“ Nella parte più meridionale della nostra penisola, in alcuni paesi montani che sorgono a metà strada fra Locri e Reggio, gli anziani agricoltori e i pastori parlano ancora un arcano dialetto greco che, giunto fino a noi  attraverso una tradizione puramente orale, sembra quasi non aver mai avuto un suo passato e una sua storia…”.

Così si esprimeva nella sua importante opera: “La Glossa di Bova”, il compianto e mai dimenticato Prof. Giovanni Andrea  Crupi, il quale, in un’epoca  “cruciale” (anni ’70) per la sopravvivenza della  Lingua Greca di Calabria, antichissimo e nobilissimo “idioma dei Padri”, era riuscito, forse più di chiunque altro, a porre la “questione grecanica”  nei termini più “incisivi”  possibili. (Preciso  fin da subito che,  “grecanico”  è un “etimo” – usato sia come aggettivo che come sostantivo – che non amo, in quanto, nel tempo, ha assunto una “connotazione” che, in parte,  reputo   impropria, una  “deminutio” , e, la maggior parte dei “grecanici”, non accettano questa definizione, preferendo quella di: Grecofono, Ellenofono o Ellenofono di Calabria, Calabrogreco, Greco di Calabria per indicare il parlante greco; e ancora: lingua greca di Calabria, Greco di Calabria,  greco calabro o calabro greco per indicare il proprio “dialetto”) – Vale a dire – tornando al Crupi -: non si trattava di salvare soltanto una lingua (per altro lingua-madre…), ma , tutta una cultura, “le cui origini si perdevano nella notte dei tempi”. Egli lottò strenuamente per dare voce ai “Greci di Calabria”: “Dòste mia fonì ecinò ti den tin èchu – Date una voce a quelli che non l’hanno” (citazione del prof. Filippo Violi), andava ripetendo a tutti, compresi gli studenti di Liceo che, come il sottoscritto, ebbero l’onore di averlo come Docente di Storia e Filosofia. “Greki  ambrò!”, amava ribadire nei numerosi  incontri e convegni a cui partecipava.

L’epigrafe in greco (in caratteri latini, com’è in uso nel  Greco di Calabria), sul freddo marmo della sua lapide, racchiude , in estrema sintesi, quelli che sono stati i suoi  valori imprescindibili, ciò che ha rappresentato l’essenza della sua purtroppo breve  esistenza:

Eplàtezza ‘zze filosofia                Ho parlato di filosofia

Ègrazza stin glòssa tu Vua          Ho  scritto nella lingua di Bova

Agàpia  tin anarchìa                    Ho amato l’anarchia

Ho voluto iniziare questo breve lavoro “dando voce”, doverosamente, a una delle più importanti figure del “cosmo” greco-calabro, sia  per la profonda stima  da sempre nutrita nei suoi confronti,  sia perché, è stato proprio in quegli anni (fine anni ’60 – inizio anni ’70), che – grazie anche all’opera del Crupi e all’impegno di altri giovani valenti intellettuali della Bovesìa, alcuni dei quali trasferitisi a Reggio,  e,  con il contributo di qualche importante studioso reggino – si è ricominciato a (ri)prendere coscienza del  proprio passato e si è sentito il bisogno di “recuperare”, di riscrivere la propria storia, una storia che fin dalle sue lontanissime origini, trasuda di una grecità  profonda, granitica  a tal punto da averne “ossificato” l’identità…

In questo “ultimo rifugio dell’ellenismo” (leggi: AreaGrecanica-Bovesìa), da ormai  30-40 anni, l’etnia greca di Calabria è al centro di un intenso fermento intellettuale, avente come obiettivo la salvaguardia, la rivalutazione e la valorizzazione del patrimonio linguistico, storico e culturale dell’area.

Siamo “in finibus Calabriae”, nell’estremità meridionale dell’Aspromonte, un territorio in cui, nel corso della sua plurimillenaria storia, si è  miracolosamente conservata un’identità linguistico-culturale,  rimasta per alcuni versi un “unicum” nel  panorama della Calabria intera. E’ questa l’area in cui vivono (continuano a vivere,  fin… dall’VIII sec. a.C.), i Greci di Calabria, “diventati” minoranza linguistica, ma da sempre “maggioranza culturale”, dal momento che le radici, “ I Rìze”, “valori eterni”, permeano secoli e secoli di storia, facendo dell’estremo punto meridionale della Calabria, una “terra dall’anima greca”, una “terra greca nell’occidente latino”. Terra, storicamente più orientata verso la “Graecitas” piuttosto che verso la “Romànitas”,  dove è del tutto  palese,  tra l’altro, una “interdipendenza culturale” con l’intera Calabria meridionale,  ma, soprattutto,  con  la Locride, con l’Area dello Stretto, con l’Estremità Nord-Orientale della Sicilia e con la Grecìa Salentina.

In questo lavoro, concentreremo la nostra attenzione, soprattutto, su quello che può essere considerato il segmento culturale più importante (o,quanto meno , tra i più importanti) della cultura greco-calabra, ovvero, la lingua, “elemento” di vitale importanza per la sopravvivenza del tanto variegato quanto affascinante mondo dei “Grèki  tis Kalavrìa”.

Sul “greco di Calabria” o “greco-bovese” (per dirla con il Crupi e con il Rohlfs), moltissimo è stato scritto. Pertanto, questa breve nota non ha, né può avere pretesa alcuna, di aggiungere nulla di particolarmente “nuovo”, semmai, vuole semplicemente essere, una pacata ma  sentita “riflessione” sulla “glòssa palèa”, sulla lingua dei Padri, per secoli in “travaglio”, in affanno, addirittura in agonia,  ma mai morta, nonostante innumerevoli “becchini”, nel corso della sua lunga storia,  si siano accostati più volte dinanzi al  quasi “feretro greco-calabro”, con lo scopo di poterlo “finalmente” seppellire…

L’origine della lingua greca di Calabria, non è stata mai definitivamente chiarita, e, l’acceso dibattito che non ha lesinato “punte” di aspra polemica, tra lo schieramento “rohlfsiano”, che ritiene il “greco di Calabria” diretto discendente di quello della Magna Grecia, e, quello “morosiano” (o, “parlangeliano”), che lo vuole invece erede del greco-bizantino (nato, cioè, in età bizantina), ha portato a una gran quantità di studi , ma non ha – per alcuni –  risolto del tutto, i dubbi sulla sua “nascita”.  La tesi “megaloellenica” (rohlfsiana), è comunque quella nettamente dominante, e sono molti ad aver attribuito alla teoria “bizantinista” ragioni di ordine “ideologico”.

Senza immergerci nell’aspetto prettamente linguistico, solo “sfiorandolo” a mala pena, diciamo che Gerhard Rohlfs, ha più volte ricordato che i Bizantini (in realtà: “Romèi”, ovvero, “Romani d’Oriente”, di cultura greca), non hanno lasciato traccia alcuna della loro lingua né a Bari, né a Ravenna (ex Capitale dell’Esarcato), né in Dalmazia e neppure in Sardegna, regioni dove, a lungo, mantennero il loro impero.

Se da una parte i “dorismi” e gli “arcaismi”, anteriori alla “Koinè” (IV° sec. a.C), presenti esclusivamente nel  “greco d iCalabria”, “tagliano la testa al toro” riguardo l’origine dell’idioma tutt’ora presente – per lo più – nella “Isola Ellenofona  dell’Area Grecanica”, d’altra parte, sono gli stessi storici a indicare una realistica soluzione alla “vexata quaestio”.

Vera von Falkenhauser

Vera Von Falkenausen in merito, dice: ”…Sembra che la grecità meridionale si basi su un sostrato greco anteriore, che non si era mai completamente spento e che fu quindi “rianimato” dalla “riconquista bizantina”. L’illustre studiosa, inoltre, esclude un progetto “dall’alto”, da parte di Costantinopoli, che avrebbe comportato una migrazione “pilotata” di popolazioni  in grado di “colonizzare”, in senso “greco”, la Calabria. Trasferimenti di gruppi etnicamente omogenei, erano normali in un impero plurietnico come quello bizantino, per esigenze militari e  commerciali; ma ciò, “non può essere considerato come uno spostamento di popolazioni numericamente rilevante”; (…)”possiamo calcolare che una flotta di 100 navi, avrebbe potuto trasferire al massimo 15.000 orientali in Italia, se tutte le navi avessero raggiunto la destinazione senza danno”.

Inoltre, i bizantini non hanno mai imposto la propria lingua ai propri sudditi, e, per di più, alla metà del sec. VIII°, la Calabria era già di lingua e liturgia bizantina, tanto è vero che il decreto di Leone III° l’Isàurico (732-733), non incontrò nessuna opposizione “in loco” (cosa che invece non si verificherà quando i Normanni, più tardi, cominceranno a “latinizzare” la Calabria, imponendo  la lingua latina e la liturgia di Roma).

Un ulteriore, significativo contributo alla tesi “magnogreca” ci viene fornito, di recente, da una  pregevolissima e importantissima edizione di 62 epigrafi greche del  Museo di Reggio Calabria, pubblicata dalla “epigrafista” Lucia D’Amore nel 2007. Attraverso la loro attenta lettura, qualsiasi linguista che non abbia posizioni precostituite, può agevolmente rendersi conto, infatti, che la tesi di Rohlfs sulla presenza nella Calabria meridionale, di ellenofoni, fin dai tempi antichi, è qui confermata ”scientificamente”, in quanto, le epigrafi  “occupano”  un arco di tempo che va dal secolo VI° a.C., al 1.000 d.C., cioè, fino all’arrivo dei Normanni (!)… I testi di queste  importantissime  epigrafi, composti in esametri e pentametri in lingua greca, costituiscono, secondo l’illustre studioso reggino, Prof. Mosino, “ una straordinaria testimonianza per la storia linguistica e culturale di Reggio e della sua “Chòra”; inoltre, egli fa notare  che da queste “attestazioni”,  emerge altresì, che a  Rhègion, “si parlava greco e latino secondo la metrica greca”.

Dopo il  piccolo contributo, di cui sopra,  alla tesi “rohlfsiana”,  ci piace ricordare che,   da vivo, il grande glottologo e filologo tedesco, ricevette onori e riconoscimenti  nella  Calabria tutta: la cittadinanza onoraria di Bova, la laurea “honoris causa” dell’Università  di Cosenza; molti Comuni, dopo la morte, gli intitolarono vie e piazze, come di recente il paese di Badolato (CZ) o il paese di Paola (CS).

Tornando alla parte più propriamente “storica”, possiamo affermare, quindi, l’ininterrotta presenza della lingua greca durante l’intero periodo “romano” e la nettamente sua maggior diffusione, specie nella parte meridionale della Calabria; dopo la caduta dell’Impero, anzi, essa  rappresentò anche la “varietà alta” fino all’XI° sec., ovvero, fino all’avvento dei Normanni, i quali diedero avvio – con l’appoggio della Chiesa di Roma – a una irreversibile inversione di tendenza:  linguistica, culturale e religiosa. Gli “uomini del Nord”, infatti, quantunque “nati” predoni e mercenari, si dimostrarono, strada facendo, conquistatori attenti e dotati di uno spiccato senso dell’opportunità politica, e, pur apparendo tolleranti nei confronti della chiesa greca, iniziarono contemporaneamente quell’inarrestabile processo di “latinizzazione” della Calabria meridionale,  che avrebbe condotto, più tardi, alla fine del rito greco e, quindi, anche del prestigio della lingua greca.

Le conquiste normanne

L’anno 1059 (caduta di Reggio) e l’anno 1071 (caduta di Bari), a opera dei Normanni, rappresentano due date storiche molto negative, anzi, “cruciali” per il “destino” della grecità in terra meridionale. Le “buie notti” angioine, aragonesi e spagnole, più tardi, sono una perentoria conferma della  quasi totale “occidentalizzazione” di usi, costumi, cultura, lingua e religione. Anche nella Bovesìa, ultimo baluardo greco, dal punto di vista  linguistico, tradizionale e cultuale, la situazione, già compromessa, sarebbe precipitata dopo la fine (leggi pure: soppressione) del rito greco-bizantino, nel 1572/73, a opera del vescovo armeno-cipriota  Giulio Stauriano. Sull’onda della Controriforma tridentina, al vescovo  di Reggio, Annibale D’Afflitto, basteranno pochi decenni (1593-1638), per  sradicare completamente il rito greco  dalle sue ultime e ormai umilissime “dimore”  intorno a Bova  e  nelle “Cinque Terre” (diocesi “greca” di Reggio), per trapiantarvi quello latino.

Da questa epoca in avanti, nella “Bovesìa e dintorni”, da lingua di culto e di prestigio, il greco, passa  a lingua della “misera plebs”.  Nel 1806, dopo una fase piuttosto oscura, in cui la lingua greca, tra il ‘600 e il ‘700, trova “ospitalità” ma in caratteri latini, nelle opere del De Marco, del Mesiani e del Rodotà, l’interesse per il greco di Calabria si riaccese dopo che J.C. Eustace visitò la zona sud-aspromontana e segnalò “popolazioni di lingua greca” e, più ancora, dopo che alcuni canti “bovesi” scoperti da Karl Witte (1821), furono pubblicati e commentati sulla rivista “Philologus” qualche decennio più tardi da F. Pott (1856). Fu dalla seconda metà dell’800 che cominciò ad aprirsi una profonda discussione sulla origine e la natura di questo “greco-linguaggio”. In particolare (come accennato in precedenza), Giuseppe Morosi (1870-1878),  sosteneva l’origine bizantina dell’idioma greco parlato in questi territori e fu una teoria che fino al 1924 imperò incontrastata  fino a quando, il più grande filologo, glottologo e dialettologo della storia, l’illustrissimo Prof. G. Rohlfs, non  la “demolì”, in modo scientifico.   L’illustrissimo studioso tedesco, a cui la Calabria (e non solo) deve moltissimo, produsse un  fondamentale “corpus  probatorio”, di ordine lessicale, morfosintattico, onomastico, toponomastico, fitonomastico, agionomastico, ecc., raccolto dal 1921 al 1982, anche attraverso  visite “porta a porta”,  di 365 località della Calabria, spesso  a “dorso di mulo”,  con il quale “corpus” fu in grado di fornire, inequivocabilmente, la prova della ininterrotta presenza del greco “ex temporibus antiquis”.

Ma, parallelamente al crescente interesse degli studiosi per la lingua greco-calabra, si imponeva, specie dalla fase immediatamente successiva all’Unità d’Italia, la necessità di imparare la lingua italiana e di adoperarla non più soltanto per iscritto; presso le classi colte e quelle borghesi, l’esclusione  dagli usi familiari delle varietà dialettali veniva concepita come un passo necessario per il buon apprendimento della “lingua della Nazione”. Lo stesso dovette avvenire nella attuale “Isola Ellenòfona”, rispetto, non tanto al dialetto romanzo ma al greco, la varietà più stigmatizzata e percepita lontana dall’Italiano, il cui utilizzo – anche in famiglia – avrebbe solo avuto l’effetto di “inficiare” una adeguata competenza della lingua nazionale. La scolarizzazione obbligatoria, faceva subire alle masse contadine monolingui (parlanti il greco) dell’area, quotidiane umiliazioni e severe punizioni derivanti soprattutto dall’alloglossia più che dall’analfabetismo.  Per cui, ben presto, la “dicotomia”: proletariato grecofono analfabeta/borghesia italofona alfabetizzata, scatena il “meccanismo” della discriminazione e della “tabuizzazione” del greco… All’opera di “demolizione” della lingua greca, pertanto, non sono estranee cause di natura psicologica, in quanto, viene  “pilotato” dall’alto il concetto che tutto ciò che non è cultura nazionale in lingua, è sottocultura, “avanzo ancestrale”… concetto,  che viene interiorizzato  dai “grecofoni” che ormai “percepiscono” il loro idioma e la loro (quantunque, plurimillenaria) cultura, come espressioni  di inferiorità di razza e di civiltà (!)…di cui bisogna “liberarsi” cercando altre identità… (“Sic transit gloria mundi”, mi verrebbe da dire…).

Inoltre,   le comunità dell’Area  Grecanica (e non solo), vengono  “investite” da un saldo migratorio rilevante, che diventa critico,  a ridosso degli anni ’50, ’60 e ’70, derivante, soprattutto, dallo svuotamento delle aree collinari e montane, in cui, tradizionalmente, erano insediate le popolazioni ellenofone. (Come se, in un certo senso, la scoperta di un mondo “nuovo” (Italia, Europa, Americhe, ecc.), diventa, contemporaneamente, la quasi fine di questo “vecchio” mondo, quello dei Greci di Calabria.

A ciò, si aggiungono le alluvioni che si succedono negli anni ’50 e ’70 nell’enclave greca  e che compromettono la sopravvivenza “materiale” delle comunità nell’entroterra  pre-aspromontano, con “l’ineludibile effetto” di giungere all’impoverimento, alla “deplezione” della memoria, il cui “trend negativo”, rischia di cancellare completamente tradizioni e lingua…  A tal proposito, il linguista olandese Dimmendaal, sottolinea quanto sia di vitale importanza per la lingua, rimanere “in situ”, sostenendo che, “i cambiamenti nell’assetto economico e sociale delle comunità alloglotte, possono non essere decisivi nella “sostituzione linguistica”, se la popolazione o una parte di essa rimane “in loco” (l’esempio di Bova-Chòra, nello specifico,  è assolutamente  “probatorio”).

Secondo un’indagine effettuata sul campo, alla fine degli anni ’90, in seno alla quale vennero interessati circa 300 studenti delle scuole medie ed elementari della Bovesìa, è emerso che il “greco di Calabria”, viene considerato “lingua dei vecchi” e non “intriga” le giovani generazioni che, in generale,  non lo parlano pur  comprendendolo passivamente per un 15% circa. La risposta, però, quasi plebiscitaria dei ragazzi all’item: ”ti dispiace che il greco di Calabria stia scomparendo?” (con… l’88% di risposte affermative), deve essere “tesaurizzata” da chi ha a cuore le sorti di un patrimonio così importante da rappresentare un bene immateriale unico…

Oggi, con un ritardo di oltre 50 anni dall’entrata in vigore della Costituzione Italiana – il cui Art.6 “tutela, con apposite norme le Minoranze Linguistiche”- abbiamo finalmente una Legge Nazionale, la N° 482 del 15 Dicembre 1999, nonché, la Legge Regionale 15/03 e il D.P.R. 345/01. Ma, qual è lo stato attuale della lingua greco-calabra nell’Area Grecanica? Quali sono i “limiti” e i territori ammessi a tutela?  E quali veramente ellenofoni? Amministrativamente, l’Area Grecanica comprende  16 Comuni che da Reggio e Cardeto si “spalmano”, da occidente a oriente, nella fascia pre-aspromontana e nella costa ionica fino al Comune di  Samo. Questa organizzazione politico-amministrativa non rispecchia, comunque, quelli che sono gli effettivi  “confini linguistici”, per cui bisogna distinguere i territori dove ancora persiste l’antico idioma,  da quelli in cui l’ellenofonia è pressoché estinta,  “specificando” che esiste una “Area Culturale Grecanica” , che ha nel suo “cuore”,  quel  “diamante incastonato” che è l’Isola Ellenofona o Grecofona, testimonianza vivente di un mondo linguistico che è stato per secoli e secoli, “denominatore comune” non solo dell’attuale Area Grecanica ma di  gran  parte dell’intera  Calabria. Questi Comuni  “ellenofoni” sono: Bova , Bova Marina, Condofuri( con Gallicianò), Roghudi e Roccaforte del Greco: piccoli paesi in cui oggi, più che mai, è importante riscoprirne le “radici” che svelano,  anche a un visitatore un po’ distratto, il carattere che rende unica questa terra: la “grecità”!  “ Rize”, spesso trascurate dalle poche “memorie di carta” di questa terra, ma che è necessario salvaguardare affinchè si ponga un argine e  si  arresti la “diaspora”, “l’emorragia”, l’abbandono  dell’entroterra, con il  favorire  la permanenza , in questi siti, dei “parlanti”, delle  loro famiglie e dei loro concittadini.  Si può dire che Bova, e,  – con encomiabile sforzo – anche Gallicianò’, siano stati in tal senso, antesignani, in quanto hanno scommesso sulla antica lingua e cultura dei Padri (“in loco”),  riuscendo, così facendo,  anche  a valorizzare in maniera esemplare, emblematica,  quelli che sono considerati,  a ragione,  due fra i “Borghi più belli d’Italia”.

E  andiamo ad affrontare, ora,  il “nocciolo” del problema , ovvero, la “obbligatorietà dell’insegnamento”  nelle scuole dell’obbligo. L’auspicio  è che il Legislatore Regionale  possa modificare il dettato legislativo, trasformando  l‘insegnamento della “lingua di minoranza”, da “servizio a richiesta”, in obbligo scolastico, in modo che concorra, a pieno titolo, alla “formazione” dei ragazzi. L’Area  Grecanica, quantunque,  in un tempo passato (ma non trapassato), territorio “monolingue”(greco), non è allo stato attuale – realisticamente – un territorio bilingue, come quello altoatesino, valdostano o friulano-slovenofono (le cosiddette “minoranze frontaliere”), in quanto, se si fa eccezione per una ridotta minoranza di “locutori” (per fortuna, in evidente “ crescita” – quantunque “scolastica”-  in alcuni  paesi), appare lapalissiano che la speranza della sopravvivenza della lingua greca di Calabria sia riposta soprattutto nella scuola. E’ auspicabile che le istituzioni scolastiche della Provincia di Reggio Calabria, ricadenti  nell’Area Grecanica, facciano però il loro dovere  e consentano  l’applicazione – attraverso i Progetti – delle norme di legge (finora sostanzialmente disattese),  e attivino – in attesa dell’auspicata obbligatorietà – corsi di insegnamento, anche extra-curriculari, che, a partire dalle scuole materne accompagnino i ragazzi fino  ad almeno le scuole medie. Se applicate, le leggi 482/99 e 15/03 (oltre al D.P.R. 345/01), contengono già norme specifiche per l’insegnamento delle lingue minoritarie nelle scuole delle  comunità linguistiche “riconosciute”.  Si tratterebbe,  in definitiva,  di riconoscere il diritto degli appartenenti  a  tali minoranze ad ‘’apprendere’’ la propria lingua-madre (o, forse, a…“riappropriarsi” di essa).  Bisogna confidare,  altresì,  in una maggiore sensibilità e senso di appartenenza anche da parte degli stessi dirigenti scolastici. E che le stesse Università facciano la loro parte attivando – “ope legis”-  corsi di lingua in via sperimentale.

In conclusione, non si può non rimanere  in attesa di una effettiva applicazione delle leggi di tutela  già esistenti, e, ancor meglio,  del più che auspicabile  insegnamento nelle scuole primarie e secondarie di 1° grado – altrimenti,  nonostante gli sforzi compiuti  in questi ultimi anni, dalla Provincia di Reggio Calabria  e dalle numerose Associazioni Culturali Ellenofone presenti nel territorio- le lingue minoritarie, non “frontaliere”, sebbene, fondamentali segmenti  di antichissime  culture, corrono concretamente il  malaugurato rischio di scomparire completamente  nel giro di qualche decennio…

In definitiva, però, il “patrimonio genetico” di una cultura plurimillenaria, che conserva tratti di preziosa rarità, e, addirittura, di assoluta unicità, non si può  pensare di riuscire a salvaguardarlo e a rivalutarlo solo con  l’applicazione di leggi di tutela, ma, deve essere “in primis”, un vivo interesse del cuore, una appartenenza consapevolmente vissuta…La tutela  della memoria storica, per quanto poco “cartacea”, può giocare un ruolo primario, se vissuta, non in termini “nostalgici” (…”Io dico memoria, passato, nel senso di riappropriazione e non di pura nostalgia”…).

Anche per questo, e per amor del vero, va riscritta la storia dei Greci di Calabria, in quanto quella (poca) già scritta, si presenta come una “storia negata”…Sarebbe necessario promuovere una “nuova stagione” di contributi storiografici, condotti deontologicamente e nella direzione della formazione di una corretta coscienza storica.

La lacunosa conoscenza del proprio percorso storico da parte dei “GrèKi  tis Kalavrìa”, unita alla sensibilità ancora scarsa da parte di Enti e Istituzioni (come già accennato), costituiscono tuttora  ulteriori ostacoli per la valorizzazione dell’importante patrimonio storico-linguistico-culturale-religioso del territorio greco-calabro. Per fortuna, le Associazioni Ellenofone – ribadiamo- hanno avuto un ruolo fondamentale, quasi da “supplenza istituzionale”  nell’ambito, soprattutto,  della difesa del patrimonio immateriale, caratterizzato da  una tale peculiarità, da indurre la Regione Calabria (con il sostegno delle Provincia di Reggio Calabria  e delle altre Province  calabresi) a far approntare un dossier per una ambiziosa candidatura all’Unesco – delle Minoranze Linguistiche Calabresi -come Patrimonio dell’Umanità.

Mi sia consentito, infine,  di  stigmatizzare quegli “sporadici rigurgiti di campanile”, di qualche singolo “ellenofono” (o, pseudo-tale), che non giovano alle comunità “greche di Calabria” (in quanto tendono più a dividere che a unire) le quali invece hanno bisogno di coesione per alimentare assieme e cementare il comune, granitico “spirito greco”, vivendo fino in fondo l’emozionante privilegio di essere (senza, per questo, voler stabilire “gerarchie culturali” che non esistono…), i legittimi eredi  di quella cultura che è stata l’elemento fondante della civiltà occidentale e di quella antichissima “glossa”, per secoli, “lingua del cuore” di gran parte delle popolazioni del Meridione, e che le inossidabili comunità grecofone della  Bovesìa   hanno ancora l’onore di condividere e di esserne  suoi orgogliosi e gelosi custodi…

 

BY: Franco Tuscano (Esperto in lingua, storia e Cultura Greco Calabra)