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Pietra Castello (San Luca) e la leggenda della Principessa Atì

Il peggiore feudatario della lunga storia di Potamìa fu il duca Gambacorta – Don Carlo Papalia Gambacorta di origine messinese Barone di Potamìa che acquista la baronia di Ardore, San Nicola e Bombile con R.A. il 9 maggio 1626.

PH. Fedele Stranges

Sulla sponda dello Ionio verso l’Aspromonte, sulle cime che scendono frastagliate e ventose verso la vallata della fiumara Bonamico, si eleva “Pietra Castello” uno sperone roccioso coronato dalle rovine di un castello: è il castello di Atì. Il luogo è selvaggio e inospitale, anche se pieno di suggestioni, la roccia sprofonda a picco fino al greto del torrente e i ruderi del castello quasi si confondono con la vegetazione spontanea. Questo castello ha una storia, una storia che ha dato adito ad una leggenda che dice di un’immagine di donna velata che pare sporgersi alcune sere guardando verso il crinale dei monti. Vi era un tempo la città di Potamìa, dove viveva un nobile signore, un conte altero e insolente, tanto che per i suoi modi ostili e villani si era attirato l’odio di tutti. La sua continua alterigia gli procurava forti contrasti anche con i suoi pari e spesso osava sfidare apertamente in duello coloro che gli recavano anche lievi offese. Una volta un nobile suo pari ebbe a scontrarsi con lui per una questione e il conte, adirato, lo uccise; dopo l’assassinio lo assalì il terrore della vendetta dei parenti della vittima e decise quindi di rifugiarsi in quel castello solitario in compagnia solo della sua figliola e di un paggio. La figlia del conte era molto bella e, diversamente dal padre, mite e dolce di carattere; il paggio ere poeta e menestrello e rallegrava la prigionia della fanciulla raccontando antiche storie e suonando il suo liuto.

PH. Domenico Catanzariti

Il castello, una volta alzato il ponte levatoio, era imprendibile, protetto com’era dai profondi burroni e dalle rocce e neppure le più potenti macchine d’assedio potevano far nulla contro quelle torri sfidate solo dai venti. Nella torre maggiore il conte aveva costruito un mulino a vento e in una cisterna aveva raccolto l’acqua piovana cosicché, anche se isolati, non mancasse mai pane fresco. Sicuro della sua fortezza, il conte leggeva le antiche canzoni cavalleresche che parlavano di eroi, di maghi e di incantesimi e nella solitudine ascoltava il rumore degli alberi dei boschi e il fragore dei temporali. Anche la bella Atì leggeva, o ricamava, o seguiva con gli occhi il volo degli uccelli dai monti fino al mare e, quando la malinconia la raggiungeva, chiamava il paggio e lo invitava a cantare le sue canzoni. Fu così, fra la solitudine e la poesia di quei canti, che la ragazza e il paggio si innamorarono, ma ella per pudore non lo fece capire ed egli, per rispetto, fece altrettanto. I nemici avevano ovunque delle spie che, ascoltando il suono del liuto e vedendo i lumi accesi fino a tarda notte, capirono quello che stava accadendo fra i due giovani; decisero quindi di inviare un messaggio al paggio in cui era scritto che se egli li avesse aiutati a conquistare il castello, abbassando il ponte levatoio, loro lo avrebbero ricompensato consentendogli di sposare la contessina.

Il giovane paggio aveva sentimenti nobili e non si prestò al tradimento, ma ogni giorno era più angosciato e più innamorato che mai e ogni notte il suo cuore era tormentato da mille dubbi. Ma un giorno che la bella Atì era più dolce del solito e l’arcigno conte più sgradevole del solito, decise che avrebbe compiuto il tradimento e si chiuse nella sua stanza scrivendo una nuova canzone, una ballata religiosa che aveva come tema il tradimento di Giuda. Fece giungere ai nemici il messaggio che nella notte del prossimo venerdì, nell’ora in cui tutti dormivano, egli avrebbe preso il liuto cantando i versi: “E disse Cristo agli Apostoli suoi, quando volete entrare sta solo a voi”. Quello sarebbe stato il segno che il ponte levatoio era abbassato e la strada al castello aperta. Venne la notte del venerdì stabilito, sui monti si abbattè una forte tempesta e il vento fischiava fra le torri, mentre il fiume ingrossato nel fondo della valle faceva rotolare grandi massi. Il conte dormiva profondamente, ma Atì vegliava pensando al suo amore, ascoltando il suono del liuto proveniente da una stanza lontana. Al segnale convenuto, con un rumore di argani, il ponte levatoio fu calato e i nemici s’impossessarono del castello. Senza rispettare il patto catturarono il giovane paggio legandolo mani e piedi e presero il conte nel sonno. Andarono dunque alla ricerca della fanciulla, ma trovarono il letto vuoto e il Vangelo alla pagina in cui San Matteo racconta il tradimento di Giuda.

Cercarono ancora la contessina, nelle camere, nei sotterranei, ma non trovarono alcuna traccia. Il conte e il paggio legati insieme furono messi in una botte e rotolati giù dal dirupo. Di Atì non si seppe più nulla e il suo corpo non fu mai rinvenuto. Solo il suo spirito è ancora fra quei monti, fra quei torrioni e i pastori, nelle notti di luna, dicono di vedere le belle sembianze di una donna avvolta da un velo che guarda lontano e ascolta. Dal fondo della valle, invece, salgono le voci dei fantasmi del conte e del paggio: l’uno altero e concitato giura vendetta, l’altro piange il suo tradimento…

 

ALCUNI SCATTI CHE TESTIMONIANO GLI ANTICHI RESTI DEL CASTELLO (foto dal Web)

Il giorno dell’Ascensione Usi, Riti, Credenze in Calabria

Qualche ora prima del canto del gallo, alla sola luce di “’a stiddha d’a matina” le contadine son partite di buonora, camminando lentamente, nella strada che oltrepassa il calvario. Chi ha un paniere incrociato al braccio, chi una falce o un bastone per “annettare” la via, intanto tra una chiacchiera e l’altra, hanno raggiunto una scarpata ripida e pietrosa, un po’ fuori paese, alla quale tornano abitualmente , ogni anno, prima del sorgere del sole del giorno solenne della Ascesa al cielo di Nostro Signore. Tanto cammino, per perpetuare un ancestrale rito, che hanno visto fare alle mamme e alle nonne, e che loro con dedizione continuano, un po’ per buon auspicio, un po’ per superstizione, ma soprattutto in ricordo di quando “cotrareddhe” impazienti aspettavano il giorno della Ascensione per andare al mattino presto dalla mano della mamma assieme alle altre comari e vicine di casa alla ricerca della “fortunella.”

U jornu d’a ‘scensiona” quaranta giorni dopo Pasqua, si ricorda la definitiva salita al cielo di Gesù Risorto e rappresenta simbolicamente l’Esaltazione di Gesù Cristo risorto.

La notte tra “‘a vijilia e ‘u jornu da Scenziona” è una delle tante notte magiche dell’immaginario popolare calabrese, nella quale si possono ottenere presagi, e le piante, come avviene per il 24 giugno, hanno proprietà magiche, benefiche e ben auguranti. Nel giorno dell’Ascensione, infatti, era tradizione recarsi prestissimo, prima dell’alba, per trovare e raccogliere i rametti verdeggianti di alcune piante grasse, comunemente dette “erba dell’ascensione”, “erbicella” “santa erva” oltre che “erba della fortuna”, o semplicemente “’a fortunella”. Solitamente si tratta di piante grasse appartenenti alla famiglia delle Sedum cepacee.

A Catanzaro, la credenza vuole che andasse raccolta in luoghi da dove non si vedeva il mare.

Le donne che portavano avanti questa tradizione tramandano oralmente anche delle formulette magiche e invocazioni da recitare per buon augurio al momento del ritrovamento:

– Bona trovata Santa Erba, quandu Jesu jia ppe terra.  Ti guardau e ti benedissa, ricordati sant’erva chi ti dissa?

Dopo il segno di croce, a ringraziamento del ritrovamento e a concessione di poterla raccogliere, qualcuno continua a recitare:

Eu ti scippu santa erva, quandu Jesu jìa ppe terra, ti guardau e ti benedissa,arricordati cchi ti dissa.

A questo punto “erbiceddha da fortuna” veniva raccolta accuratamente, cercando di sfilarla con tutta la radice, e facendo attenzione nella scelta e raccolta di rametti più lunghi e vividi. Successivamente, veniva riposta in setacci o panieri, per facilitarne il trasporto. I primi raggi del sole festivo esorcizzavano le forze del male che agivano di notte ed illuminavano l’altare della Chiesa invitando ad assistere alla prima messa domenicale. Il sole vivo ricordava, infatti, Gesù Risorto ed asceso al cielo in tutto il suo splendore. Non si era degni di vedere quella luce e perciò l’erba era considerata santa perché, attraverso di essa si poteva volgere lo sguardo a Dio. Prima di portarla in casa o di donarla si preparava a un mazzetto, poi una scrollatina a mezz’aria per liberare l’erba santa dal terriccio, dagli insetti o da altre impurità. C’era chi prima di portarla a casa era solito farla benedire in chiesa alla Messa solenne della Domenica di Ascensione. Poi una volta portata presso le abitazioni, era addobbata con un nastrino rosso o bianco. Legata a una cordicella, veniva appesa in un luogo per lo più in penombra della casa, solitamente al capezzale del letto, al quadro della sacra famiglia o proprio vicino al crocifisso.

Qualcuno disponeva in più punti della casa, anche dove c’erano anziani o bambini.

L’erba della Ascensione era una messaggera, si utilizzava principalmente per ottenere dei presagi. Il rametto della piantina veniva infatti posizionato in testa in giù, e se dopo un po’ di giorni tendeva a salire o fioriva era ben augurante altrimenti se fosse rimasto “a testasutta” o  appassito del tutto avrebbe preannunciato guai in vista, sfortuna, e situazioni avverse. Bisognava aspettare sette, venti, o quaranta giorni a seconda della credenza dei vari paesi, per osservare attraverso il posizionamento che nei giorni ha assunto la “fortunella” per interpretare il presagio.

Oltre all’erba dell’ascensione, nella stessa giornata c’era chi raccoglieva e preparava dei mazzetti con fiori di sambuco (‘u maju) e  di ginestra spinosa (a spina santa).

Una volta preparati i mazzetti con “‘u maju, a spina santa e anche l’erva da fhurtuna” venivano portati in chiesa per la benedizione e poi posizionati e appesi dietro la porta di casa per buon augurio e a protezione dell’abitazione. A Cropani, nella giornata dell’Ascensione, si perpetuava un atto di devozione molto originale. Dopo essersi confessati, ci si ritrovava in paese per la recita del Santo Rosario, rigorosamente con lo sguardo rivolto verso il mare:

Bruttu nemicu, pera de ccà /  ‘un venire nè mo’ e nè mai / mancu all’ura da morte mia / ca iu dicu centu voti

Jesù, Jesù, Jesù ( per cento volte).

 Chi bella jurnata ch’ è chissa /  sagghe ‘ncelu Gesù Cristu /  l’aduramu e lu salutamu  / la grazza ca volimu ci la cercamu  / ci la cercamu vulentieri / ppè li sui sacri misteri.

 E vui tutti celesti siti / tutti li sette l’apariti / tutti li sette l’ addumati / davanti l’Eternu Patre.

A Chiaravalle si tramanda un racconto che cerca di spiegare le doti divinatorie di questa piantina grassa:  Gesù, nel salire al cielo, benedisse questa erba perchè, contrariamente a tutte le altre che volgono la loro cima in basso, questa la rivolse in alto, verso il suo creatore. Da allora crebbe spontanea e rimase, quasi sempreverde, emettendo una miriade di fiorellini piccolissimi e bianchi, tendenti al giallino e vagamente profumati.  Potevano raccoglierla tutti, anche i bambini, ma chi voleva compiere questo atto di devozione doveva comunque essere delegato dal capo famiglia, o da una persona anziana. L’incaricato si levava all’alba e nell’uscire di casa, volgeva gli occhi al cielo dicendo: ”Sì fhice juornu piaciendu a Dio. A nuddhu salutu cchiù prima e’ Tia  Stiddha e’cielu  Curuna e’  Campu , Gloria a Patrhe fhjgghju e Spiritu Santu!”

Tale rito come tanti altri sono stati abbandonati e dimenticati, come i fuochi propiziatori della vigilia dell’Ascensione.

In occasione della festa della Ascesa al Cielo di Ns Signore, in alcuni centri della provincia di Reggio Calabria avveniva la distribuzione del latte prodotto in questa solennità, che un tempo era donato dagli allevatori pastori e “massari” ai poveri e, in genere, o a chiunque ne avesse fatto richiesta.

Tale gesto pare che trovasse la sua origine da una leggenda, in base a cui un pastore nel giorno dell’Ascensione avendo rifiutato di regalare del latte ad una donna povera, che lo aveva richiesto, quando si mise a lavorarlo si accorse che esso non “quagghjava”, come punizione divina per il suo rifiuto e vide così sfumare nel nulla tutta la produzione del latte di quel giorno.  Da quel momento in poi, per consentire una produzione regolare per l’intero anno, il latte che veniva prodotto il giorno dell’Ascensione, come gesto propiziatorio, non doveva più essere lavorato e neppure coagulato, bensì donato interamente ai poveri! Il latte diveniva così un alimento rituale per la festa dell’Ascensione, molto probabilmente perchè simbolo di purezza e veniva assunto come ingrediente basilare di diversi piatti tipici, come le minestre, le paste, (i tagliolini) ,che venivano cucinate nel latte, anzichè nell’acqua, sia in versione salata, che  dolce!

 

Di Andrea Bressi

L’antica abbazia della Madonna della Lìca a Pietrapennata- Palizzi (RC)

Il territorio di Palizzi custodisce innumerevoli gioielli dell’antichità e siti di interesse storico-naturalistico-culturale. Oggi vi portiamo alla scoperta dell’antico monastero di Santa Maria della Lica, che testimonia la forte spiritualità di questi luoghi, un tempo frequentati e pullulanti di popoli e genti ci lasciano in eredità testimonianze antiche e importanti per capire la ricchezza di un territorio che i tempi moderni hanno sprecato, distrutto, dimenticato.

Il santuario di tradizione bizantina, presenta segni murari dell’età normanna e giungono fino al XVII sec. Il suo nome deriva da quello della contrada in cui sorge e pare, anche per l’esistenza nella zona di un tempio dedicato ad Apollo Licio. Fino ai primi del 1800 ad Alica, il giorno 8 maggio di ogni anno, si teneva una fiera di bestiame in onore della Madonna. nella chiesa parrocchiale dello Spirito Santo a Pietrapennata frazione di Palizzi. Purtroppo oggi, l’abazia è in stato di rudere, si tratta di una chiesa e di un monastero incastonati in una vallata amena, e consiste in un complesso architettonico rimaneggiato più volte durante i secoli, con brani murari riferibili a diversi periodi storici, dal più antico, risalente presumibilmente al XII secolo, fino al XVII-XVIII secolo.

La chiesa era un edificio a navata unica, di circa 6×13mt (in un rapporto di uno a due tra larghezza e lunghezza) con abside orientata, e forse praticati in periodo successivo un Prothèsis e un Diaconicòn. Nel XVII secolo è stato addossato al muro meridionale il campanile, si tratta di una costruzione molto slanciata ed elegante, curata nei particolari com’è possibile apprezzare dal doppio ordine e dalla cornice di mattonelle policrome. Quest’ultimo particolare decorativo lo rende molto simile al campanile della chiesa di San Sebastiano dell’Amendolea. un campanile a doppio ordine con una cornice di mattonelle policrome, simile a quello della chiesa di S. Sebastiano di Amendolea e di S. Salvatore di Cataforio.

Tra il secolo XVII e quello successivo, venne costruito, esternamente alla chiesa e ruotato rispetto ad essa, verso nord-est, un altro ambiente che potrebbe riferirsi alla sacrestia, di cui parla Mons. Contestabile nel 1670 come opera da completarsi. Sul porticato addossato alla parete meridionale si notano pochi resti di cui una porzione di arcone che, per la sua struttura muraria, è attribuibile al XII secolo. A circa 9mt dal muro meridionale e ad una quota inferiore di circa 1,5mt, vi sono dei poderosi setti murari.

Molte sono le teorie sull’etimologia del termine Alica, alcune dettate dal grande archeologo e storico “Domenico Minuto” asseriscono che il termine “Alica è Alicia” si trovavano già nel XVII° secolo e sembrano avvalorare la certezza che in quell’epoca nella bovesìa il significato della parola volgare “lega o Liga” era meno nota dell’attuale termine greco “Alìthia” termine che ancora oggi è comune nell’area Ellenofona anche nelle varianti di Alìsia e Alìa che significa appunto “la verità”. Altra ipotesi avanzata è che potesse derivare dal Greco lukòs che significa “bosco” a sottolineare la natura remota del luogo.

Quando la chiesa fu fondata, presumibilmente nel XII secolo, presentava una pianta a navata unica e un’abside finale. Oggi è difficile identificare la collocazione originaria dell’abside sia a causa dell’alta vegetazione sia a causa di un ambiente quadrangolare, costruito presumibilmente tra il XVII e il XVIII secolo, che si è sovrapposto alla struttura che alcuni studiosi ritengono sia stata la sacrestia. Probabilmente prima ancora della costruzione della cosiddetta sacrestia era stato eretto il campanile.

Fino al 1887 questa chiesa ha conservato un bellissimo simulacro di marmo bianco d’alabastro a mezzobusto raffigurante la Madonna con Bambino del XV secolo e attribuita alla scuola del Gagini, che poi fu trasferita e si trova tutt’oggi, nella chiesa parrocchiale dello Spirito Santo di borgo di Pietrapennata. La statua a mezzobusto della madonna pare sia arrivata sin qui dalla Sicilia e sbarcata miracolosamente nella marina di Palizzi, all’alba della battaglia di Lepanto, quando i cristiani sbaragliarono definitivamente i Musulmana in occidente.

Grazie alle ricerche storiche, possiamo certamente dire che la chiesa della Lica in effetti non fosse altro che una grangia dello stesso Monastero di Sant’Ippolito che cambiò il titolo in occasione dell’evento storico di Lepanto e dell’arrivo di questa statua. Anche se alcune fonti storiche, riferiscono che il monaco che fondò il monastero, fosse partito dall’Abbazia di Santa Maria di Tridetti (Staiti). Sembra anche probabile che la chiesa rientri nella cosiddetta “via dei romiti”, un itinerario relativo al passaggio dei monaci dove sorgevano molti ricoveri in cui i religiosi in pellegrinaggio potevano meditare, pregare e anche soggiornare.

 

Di Carmine Verduci

La stele di Mitra a Melito Porto Salvo, un patrimonio da salvare

Oggi vi vogliamo raccontare di un tesoro davvero poco conosciuto della nostra Calabria, ma molto affascinante e misterioso, infatti, un semplice masso con sopra alcuni segni ormai consumati dal tempo, nasconde segreti incredibili. Stiamo parlando della Stele di Mitra, scoperta da Sebastiano Stranges e dal compianto Luigi Saccà, un monumento megalitico situato nel comune di Melito di Porto Salvo che si ritiene risalga al periodo neolitico. È una grande lastra di pietra rettangolare di circa 3 metri di altezza e 2 metri di larghezza, su cui sono scolpiti una serie di simboli presenti nel culto di Mitra, tra cui il Dio che uccide un toro, un serpente e un cane.

Ma perché proprio questi animali?

Il mito racconta che Mitra affronta un giorno il Dio Sole e lo sconfigge. Il Sole allora stringe con lui un patto di alleanza donandogli la corona raggiata. In un’altra sua eroica impresa, Mitra cattura il Toro e lo conduce in una caverna. Ma il Toro fugge e il Sole, memore del patto, gli invia un corvo quale suo messaggero con il consiglio di ucciderlo. Grazie all’aiuto di un cane, Mitra, con in capo un berretto frigio, raggiunge il Toro, lo afferra per le froge e gli pianta un coltello nel fianco uccidendolo (tauroctonia). Allora dal corpo del toro nascono tutte le piante benefiche per l’uomo e in particolare dal midollo nasce il grano e dal sangue la vite.

Ma Ahriman, che nel culto mitriatico rappresenterebbe il Dio del Male, invia un serpente e uno scorpione per contrastare questa profusione di vita. Lo scorpione cerca di ferire i testicoli del toro mentre il serpente ne beve il sangue, ma invano. Alla fine il Toro ascende alla Luna dando così origine a tutte le specie animali. Così, Mitra e il Sole suggellano la vittoria con un pasto che rimarrà nel culto sotto il nome di agape. Purtroppo la pietra è da millenni esposta alle intemperie e probabilmente il corvo e lo scorpione sono scomparsi come anche il sole e luna presenti di solito nella rappresentazione del dio. Sebastiano Stranges ci ha tenuto a comunicarci che in alto a sinistra per chi osserva, anche se ormai poco visibile, è presente il demone del male che osserva la scena.

 

MITRAISMO CULTO MISTERICO PERSIANO E ANATOLICO DEL 14 SEC. a. C.

È tutto basato sulla precessione degli equinozi che è il risultato dello spostamento dell’asse attorno al quale la Terra compie la sua rotazione, perpendicolare all’eclittica, come accade a una trottola, ritornando nella posizione originale ogni 25772 anni. Nel corso di circa duemila anni la costellazione in cui il sole si trova nell’equinozio di primavera cambia entrando in un’altra “era astrologica” che prende il nome dalla nuova costellazione, con un moto retrogrado rispetto alla successione dello zodiaco come lo conosciamo (Toro, Ariete, Pesci, Acquario, ecc.). Questo movimento processionale, che nella cosmologia geocentrica degli antichi veniva da questi attribuito alle stelle, richiedeva una divinità sovra-cosmica responsabile di esso e uccidendo il Toro celeste, Mitra ribadisce il suo potere sull’intero cosmo e consente al segno successivo, l’Ariete, di diventare “Casa del Sole” all’equinozio di primavera, evento astronomico che accadde due millenni prima dell’avvento di Cristo (la nascita di Gesù è l’evento che rappresenta il passaggio dall’età dell’Ariete a quella dei Pesci).

La morte del toro genera la vita e la fecondità dell’universo, il quale essendo pure il segno di Venere, mostra come l’astro con la sua energia, rigenera la natura. Lo storico delle religioni David Ulansey osservò che tutti i personaggi che compaiono nel mito corrispondono a costellazioni: la tauroctonia la si ritrova raffigurata nel cielo lungo l’equatore celeste al momento in cui gli equinozi erano in Toro (costellazione equinoziale di primavera) e Scorpione (costellazione equinoziale d’autunno).

 

 

In successione si trovano il Toro, il Cane Minore, l’Idra (serpente) la Coppa (entra nel mito mitriaco successivamente nella regione Reno-Danubiana, poiché originariamente si hanno solo figure animali), il Corvo, lo Scorpione. Chiaro che i formatori del mito hanno fatto collimare la struttura celeste con la tauroctonia. Sopra il Toro c’è la costellazione del Perseo, che pienamente si adatta a Mitra, col berretto frigio, e l’atteggiamento vincente sul Toro.

 

Foto: Sebastiano Stranges, Gian Franco Iaria

Testi: Associazione Mistery Hunters

I Catamisi e Catamisicchj ed altre leggende della tradizione contadina

Di tutte le leggende e superstizioni legate al mondo contadino, l’Italia intera ha da narrare molte storie, abbiamo raccolto queste antiche leggende in questo articolo redatto grazie al nostro partenariato con la Pro Loco di Brancaleone dov’è attivo il Servizio Civile Universale. Con un’ottica protesa verso la sperimentazione su campo di tali suggestioni che ancora oggi, non smettono di affascinarci.

Leggende o teorie, molte delle superstizioni che ancora oggi si tramandano, sono nel suo complesso interessanti ed affascinano ancora oggi come un tempo.

Stiamo assistendo ad un ribaltamento delle stagioni, dovuto a fattori climatici che incidono profondamente sulle nostre abitudini e le nostre vite, in questo progetto editoriale abbiamo raccolto queste leggende al fine di sperimentare e farvi sperimentare la meteorologia di una volta, cercando di non sfatare nessun mito, ma di porre l’attenzione sul valore di tali racconti e superstizioni, applicando il metodo dell’analisi dei fatti, raccogliendo informazioni utili al fine della divulgazione culturale, per cui ringraziamo l’autore di tale ricerca!


I Catamisi e i Catamisicchji;

I Catamisi sono una antica usanza che si basava sull’osservazione del tempo nei giorni che precedevano e seguivano il Natale. Questa usanza era molto diffusa tra i contadini appenninici e serviva per trarre gli auspici per l’anno agricolo. I Catamisi sono i dodici giorni che vanno dal 13 al 24 dicembre, mentre i Catamisicchj sono i dodici giorni che vanno dal 25 dicembre al 5 gennaio. Ogni giorno corrisponde a una metà di un mese dell’anno successivo. Se il tempo è bello, significa che il mese sarà favorevole, se invece è brutto, significa che il mese sarà sfavorevole. Il termine Catamisi deriva dal greco e significa “mese giù e sopra Natale”.


L’origine della tradizione;

La leggenda dei Catamisi e dei Catamisicchj nasce dal fatto che il 13 dicembre, giorno di Santa Lucia, prima della riforma gregoriana del calendario, segnava il giorno più corto dell’anno. In questo giorno si traevano gli auspici per il nuovo anno. La tradizione era molto sentita nel mondo agricolo, che dipendeva dalle condizioni del tempo per i raccolti.


La notte del battesimo dei tempi;

Dopo 24 giorni di appunti e osservazioni, il contadino nella notte del 5 gennaio, detta “la notte del battesimo dei tempi”, faceva la veglia e allo scoccare della mezzanotte usciva a scrutare il cielo. In base alla direzione delle nubi e dei venti, poteva prevedere se l’anno sarebbe stato buono o cattivo. Se le nubi seguivano il vento da levante, era un buon segno, se invece seguivano il vento da libeccio, era un cattivo segno. Se seguivano il vento da ponente, non si poteva dire nulla.


La leggenda dei giorni della merla

Un’antica tradizione popolare riguarda i giorni 29, 30 e 31 di Gennaio, detti i “giorni della merla”. Si tratta infatti, di una leggenda che spiega l’origine del freddo intenso di questo periodo e del colore nero delle piume dei merli. Gennaio non sopportò di essere deriso dalla merla e decise di vendicarsi. Andò da Febbraio e gli chiese in prestito tre giorni, per scatenare una bufera di neve senza precedenti. La merla, ignara, uscì a cercare del cibo e fu sorpresa dalla tempesta. Non riuscì a tornare al nido e si rifugiò nel comignolo di un camino. Quando la bufera cessò, la merla uscì, ma le sue penne erano diventate nere per il fumo. Da allora, i giorni della fine di gennaio sono i più freddi dell’anno e i merli hanno le piume nere.


La storia della merla bianca

La leggenda narra che un tempo esisteva una merla dal becco giallo e dalle penne bianche, che era molto ammirata da tutti gli uccelli. Gennaio, il mese più freddo dell’anno, era invidioso della sua bellezza e la tormentava con le sue gelate ogni volta che usciva dal nido. La merla chiese a Gennaio di durare meno, ma lui rifiutò. Allora la merla si preparò una scorta di cibo e rimase al caldo per tutto il mese, sfidando Gennaio.

Dice ancora la leggenda, che se i giorni della merla sono freddi, la primavera sarà bella; se sono caldi, la primavera arriverà in ritardo. Un po’ come la tradizione americana del giorno della marmotta.


MONITORAGGIO METEO  DEI CATAMISI E CATAMISICCHJI

Da queste tabelle “secondo le leggende” è possibile rilevare il meteo previsto per i mesi dell’anno in corso.

 

Di Domenico Martino

(Servizio Civile Universale Pro Loco di Brancaleone)

Pastorelli e figure tipiche del Presepe Calabrese

La devozione per il presepe si deve a San Francesco D’Assisi, ad un suo atto di fede di una magica notte di Natale di ottocento anni fa. Il presepe, lo sanno tutti è la stalla, la mangiatoia nella quale Gesù venne alla luce miseramente nel rigor dell’inverno, e ricevette i primi omaggi dagli uomini della terra.  

L’uso di rappresentare nelle chiese e anche nelle case il presepio nacque per opera di San Francesco, che in Greccio in valle di Rieti, circa nel 1223, la notte di Natale fece portare in una specie di grotta una mangiatoia col fieno, le figure del bue e dell’asino e il simulacro del bambino Gesù. Da quell’avvenimento storico-religioso, la rievocazione della nascita di Gesù Bambino con i simulacri di terracotta, sostituita ai figuranti, è diventato uno dei simboli più rappresentativi del Natale, mai tramontato, che ha ispirato e stimolato l’estro di numerosi artisti e artigiani italiani dalla Toscana alla Campania, dalla Sicilia alla nostra Regione. In Calabria, da Laino Borgo a San Floro, da Catanzaro a Tropea,  da Serra San Bruno a Seminara, fino agli anni cinquanta circa, era possibile acquistare i pastorelli da validi artigiani locali, i cosiddetti pasturari, molti dei quali erano soliti, nel mese di dicembre, allestire, per le vie e le piazze dei borghi, assortite bancarelle e veri e propri mercatini natalizi per l’esposizione e la vendita delle loro apprezzabili statuine di terracotta. Nelle cattedrali, nelle chiese, nei palazzi e in qualche casa nobiliare era possibile ammirare i presepi artistici della scuola napoletana con pastori di terracotta lucida o carta pesta dipinta, semplici o più elaborati, con abiti settecenteschi di tessuto sfarzoso o più rudimentali opere lignee, mobili o anche semoventi.

 

Da quando gli artigiani locali hanno chiuso le loro botteghe artistiche, sono però venute meno alcune figure tipiche, immancabili e peculiari della tradizione presepiale calabrese, personaggi carichi di storia, significato e simbolismo. I rinomati ceramisti di Seminara si sono distinti anche nell’arte presepiale, sia con la ripresa  di figure comuni come il meravigliato u lampatu da stijia,  e sia per l’aver forgiato personaggi allegorici e significativi come ‘u monacu cchì fujì  un pastorello di terracotta rappresentante un monaco in fuga, con una grande cesta sulle spalle, dove è nascosta una giovane e bella fanciulla. I pastori si facevano spesso voce di vere e proprie satire locali. Nei quartieri del capoluogo catanzarese e in alcuni borghi dell’hinterland, l’immancabile personaggio del presepe tradizionale era il pastore “che si cava la spina dal piede”.  Ho amato sin da piccolo questo pastore, che ogni anno, nell’avvicinarsi delle festività natalizie, veniva rifoggiato nella casa paterna, con piacere e cura, e con la sua storia e il suo originale significato: u pastura cchì si caccia a spina do peda  posto nelle vicinanze della grotta, figura emblematica della miseria spirituale e della debolezza umana, per i Catanzaresi valeva più di qualunque altro singolo pastore del presepe. Oltre a questa figura, che rimanda allo spinario della tradizione ellenica, si tramanda di altri personaggi tipici: ‘u ncantatu (il meravigliato), ‘u zzoparacaru (venditore di angurie), ‘u ricottaru, ‘  ‘u monacu capuccinu, ‘u cerameddharu e ‘u pipitaru (gli zampognari),  ‘a gadhoffara (venditrice di caldarroste), ‘a pacchjana (la donna in costume tradizionale), e a zingareddha  (la zingarella).

 Che ci fa una zingarella tra i pastorelli del presepe?

Se consideriamo la religione cristiana, viste le doti divinatorie attribuite alle donne zingare, additate di ricorrere all’astrologia e alla stregoneria, tale personaggio può risultare, in effetti, scomodo e fuori luogo. Ma ‘a zingareddha, nel presepe locale riveste un ruolo simbolico preciso.  La pastorella dal volto scuro, vestita di stracci dai colori accesi rappresentata, la maggior parte delle volte, con un bambino in fasce tra le braccia o nell’atto di allattare, annuncia, nel giorno della nascita del Bambinello, la Passione e Morte di Gesù Cristo, attraverso gli strumenti della Crocifissione (i chiodi, la tenaglia, il martello) che porta in un paniere. Come testimoniato dal grande ricercatore e musicologo Roberto De Simone, la Zingara, riveste stesso ruolo determinante anche nel presepe napoletano, e rimanda a figure profetiche ancestrali, le Sibille. La figura della Zingara, per via delle capacità divinatorie, è presente anche in diverse opere letterarie e teatrali, in rappresentazioni sacre e profane, canti e racconti e altre espressioni del mondo popolare del sud Italia. Durante la fuga in Egitto, episodio evangelico che molto si presta alla narrazione, secondo la tradizione orale, San Giuseppe, Maria e il Bambino in groppa all’asinello, durante il cammino si sono imbattuti in una zingarella indovina.   

Si tramanda, a tal proposito, in Calabria, un canto narrativo che riferisce l’immaginario colloquio fra la Madonna e la Zingarella indovina:

Diu ti sarvi, o beddha Signura,
e ti dia bbona ventura:
Bona ventura vecchareddhu
ccu ssu beddhu bambineddhu.

La Zingarella offre ospitalità a Maria e Giuseppe nella sua umile casupola, dà anche alla Madonna la ventura, narrandole il passato vissuto e predicendole la Passione di Gesù:

Cchi dolura sentireti
quandu mortu lu vedreti. 
cu gran lacrimi e suspiri
lu portati a seppeddhiri…

La zingarella  chiede in cambio l’elemosina, ma la Madonna risponde di essere forestiera e di non avere nemmeno uno spicciolo. Allora la zingarella indovina  chiede per ricompensa la salvezza dell’anima:

…s’anima,  sulu, dopu morta
falla entrare a li celesti porti.

 

Queste sono solo alcune strofe di lungo dialogo dialettale catanzarese,  tra la Madonna e la Zingarella indovina, pubblicata nel 1881, dal filologo e storico Francesco Corazzini in un libretto dal titolo Poesie Popolari calabresi. 

Autorevoli fonti scritte ci danno notizia che si tratti di un antichissimo canto di tradizione orale. Ad opera di un monaco parlemitano, nel 1775, è stato trascritto e pubblicato in un libretto, che ne ha permesso e facilitato la diffusione in Sicilia, in Calabria e in molte regioni italiane parallelamente alla trasmissione orale, e alla riproposizione dei cantastorie nei loro spettacoli di strada.

Anche io, nel mio spettacolo sul Natale calabrese, accompagnandomi con la chitarra battente, tra le tante storie che canto e racconto,  interpreto una colorita versione di questo affascinante canto narrativo della tradizione orale,  per tramandarlo alle nuove generazioni.

 

 

Di Andrea Bressi 

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