Le origini di Riace risalgono ad epoca aragonese.Tutto il paese ne rivela l’origine in ciò che resta dell’architettura mista catalano-aragonese, nelle viuzze, negli edifici sacri e nei palazzi privati. In precedenza l’area doveva essere sede ambita dal monachesimo Basilano che pone la preghiera, con l’eremitismo alla base della vita in comune (le regole di San Basilio Il Grande, 330-379 d.C. vescovo di Cesarea dal 370). Quanto alle origini del nome, Riace non si discosta da Monasterace, Gerace, o dai paesi alle falde dell’ Etna come Aci Trezza, Aci Bonaccorsi, Aci Platani, Acireale, Aci Catena ecc.
Non si può attribuire a Riace una origine greca come facente parte del territorio di Kaulon. E` vero che ricade nel territorio della Magna Grecia, ma non esiste alcuna prova dell’esistenza di una località chiamata Riace fino a tutto il periodo normanno (1059-1194), svevo oppure angioino (XIV sec.).
Nell’Agosto del 1972 sui fondali del mare antistante Riace vennero rinvenuti i famosissimi “Bronzi di Riace” . Il rinvenimento “fortuito” avvenne il 16 agosto. Il 21 fu recuperato il Bronzo “A” e l’indomani il “B”. Secondo studi e ricerche facevano parte di un gruppo statuario che rappresentava il momento subito precedente al duello fratricida fra Eteocle e Polinice, fratelli di Antigone, del mito dei Sette a Tebe collegato con quello di Edipo.
Il più antico documento in cui è citata Riace e` del 1561, in cui si parla della morte, in odore di santità di Cristoforo Crisostomo, Riacese. Un altro dato sulla datazione di Riace ce la fornisce la campana della Chiesa dell’Assunta, su cui e` riportata la dicitura “Hanc fundere fecit campanam Confraternitas s.mi Sacramenti, A.D. 1596” Sino all’epoca Normanna (nel 1059 Roberto il Guiscardo ebbe il Ducato di Puglia e Calabria; la fine del dominio Normanno si ebbe nel 1194 quando Enrico VI, sposando Costanza di Altavilla, uni` alla corona imperiale anche quella di re di Sicilia) la Calabria Jonica e` sotto l’influsso culturale e artistico della civiltà Bizantina. La sua storia si fonde con quella di Stilo, di cui e` casale, almeno fino al Novembre 1666, data in cui l’autorita` centrale consente ai riacesi di pagare le tasse per proprio conto. La città di Riace era fornita di cinta murarie ed esistevano tre porte per l’accesso: la Porta di Santa Caterina, la Porta di Sant’Anna e la Porta dell’Acqua. Ad otto chilometri dall’abitato sorge la Torre di Casamona, a Riace Marina, per prevenire gli sbarchi dei Pirati turcho-barbareschi. Era costituita da due ampie stanze sovrapposte e da una terrazza merlata, ed era dotata di un cannone. L’esistenza di questa torre e` ampiamente documentata dal 1583, prove ne sono le notifiche per i pagamenti, da parte dell’ Università (un tipo di corporazione medioevale) di Riace, per il personale di guardia della torre, (capitani e cavalieri) notifiche che perdurano sino al 1707. La Torre di Casamona ha svolto una vitale funzione di sorveglianza sulle coste Riacesi per un arco di due secoli. Nel 1640 Riace risulta essere abitata da 400 persone, piu` una in mano ai saraceni!. La zona riacese non ha conosciuto, a differenza della maggior parte dell’ Italia, la civltà feudale. La presenza di miniere di ferro e di argento favorirono l’interesse del governo centrale napoletano a non infeudare il territorio. Di questi benefici godevano anche altre città, come Stilo, o Bivongi. Nonostante ciò, negli anni 1647-48 si ebbero una serie di cruenti episodi, omicidi, saccheggi, dovuti al tentativo di infeudamento di Stilo e dei suoi casali, Riace compresa, perpetrato dal Marchese d’Arena, che con un atto illegale acquisto` il casale di Stilo .Per ribadire il proprio diritto all’appartenenza al Regio Demanio ci fu anche una rivolta popolare, in Stilo, soffocata nel sangue (14 morti tra cui un bimbo di due anni). Del casale di Riace risulto` ucciso il Dott. fisico Giuseppe Politi
Nel 1756 la popolazione era costituita da 508 donne e 493 uomini (1001 persone). Di questi 132 sono coltivatori diretti, 27 massari, un guardiano di pecore, due mugnai, un tiratore di seta; ci sono anche 30 sacerdoti e 18 suore; 8 calzolai, 5 sarti, 3 barbieri, 3 fabbri, uno scalpellino, un indoratore, un servitore, un fabbricatore, un aromatario. L’assistenza medica era assicurata da 3 dottori e 2 farmacisti (speziali). L’assistenza giuridica da un giudice e due notai. Risulta che sei fanciulli fossero “addetti alle lettere”, evidentemente in forma privata, perchè la scuola pubblica ancora non era stata istituita. Nel 1773 fu edificata, in Riace Marina, la Cappella di San Biagio, che e` Monumento Nazionale. Fu eretta per ordine del barone Antonio Gagliardi. Si trova in prossimità della provinciale per Riace Superiore, vicino al passaggio a livello, e attesta che Riace Marina era abitata anche nel XVIII secolo. Nel 1783 ci fu un tremendo terremoto. Si lamento` un morto e 20.000 ducati di danni. Nel 1815 venne istituita la scuola pubblica, più volte soppressa (e ripristinata) per mancanza di scolari. Nel 1818 gli abitanti di Riace erano 1062. Gli uomini 231, le donne 362. I fanciulli erano 231, le fanciulle 208. I preti erano 8. 200 sono i contadini, 100 tra artisti e domestici. Tra disoccupati e mendicanti si contano 80 uomini e 167 donne. Si noti come, nonostante sia zona “riverasca”, e nonostante l’antica tradizione dell’università di Riace di mantenere la Torre di Casamona, non risulti esserci nessun pescatore. Con il crollo dei Borboni, Riace diviene uno dei comuni dell’Italia meridionale. Soffre i problemi del brigantaggio, dei moti reazionari, dell’emigrazione, come tutto il resto del meridione. Unica nota nel 1972 vengono ripescati in mare, di fronte alla località “Agranci” due capolavori della scultura ellenistica, i Bronzi di Riace, che hanno portato il nome della città a fama mondiale.
RIACE TRADIZIONE E DEVOZIONE
Una delle feste più sentite che caratterizza Riace è sicuramente la festa dei Santi Medici Cosma e Damiano. Le origini della festa risalgono al 1669, anno in cui sono arrivate da Roma, in dono al santuario, le reliquie dei due santi martiri dell’Oriente, mentre soltanto nel 1734 sono stati proclamati Patroni del paese. Solamente agli inizi del XIX secolo le reliquie sono state trasferite nella chiesa Matrice di Santa Maria Assunta e sistemate in un apposito braccio d’argento per far ritorno al santuario unitamente ai santi nei giorni di festa. Per la Festa dei Santi Medici vi è, ancora, una grande affluenza di fedeli delle comunità Rom e Sinti devoti dei santi medici considerati loro protettori e le cui radici sono molto antiche e profonde. Arrivano da tutta la Calabria i gitani per onorare, anche, il Beato Zeferino Giménez Malla, detto “El Pelé” (1861-1936).
CHI E’ ZEFERINO GIMENEZ MALLA?!
È un analfabeta, che si porta dietro il marchio indelebile di essere un gitano, cioè uno zingaro, “malgrado” il quale è stato elevato alla gloria degli altari. Forse, a dire il vero, più in conseguenza della morte che ha subito, che non della sua dirittura morale e della sua integrità di vita, anche se queste, da sole, già gli avrebbero meritato una corona di gloria. Ceferino Jiménez Malla nasce in Spagna nel 1861, non si sa bene dove e neppure precisamente quando, e fin da bambino conosce la precarietà della vita nomade e la povertà autentica. Fa il panieraio, tesse cioè ceste e canestri, che poi vende di villaggio in villaggio, ma le bocche da sfamare sono tante, anche perché papà ha pensato bene di andar a vivere con un’altra donna, lasciando la prima famiglia nell’autentica indigenza. A 18 anni è già sposato alla maniera gitana con Teresa Jiménez: un matrimonio felice, anche se privo di figli, che durerà più di 40 anni. Le testimonianze concordano: le condizioni di estrema povertà non riescono a fare di lui un ladro o un approfittatore. L’onestà che gli viene da tutti riconosciuta finisce per procurargli un’autorevolezza, una superiorità morale grazie alla quale acquista un ruolo di “capo” dei gitani di Barbastro e del circondario: gli chiedono consigli e lo fanno intervenire da paciere nelle liti famigliari, nelle controversie tra gitani e addirittura nelle dispute tra questi e le persone del luogo. La svolta economica della sua vita avviene per un atto di generosità: un giorno si carica sulle spalle e riporta a casa, incurante del pericolo di contagio, un ricco possidente di Barbastro, malato di tubercolosi, svenuto per strada a causa di uno sbocco di sangue. La famiglia di questi lo ricompensa con una forte somma, con la quale Zeffirino, da tutti soprannominato “El Pelè”, intraprende un redditizio commercio di muli che gli fa raggiungere un invidiabile livello di benessere. Anche nel commercio e nell’ improvvisa agiatezza si rivela però limpido ed onesto, fino allo scrupolo: chi acquista da lui sa che non avrà sorprese, perché gli eventuali difetti delle sue bestie sono messi ben in evidenza, non ammettendo frodi neppure dagli altri gitani. Eppure, un uomo così viene un giorno incarcerato perché due animali che ha comprato si sono rivelati rubati: elemento più che sufficiente per accusarlo di ricettazione o perlomeno di incauto acquisto. Pesano sul suo arresto e sul processo, certamente, la sua origine gitana ed il pregiudizio razziale che fa di ogni zingaro un potenziale disonesto. Assolto per aver dimostrato la sua buona fede e la sua completa estraneità al furto, il Pelè continua la sua redditizia attività commerciale, nonostante la quale si riduce in povertà: ha infatti le mani bucate perchè soccorre chiunque è nel bisogno ed aiuta i poveri, il più delle volte di nascosto dalla moglie che non condivide questa sua prodigalità. Prima di tutto, però, il Pelè è un cristiano convinto, che della sua fede non fa mistero: sempre con la corona del rosario in mano, attivissimo nelle associazioni religiose, impegnato nell’ adorazione notturna e nella San Vincenzo, dalla messa e dalla comunione quotidiana soprattutto da quando, regolarizzando la sua posizione anche con il matrimonio religioso, ha potuto accostarsi ai sacramenti. La rivoluzione del 1936 che scatena l’odio antireligioso, non riesce a fargli mutare minimamente la sua coraggiosa professione di fede: difatti lo arrestano nel mese di luglio, perché ha difeso un prete e perché in tasca gli han trovato la corona del rosario. Che non posa più, neppure quando amici influenti gli promettono l’immediata scarcerazione se soltanto evita di farsi vedere con la corona in mano. Lo fucilano ai primi di agosto, ancora e sempre con il rosario in bella vista, insieme al suo vescovo con il quale è stato beatificato da Giovanni Paolo II nel 1997, primo e finora unico zingaro ad essere portato sugli altari.
I SANTI COSMA E DAMIANO;
Secondo la tradizione Cosma e Damiano sono due fratelli di origine Siriana, due medici che erano detti “Santi Anàrgiri” (nemici del denaro), con questo termine sono passati alla storia, perché prestavano con assoluto disinteresse la loro opera sia ai ricchi che ai poveri, in applicazione del precetto evangelico: “Gratis accepistis, gratis date”. Inoltre, alcune scritture parlano di un loro farmaco chiamato ‘Epopira’. Sono nominati nel canone della messa e designati dalla chiesa Patroni dei medici, dei chirurghi, dei dentisti e dei farmacisti. Vissero in tempi assai difficili per il cristianesimo. Non a caso sotto l’impero di Massimiano e di Diocleziano, tra il 286 e il 305 d. Cr. si ebbero le maggiori repressioni e persecuzioni dovute al rifiuto da parte dei cristiani del paganesimo imperante e del culto dell’imperatore. In esecuzione dell’editto del 23 febbraio 303 i SS. Martiri Medici Cosma e Damiano furono arrestati con l’accusa di professare un credo religioso vietato ed il relativo processo si svolse al cospetto di Lisia, prefetto romano della Cilicia. Il loro primo biografo, il saggio Teodoreto, alla guida dell’episcopato di Ciro, dall’anno 440 al 458, ebbe a definirli ‘illustri atleti di Cristo e generosissimi martiri’. In questo luogo, sulla loro tomba, venne costruita la prima chiesa votiva, meta incessante di pellegrinaggi per venerarvi le sacre reliquie ed implorare la loro intercessione. Il Dioscoro Gentile che da pagano diviene cristiano. Egli si rivolge a Castore e Polluce, divinità greche preposte alla guarigione e li invoca per ottenere una guarigione, questi lo invitano ad avvicinarsi dicendogli, «noi non siamo quelli che tu invochi, ma siamo Cosma e Damiano».
Secondo il Martirologio Romano, erano fratelli e compagni non solo di sangue, ma anche di fede e di martirio. Studiarono assieme medicina in Siria e salirono ben presto a grande fama per la loro valentia nel curare i malati. Forse erano arabi di nascita, ma assai per tempo ricevettero un’ educazione cristiana veramente ammirabile. Animati da vero spirito di fede e di carità si servirono della loro arte per curare sia i corpi sia le anime con l’esempio e con la parola. Riuscirono a convertire al cristianesimo molti pagani . Si portavano in fretta presso chiunque li richiedesse rifiutando ogni compenso, contenti di poter per mezzo della loro arte esercitare un po’ di apostolato. In questo modo si attirarono amore e stima non solo dai cristiani, ma anche dagli stessi infedeli. Venivano da tutti soprannominati “Anàrgiri” (dal greco anargyroi, parola greca che significa “senza denaro”), proprio perché non si facevano pagare per la cura dei malati.
IL MARTIRIO DI COSMA E DAMIANO;
Mentre essi compivano tanto bene, ecco scoppiare la persecuzione di Diocleziano. I santi Cosma e Damiano si trovavano in quel tempo ad Egea di Cilicia, in Asia Minore. Così circa l’anno 300 i santi medici si videro arrestati e tradotti davanti al tribunale di Lisia, governatore della Cilicia. «Ho l’ordine, dice il proconsole, di far ricerca dei cristiani, punire quelli che resistono e premiare quelli che si sottomettono alle leggi dell’impero. Voi siete accusati di appartenere alla setta… Scegliete ». « La scelta è fatta, risposero i santi fratelli, siamo cristiani e come tali siamo pronti a morire ».
« Riflettete bene, soggiunse Lisia, perché si tratta di vita o di morte, non potendo, né dovendo io tollerare una ribellione alle leggi ». « Noi rispettiamo come gli altri le leggi civili, ma nessuna legge ci può costringere ad inchinarci ai vostri dei di fango; noi adoriamo il Dio vivo e ci inchiniamo a Gesù Cristo Salvatore ». Lisia sdegnato ordinò che fossero legati e flagellati. Dopo questo primo tormento, persistendo i Santi nel loro fermo proposito, ordinò che fossero gettati in mare. L’ ordine fu all’ istante, mentre una grande turba di cristiani piangeva dirottamente. Il Signore venne in loro soccorso: le onde li spinsero fino alla riva e così poterono salvarsi. A tal vista il popolo gridò : « Siano salvi i nostri medici; si rispettino quelli che il mare stesso rispetta ». Purtroppo tutte queste grida furono vane: il proconsole li voleva assolutamente morti, perciò li fece gettare in una fornace ardente. Liberati miracolosamente dal Signore, dopo altri vari tormenti, furono fatti decapitare a Egea probabilmente nel 303. Sul loro sepolcro si moltiplicarono i miracoli: lo stesso imperatore Giustiniano, raccomandatosi alla intercessione di questi santi medici, fu guarito da mortale malattia e per riconoscenza fece erigere in loro onore una sontuosa basilica.
In loro onore Papa Felice IV (525-530) fece costruire a Roma una chiesa, decorata di mosaici stupendi. I resti dei santi martiri sono custoditi nel pozzetto dell’antico altare situato nella cripta dei Ss. Cosma e Damiano in Via Sacra, dove li depose S. Gregorio Magno (590-604). Vivo il loro culto in Oriente in Occidente, dove numerose chiese e monasteri di epoche diverse sono intitolate ai santi martiri “guaritori”.