiere per venire a Motticella a gustare i maccheroni con la carne di capra, che proprio in quei giorni di festa erano presenti su ogni tavola, non sempre c’era la possibilità di mangiare carne, ma in onore della madonna in quell’occasione si ammazzava la migliore “dastra” (la capra).

La statua durante la processione veniva accompagnata dal suono di organetti e tamburelli, che per due giorni non cessavano mai di suonare.

Era ormai primavera… e la festa delle rondini in cielo, le gemme delle ginestre, davano quel tono di colore alle rocce spoglie dette da noi “Staghi”. Le ragazze indossavano la camicetta nuova per l’occasione, i profumi e i suoni dei campanacci delle greggi che pascolavano lungo la vallata, intonavano un armonia melodiosa, con le donne che cantavano lodi a Maria:

Annunziata Vergine Bella
Di Motticella sei la stella
Fra le tempeste deh guida il cuore
Di chi t’invoca, madre d’amore
Siam peccatori ma figli tuoi
Madre Annunziata prega per noi
La tua preghiera onnipotente
O dolce mamma tutta clemente
A Gesù buono deh! Tu ci guida
Accogli il cuore che ti confida!

Il 25 Marzo si diceva “Festa in cielo e festa in terra e mancu l’urceglia fannu a folia”,

intanto gli uomini proprietari terrieri del paese, al “Magazzeni” si riunivano per decidere il prezzo del grano da tenere durante l’anno, che ormai andava verso la mietitura. La sera intanto calava imminente sul paese, e la madonna doveva essere riportata nella chiesa principale, ricordo che prima del crepuscolo la statua doveva essere già sulla stradina adiacente alla chiesa, altrimenti doveva essere portata a Bruzzano! Quante volte hanno cercato di portarla via…(sospira Caterina), ma è andata sempre a finir male (ride). Durante la Processione gli uomini provenienti da ogni dove, facevano a gara per portare in spalla la “Vara”, ecco che ad ogni via si perpetrava “l’Incantu” (Incanto), che avveniva come un passaggio di consegne a staffetta, ogni gruppo di “portatori” dava in offerta alla Madonna dei beni, quali potevano essere: grano, olio, vino, insomma tutto ciò che si produceva nei campi a quel tempo, in una sorta di gara a chi offriva di più in onore e devozione alla Vergine Annunziata, che veniva così presa in spalla, e condotta per un’altra via del paese dove avveniva la stessa cosa con altri gruppi di fedeli.
Sul finire della processione, quando ormai stava arrivando la sera, gli organetti ed i tamburelli ormai allo stremo, continuavano ad aprire la strada semi buia alla Statua, che veniva accolta nella chiesa del paese e riposta così nel suo altare, dove le donne chiedevano le grazie per i loro cari, salutando e lodando la madonna con questo canto:

Bonasira vi dicu a vui Madonna
Alla ‘mbiata Vergini Maria
Mi ‘ndi ccumpagna la notti e lu jornu
Lu jornu comu jamu pe la via

E la matina bongiornu bongiornu
Siti regina di tuttu lu mundu
Supra l’artaru nc’è na gran signora
Maria di la Nnunziata ca si chjama
Iglia a cu cerca grazi si li duna
E cu ‘ndavi cori afflitti si li sana.
Nu indi ‘ndi jamu e stati felici
Ca ccumpagnati cu l’angili stati
E la madonna si vota e ndi dici:
Vajti bonasira e Santa paci…

La Festa della Madonna Annunziata , Continua la Sig. Caterina, era un simbolo di fede e devozione, infatti moltissime sono le persone che ancora oggi portano il nome di Annunziata-Annunziato, e non solo a Motticella, ma anche nei paesi vicini. Intorno agli anni ’30 il Parroco del paese “Todarello”, scriveva così in alcuni suoi versi :

In quel ginocchio di umiltà
La vita flettersi pura, onnipotente
Il core sospinge un dardo
Verso l’infinita sapienza eterna
Si l’eterno amore ,genera il Santo
L’umiltà computa veste
Il Verbo di carne e d’Alma;
un fiore in ogni cuore
santificando ogn’anima pentita.
La bella Icona ogni coscienza abbella
Su questa impervia roccia di Motticella

è così, dice la Signora Caterina tenendomi la mano, che dovrebbe essere tutti i giorni dentro di noi, con l’esempio della Madonna i nostri cuori dovrebbero inondarsi dell’ amore che lo Spirito Santo ha donato a lei. Con le parole di questa straordinaria poesia, continua la Sig. Caterina, composta proprio dal sacerdote Todarello, ognuno può interpretare a modo proprio le parole espresse, ravvivando il ricordo della Festa dell’Annunziata a Motticella, che è stata dagli anni ‘20 fino agli anni ’70, un momento di grande spiritualità, che univa Motticella alla Mamma Celeste, “La Vergine Annunziata”.

Parole, commoventi, profonde, suggestive, che attraverso il racconto della Sig. Caterina possono cogliere l’ essenza di un popolo devoto alla Madonna, che ha fondato una cultura religiosa radicata in quei valori culturali profondi e spiritualmente molto intensi, difficili da comprendersi oggi. Tutto questo tripudio di devozione e fede avveniva all’ombra del monte Scapparrone che alto ed imponente dominava e domina tutt’ora il paesino.

MOTTICELLA, ESPERIENZA AI CONFINI DEL TEMPO…

Un borgo, Motticella, ormai assonnato, vecchio, diruto, quasi morente…, che nonostante tutto riesce ancora a raccontarci tanto e forse non tutto…, a noi popolo di questo secolo immerso in quella modernità idealistica, che talvolta non ci fa comprendere il valore semplice di queste “scene di vita d’un tempo”, che rimangono dei racconti da scrivere, da far rivivere attraverso la semplicità di un racconto.

Motticella è un piccolo borgo abitato da 155 anime frazione di Bruzzano Zeffirio (RC). Sorge ad un’altezza di 120mt, ai piedi del Monte Scapparrone (1058mt slm). La sua particolarità è appunto la sua ubicazione; a nord l’abitato si adagia sulle colline che degradano dal Monte Fasoleria (Ferruzzano) e a sud le abitazioni sorgono sull’orlo dei crepacci del torrente Bampalona (come si evince dall’immagine). Un torrente ricco d’acqua tutto l’anno, che più a valle prende il nome di “Fiumara del Torno” o più comunemente “Fiumara Bruzzano”.
Conosciute per le sue proprietà e benefici sono le acque sulfuree di località “Bagni”, dove anticamente i monaci avevano costituito proprio un luogo per la cura di molte malattie e dove ancora oggi molta gente si reca a prelevare piccole quantità di acqua. I suoi fanghi dicono fossero miracolosi per la cura della pelle ma soprattutto per le malattie delle ossa, tant’è che fino agli anni ’60 anche le famose “Terme di Antonimina” usufruivano prelevando i fanghi nei pressi di questa sorgente.

Purtroppo il destino di questo paese, come molti dei paesi del’entroterra Aspromontano e pre-aspromontano è stato via via abbandonato per l’emigrazione della popolazione verso destinazioni nuove e all’estero. In particolare Motticella, è stato segnato da una brutta pagina di cronaca nera dove perirono numerose persone a causa di una faida scoppiata tra gli anni ’80-’90. Ma, nonostante tutto questo, sopravvive ancora di poche ed umili anime, dedite soprattutto all’agricoltura e alla pastorizia.

Da visitare nei dintorni;

Sicuramente la leggendaria quanto misteriosa “Rocca di San Fantino”, su cui aleggiano numerose storie e leggende, l’antico monastero di San Fantino infatti, sorge a pochi passi dalla rocca. Poi ci sono i mulini sulle sponde del torrente “Torno e Bampalona”, i caratteristici vicoli del borgo, che ancora conservano quei tratti medievali degni di nota. Più in alto, il Palazzo nobiliare (detto il Castello), la piccola e unica chiesa parrocchiale dedicata a San Salvatore (Patrono del borgo), che conserva un particolare cristo in croce realizzato in un unico blocco si legno, oltre a varie statue settecentesche e ottocentesche.
Sono molti gli scorci sulla vallata, da cui è possibile scorgere il mare. Motticella non ha negozi o ristoranti, tuttavia spesso ci si imbatte nelle persone che ancora vi abitano che sono molto cortesi ed ospitali. Vi è ancora un artigiano, che custodisce i segreti dell’intaglio su legno a mano libera.
Qui, vi è ancora l’usanza del saluto e dell’accoglienza come base principale della vita. Tutte brave persone, che spesso ti invitano a bere un bicchiere di vino o ti offrono un caffè. Insomma, Motticella è come una grande famiglia, è un posto per chi sa cogliere l’anima dei luoghi, non è nulla di preconfezionato, è una delle meglio rappresentazioni della Calabria autentica!

di Carmine Verduci

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