Mese: Dicembre 2018

Il Narcissus Tazetta; storia di un fiore antico e sacro

Il Narciso era già noto agli antichi Egizi, ai Greci e ai Latini. Il nome Narciso, dal latino “narcissus” e dal dal Greco NARKAO “ναρκόω”, che significa: “stordire, intorpidire, fare addormentare,” da cui deriva anche la parola italiana “narcotico”, in riferimento al fatto che il suo forte profumo è capace di stordire. Nell’ antica Grecia il Narciso era noto perchè si credeva che avesse proprietà tranquillanti, anestetiche e antidolorifiche quindi era capace di stordire. Da qui la derivazione della parola “narcotico“. Gli egizi decoravano i propri defunti. Infatti, fiori di Narciso sono stati ritrovati nelle loro tombe in ottimo stato di conservazione dopo oltre 3000 anni.


Normalmente il Narcissus Tazetta alle nostre latitudini fiorisce da Dicembre fino a Febbraio, alcune volte anche anticipando le sue fioriture a Novembre. Non è ancora una pianta del tutto scomparsa, ma secondo il Prof. Domenico Minuto  “è un fiore che andrebbe tutelato per la sua straordinarietà” .

Con questo articolo spiegheremo le caratteristiche, la storia, gli impieghi e le proprietà ed organolettiche del fiore di Narcissus allo scopo di porre l’attenzione dei nostri lettori atta a favorire politiche di conservazione e tutela di una pianta così bella quanto affascinante.

Il Narciso è uno dei fiori più celebrati nella mitologia greca e romana. Per gli antichi Greci, Narciso era un giovinetto figlio del fiume Cefiso e della ninfa Liriope.  All’ età di quindici anni, bellissimo e ambiguo, era desiderato da giovani e fanciulle, che però lui respingeva perché non ritenuti all’ altezza. Ma l’ora del castigo venne quando uno dei suoi tanti innamorati implorò gli Dei sperando che si innamorasse anche lui ma che non possedesse chi lo amava. Un giorno, inseguendo un cervo, si specchiò nell’acqua e non riconoscendosi, si invaghì di se stesso; in seguito scoprì la verità struggendosi nell’ impossibile amore tanto da desiderare di uscire dal proprio corpo. Finchè, non decidendosi a darsi ad alcun spasimante, in quanto quello che desiderava era in lui, morì di consunzione. Quando le ninfe iniziarono a preparare il feretro e il rogo si accorsero che il corpo del giovinetto era sparito e in sua vece nel posto era sbocciato un fiore con i petali bianchi e giallo al centro.

Ovidio, nel libro III° delle Metamorfosi, racconta il mito di Narciso:

Narciso nacque da Liriope, la ninfa di fonte che, per la sua bellezza, fu rapita dal dio fluviale Cefiso e che, cingendola con le tortuose correnti dei suoi corsi d’acqua, la violò. La ninfa diede alla luce un bambino d’eccezionale fascino che chiamò Narciso. Preoccupata per il suo futuro, la neo-mamma consultò il veggente cieco Tiresia per sapere se il fanciullo avesse raggiunto la tarda vecchiaia. Tiresia così rispose: “Se non mirerà mai se stesso”. Al sedicesimo anno d’età Narciso era un giovane di tale avvenenza che molti ragazzi s’innamorarono di lui. Egli, indifferente, preferiva passare le giornate cacciando in solitudine. Tra gli spasimanti, la più incalzante era la ninfa Eco. Lei era stata punita da Giunone perché, tutte le volte che avrebbe potuto sorprendere sui monti le ninfe concubine di Giove, astutamente, la distraeva intrattenendola con lunghi discorsi aiutando le ninfe a sfuggire alle ire della dea gelosa. Quando Giunone si accorse dell’inganno disse: “Di questa lingua che mi ha ingannato potrai disporre solo in parte. Ridottissimo sarà l’uso che tu potrai farne”.

Eco, perciò, non poteva fare uso della propria voce se non per ripetere l’eco delle ultime parole che udiva. Quando incontrò Narciso e se ne innamorò, era già priva della parola. Eco lo scorse mentre Narciso cacciava i cervi in una foresta. La ninfa, che non sa tacere se si parla, ma nemmeno sa parlare per prima, cominciò a seguire le sue orme. Narciso, insospettito, si mise ad urlare: “C’è qualcuno”? Eco ripeté: “Qualcuno”. Stupito, egli scrutò tutti i luoghi, gridò a gran voce: “Vieni!”. Non mostrandosi nessuno, continuò: “Perché mi sfuggi”! Quante parole diceva, altrettante ne riceveva per risposta. Insistette e, ingannato dal rimbalzare della voce,“Qui riuniamoci” esclamò, ed Eco, che a nessun invito mai avrebbe risposto più volentieri, ripeté “Uniamoci”. Allegramente, balzando fuori del cespuglio, tentò di abbracciarlo. Narciso la respinse allontanandosi precipitosamente e lasciando ECO che, lamentandosi, continuava ancora a ripetere le ultime parole dette da lui. Afflitta e amareggiata, la bella ninfa vagò e, consumandosi per struggimento d’amore e di rimpianto, svigorì nel corpo. Non restarono che la voce e le ossa. La voce esiste ancora ed ovunque si può sentirla: è il suono che vive in lei e che ancora fa ECO nelle valli solitarie ripetendo le ultime sillabe delle parole pronunciate dagli umani. Le ossa, tramutate in sassi, sono state deposte vicino ad uno specchio d’acqua. La dea Nemesi, istigata da uno degli amanti respinti, alzando al cielo le mani, profetizzò: “Che possa innamorarsi anche lui e non possedere chi ama”!
Nel bosco c’era Liriope, la fonte dalle acque limpide, argentee e trasparenti che mai pastori, caprette o altre bestie avevano toccato, che nessun uccello, fiera o ramo staccatosi da un albero avevano intorbidato. Attorno c’era un prato e un bosco che mai avrebbe permesso al sole di scaldare il luogo. Il giovane Narciso, spossato dalle fatiche della caccia, affascinato dalla bellezza del posto, qui venne a sdraiarsi per bere l’acqua della sorgente, ma, mentre cercava di calmare la sete, attratto dall’ immagine che vide riflessa, restò incantato e s’innamorò di una chimera: di un corpo che, però, era solo un’ombra. Dapprima non riconobbe se stesso, poi capì: “Io sono te“. Egli si lamentava poiché non riusciva a stringere e a toccare l’immagine. Ai suoi lamenti rispondeva solo la ninfa Eco che, nascosta nel bosco, li ripeteva. Neanche il bisogno di cibo e di riposo riuscì a staccarlo di lì. Disteso sull’erba, fissava con lo sguardo inappagato quella forma che l’ingannava. Poi, sollevandosi un poco, tese le braccia al bosco dicendo: “[…] Esiste mai amante, o selve, che abbia più crudelmente sofferto? Mi piace, lo vedo; ma ciò che vedo e che mi piace non riesco a raggiungerlo: tanto mi confonde amore. Un velo d’acqua ci divide! E lui, sì, vorrebbe donarsi: ogni volta che accosto i miei baci allo specchio d’acqua, verso di me si protende offrendomi la bocca. Diresti che si può toccare; un nulla, sì, si oppone al nostro amore. Chiunque tu sia, qui vieni! Perché m’illudi, fanciullo senza uguali? Io, sono io! Ho capito, l’immagine mia non m’inganna più! Per me stesso brucio d’amore, accendo e subisco la fiamma!” Resosi conto dell’impossibilità di amare e di baciare l’immagine di sé riflessa nella superficie d’acqua, Narciso si lasciò morire. “[…] Ormai il dolore mi toglie le forze, e non mi resta da vivere più di tanto: mi spengo nel fiore degli anni […]”.  Si avverava la profezia di Tiresia.  Allorché le Naiadi e le Driadi vollero prendere il suo corpo per dargli degna sepoltura, scoprirono un bellissimo fiore dai petali dal colore dello zafferano col capo chinato sull’acqua alla ricerca del proprio riflesso. A quel fiore fu attribuito il nome Narciso. Lo scrittore greco Pausania ha raccontato che il Narciso esisteva già prima del personaggio di Ovidio visto che il poeta epico Pamphos, vissuto molto anni prima, nei suoi versi ha narrato che Persefone, quando fu rapita da Ade, stava raccogliendo dei fiori di Narciso.

Da questa narrazione si evince che nel linguaggio dei fiori il Narciso è il simbolo “degli egoisti e delle persone piene di sé”. Indica, pertanto, “vanità, egoismo, incapacità di amare”. Diversa è la simbologia orientale. In Cina il Narciso è simbolo di “prosperità e di felicità” ed è donato in segno augurale di buon anno.

Nella Bibbia ad esempio il Narciso e il Giglio, per i loro colori chiari e luminosi, sono simbolo solare di “rinascita” e raffigurano la primavera. Salomone, nel Cantico dei Cantici ( 2,1), nel Colloquio fra gli sposi scrive: “Io sono un narciso di Saron, un giglio delle valli. Come un giglio fra i cardi, così la mia amata tra le fanciulle”.  Nel nuovo Israele Isaia (35-1,2) scrive: “Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca; sì, canti con gioia e con giubilo. Le è data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saròn. Essi vedranno la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio”.

Secondo la tradizione, Narciso, era un santo di Gerusalemme che visse oltre cento anni e ricordato per aver compiuto il miracolo della conversione dell’acqua in olio necessario per alimentare le lampade della sua chiesa. Il suo onomastico ricorre il 29 di ottobre.

Il genere Narcissus comprende 40 specie di piante bulbose appartenenti alla famiglia delle Amaryllidaceae e originarie dell’Europa, dell’Africa settentrionale, del Giappone e della Cina dove fu introdotto nell’ottavo secolo attraverso la via della seta. Italia, Spagna e Portogallo sono i Paesi dove è più facile trovare Narcisi allo stato spontaneo presenti in una vasta gamma di habitat. Le specie selvatiche  spesso abbondano nei prati e nei boschi umidi di pianura e di montagna fino a 2000 metri La coltivazione del Narciso è iniziata intorno al XVI secolo in Inghilterra e in Olanda. Ancora oggi le due nazioni, insieme agli Stati Uniti, sono le maggiori produttrici di Narcisi. I Narcisi si ibridano tra loro con gran facilità e le numerosissime varietà di ibridi di tanti colori hanno originato uno dei generi di bulbose più coltivate. In passato, e questo fino agli anni ’80 vi era una piccola filiera di commercio per l’industria profumiera che nel sud Italia (in particolar modo nel Reggino) ha rappresentato una piccola fonte di reddito in seguito decaduta sul mercato della richiesta a causa dell’invenzione  di materie chimiche che sostituirono la raccolta a mano delle donne che si recavano nelle campagne ogni mattina per raccogliere i piccoli fiorellini che dalle nostre parti spesso venivano soprannominati con il termine di “Pasta e Ciciri” – tradotto = (Pasta e ceci).

Sono belle storie, che ci raccontano secoli di storia legate alle credenze, alla mitologia che in noi suscitano molte suggestioni. La Calabria profumata di cui andar fieri era il giardino perfetto per i nostri antenati greci che la resero una vera e propria serra naturale, ideale per la produzione di materie prime ed olii essenziali così come oggi noi conosciamo per il Bergamotto divenuto in poco tempo un’industria fiorente della fascia Jonica reggina compresa tra Reggio Calabria e Gioiosa Jonica, ma di questo prezioso frutto ve ne parleremo al prossimo articolo.

 

 

Un “Cocomero” dai poteri speciali !

Succede che a volte, quando si cammina in campagna, ci si imbatte in certe stranezze della natura che quasi passano inosservate ai nostri occhi, ma che in realtà nascondono una storia alle spalle davvero incredibili.

La nostra terra, ricca di biodiversità alle quote basse e alle quote più alte, offre numerosi incontri di questo tipo. Oggi vogliamo trattare questa simpatica pianta molto comune sulle zone collinari e pianeggianti, lo facciamo con un approccio “quasi scientifico” soltanto per informare i nostri lettori sull’importanza di alcune specie che spesso sembrano passare in secondo piano alla vista, ma che raccontano secoli e secoli di storie, proprio perchè conosciute già in epoca magno-greca, furono infatti i più grandi filosofi botanici dell’epoca a scoprirne i loro usi ed i loro utilizzi nella cultura popolare che divennero ben presto molto in voga in campo della medicina popolare fino al nostro medioevo anche in Calabria “MAGNA GRECIA”.

Ovviamente non invitiamo i nostri lettori a sperimentarne i benefici qui descritti se non attraverso prescrizione medica!

Nome scientifico: Ecballium elaterium A. Rich.
Nomi in italiano: cocomero asininoelaterio.
Nomi dialettali neretini: cucùzza pacciasputa velenu.

Appartiene alla famiglia delle Cucurbitaceae, la stessa del melone, cetriolo, zucca e zucchine. E’ presente nei Paesi del Mediterraneo ed in Italia si trova facilmente a diverse altitudini: dal mare (lungo le coste) fino alle zone collinari, risultando più diffusa soprattutto nel Meridione. È una specie erbacea perenne a fusto strisciante lungo più di 1mt. con rami brevi, eretti, piuttosto grossi e carnosi. Il fusto è coperto di peli rigidi di colore biancastro che lo rendono ruvido al tatto. Le foglie, alterne, sono lungamente picciolate e presentano una lamina di forma ovale allungata. La base fogliare è inciso-cordata, l’apice acuto, il margine fogliare è dentellato. Anche la foglia presenta una superficie scabra per la presenza di ispidi peli. I fiori (fioritura da maggio a Settembre) sono disposti all’ascella delle foglie, suddivisi in due sessi: i maschili sono raggruppati in piccoli racemi, i femminili invece sono solitari e presentano un peduncolo eretto e molto allungato, che dopo la fecondazione continua a svilupparsi fino a incurvarsi bruscamente alla sommità. I frutti sono bacche ovoidali, verdi, ruvidamente pelosi, lunghi fino a 5 cm, a forma di cetriolo, particolarmente amari di sapore, che contengono numerosi piccoli semi bruni; questi frutti sono dotati di un particolare meccanismo di disseminazione: basta una leggera pressione perché essi si stacchino dai loro peduncoli e scaglino lontano il loro contenuto, costituito da semi e da un liquido amaro, fortemente irritante per la pelle. Alla maturità, infatti, il frutto tende a staccarsi dal peduncolo: alla sua inserzione si forma un’apertura rotonda dalla quale, per la forte pressione interna, vengono proiettati a distanza i semi e un liquido dal sapore amarissimo. La singolarità del sistema “eiaculatorio” di dispersione dei semi nel cocomero asinino risponde ad un’esigenza ovvia per una pianta ecologicamente aggressiva che vive in un habitat abbastanza arido e incolto: far crescere le piante figlie il più lontano possibile dalla pianta madre, al fine di evitare competizioni fratricide per suolo ed acqua e per estendere al massimo il controllo del territorio. Il meraviglioso meccanismo previsto da madre natura prevede una serie di sistemi ad orologeria e la produzione finale di un ordigno esplosivo a pressione con annessa canna ad anima liscia! Il sistema di propulsione incorporato abbina il turgore cellulare, l’osmosi e una morfologia apposita, combinando aspetti legati alla forma ed alla disposizione dei tessuti con la tipologia e la localizzazione di sostanze chimiche ben precise.

L’etimologia del termine “Ecbàllium” deriva del verbo greco ekbàllein = lanciare fuori, elatèrium è la trascrizione del neutro (elatèrion) dell’aggettivo, sempre di origine greca; elatèrios/elatèrion  che  significa “che respinge o allontana” e, come termine medico, “purgativo”; proprio il neutro elatèrion, con valore sostantivato. La nostra pianta infatti fu citata, fra le altre da Ippocrate (V°-IV° secolo a.C.), e da Teofrasto (IV°-III° secolo a.C.).

Anche Plinio (I° secolo d.C.) ne racconta i suoi miracolosi effetti in medicina nei suoi manoscritti troviamo testualmente questa nota:

“Abbiamo detto che c’è il cocomero selvatico, molto più minuscolo di quello coltivato. Da esso si ricava un medicamento che si chiama elaterio col succo spremuto dal seme e se non viene colto per tempo il seme schizza con pericolo pure per gli occhi. Colto poi viene messo da parte per una notte, il giorno successivo viene inciso con una canna e il seme viene cosparso di cenere per assorbire l’abbondanza di succo; una volta spremuto viene trattato con acqua piovana e si fa depositare, poi viene essiccato al sole per preparare pastiglie molto usate dagli uomini contro i difetti e le malattie degli occhi, le ulcere delle guance. Dicono che una volta toccate le radici delle viti da questo succo gli uccelli non beccano l’uva. La radice poi cotta in aceto viene applicata sulle manifestazioni gottose e col succo si cura il mal di denti, secca mista a gomma sana l’impetigine e la scabbia e quelle malattie che chiamano rogna e eczemi, la parotite, gli ascessi e restituisce alle cicatrici il colore naturale della pelle e il succo delle foglie con aceto viene instillato negli orecchi sordi. La stagione dell’elaterio è l’autunno e nessun medicamento dura più a lungo. Si comincia ad usare dopo che è invecchiato tre anni. Se uno vuole usarlo più fresco tratti prima le pastiglie con l’aceto a fuoco lento in un vaso di creta nuovo. Tanto è migliore quanto più è vecchio ed è stato già conservato per duecento anni, come scrive Teofrasto e fino a cinquanta spegne la luce delle lucerne. Ne è prova il fatto che se è accostato al lume lo fa sfavillare sopra e sotto prima che lo spenga. Quello pallido e leggero è migliore dell’erbaceo e grossolano e lievemente amaro. Ritengono che il seme legato alla donna aiuti il concepimento a patto che non tocchi terra e che legato in lana di montone alle reni della donna, senza che lei lo sappia, facilita il parto; ma subito dopo il parto dev’ essere portato fuori di casa. Coloro che esaltano il cocomero dicono che il migliore nasce in Arabia, poi in Arcadia; altri dicono che a Cirene il cocomero simile all’ elitropio cresce tra rami e foglie fino alla grandezza di una noce e che il seme poi è ricurvo come la coda di uno scorpione, ma bianco. Alcuni infatti chiamano il cocomero scorpione essendo efficacissimi il seme e l’elaterio contro il loro morso e per purificare  la matrice l’intestino. La dose in rapporto alle forze vada mezzo obolo ad uno intero; una dose più elevata è letale. Così si beve contro la ftiriasi [infestazione da piattole] e l’idropisia. Applicato con miele o olio vecchio sana le angine e le arterie”.

Come abbiamo visto il Cocomero Asinino era ben noto agli antichi Greci e Romani, viene infatti citato anche nei testi di Ippocrate e di Dioscoride. Nei secoli successivi però questa pianta, altamente tossica se non utilizzata alle dosi terapeutiche, fu per lungo tempo abbandonata. Nel XIX sec. il cocomero asinino venne nuovamente studiato e utilizzato come purgativo, soprattutto in Inghilterra: nella farmacopea inglese rimase presente fino ai primi anni di questo secolo. Il principio attivo di quest’erba costituito dalla elaterina (ne contiene di due tipi, elaterina Alfa e elaterina Beta), una sostanza particolarmente potente e potenzialmente tossica, se non usata in dosi severamente controllate. L’uso incontrollato dei liquidi della pianta, anche solo per contatto, può causare fastidiose infiammazioni alle mucose, sia all’interno della bocca che agli occhi e, se ingerito, il succo della pianta può provocare seri disturbi gastrointestinali.

Altro che pazza la nostra zucca! pensate che qualche decennio fa il suo prezzo sul mercato era diventato addirittura, un simbolo dell’aumento dei prezzi!

Perciò, quando vi capiterà di imbattervi in questa pianta, oltre che stare attenti, avrete la consapevolezza dell’alto valore medico che questa umile pianticella possiede, e forse non passerà più tanto inosservata ai vostri occhi.

 

Fonti: Fondazione Terre d’OtrantoAmicoMario 
Rielaborazione testo: Carmine Verduci

 

 

Escursione di fine anno alla Torre di Galati

Escursione ad anello di fine anno alla Torre di Galati (Brancaleone), un entusiasmante viaggio alla scoperta del patrimonio storico-culturale e naturalistico, dell’entroterra Brancaleonese. Una delle tappe più ambite dal progetto, perchè sarà periodo ideale per apprezzare, la flora tipica di queste zone, con l’esplosione delle fioriture di Narcissus Tazzetta e non solo… come poche volte all’anno succede, la Torre viene aperta al pubblico.

Nella giornata di Domenica 23 Dicembre ci si ritroverà nella piazzetta della Chiesa Maria SS Addolorata di (sulla SS106), da qui divideremo le automobili in due gruppi e partiremo dal Cimitero dove un sentiero su strada mulattiera ci condurrà tra le campagne dell’entroterra a caccia dei Narcisi selvatici che in questo periodo sono in piena fioritura fra i prati verdeggianti di queste colline aride e steppose.

Dopo circa 50 minuti di cammino arriveremo ai ruderi della chiesetta bizantina di Galati, e poco distante maestosa si erge la Torre Galati del 1600. Una volta giunti sul posto visiteremo la torre nel suo complesso (anche interno) e conosceremo la storia e le vicissitudini legate alla funzione che ha avuto la torre nei vari secoli.

Il percorso del ritorno giungerà al ristorante “il padre eterno” dove sosteremo per il pomeriggio, raggiungeremo le nostre auto parcheggiate presso la località del cimitero di Galati (punto di partenza) eseguendo un transfert con le auto dei partecipanti.

PROGRAMMA:

ORE 09:00 INCONTRO/RADUNO PIAZZALE CHIESA MARIA SS ADDOLORATA DI GALATI
ORE 09:30 INIZIO ESCURSIONE DA LOC. CIMITERO DI GALATI
ORE 13:00 PRANZO PRESSO RISTORANTE “IL PADRE ETERNO” DI GALATI
ORE 16:00 circa TRASFERIMENTO IN AUTO E RIENTRO

*il programma potrà subire delle piccole variazioni a seconda delle esigenze organizzative, si valuterà nel corso della giornata la possibilità di fare l’escursione “ad anello” oppure a “bastone” .

 

SCHEDA TECNICA:

Difficoltà: T (Turistica)
Lunghezza percorso: 4km (ad anello) A/R
Percorso: trade mulattiere sterrate
Presenza d’Acqua: NO
Durata complessiva: 4h soste incluse

 

ATTREZZATURA CONSIGLIATA:

Scarpe da trekking, k-way, impermeabile, abbigliamento a buccia adatto al periodo, cappellino, acqua (almeno 1,5lt), zaino, snack, macchina fotografica.

 

QUOTA DI PARTECIPAZIONE: 5€ (per i non soci)

QUOTA PER IL PRANZO: 20€ (a base di prodotti tipici del periodo)

 

PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA !!!!
ENTRO IL 20 DICEMBRE AL NUMERO 347-0844564 (Carmine)

 

——–PER MOTIVI ORGANIZZATIVI LE ADESIONI SONO LIMITATE ——-

  • in caso di condizioni meteo avverse l’escursione sarà rinviata a data da destinarsi e/o comunque comunicata agli iscritti mediante la nostra Pagina Facebook “Kalabria Experience” o “Pro Loco Brancaleone (RC)” (tenersi sempre aggiornati)!
  • Non è prevista alcuna forma assicurativa, chiunque partecipa lo fa a titolo volontario escludendo l’organizzazione sin da subito per eventuali responsabilità civili o penali

 

 

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