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Sulle orme degli Armeni nella Brancaleone Antica

Popoli solo apparentemente lontani che in un passato più o meno recente, comunque ricco e degno di una terra crocevia del Mediterraneo, hanno vissuto e lasciato tracce ancora oggi da riscoprire, studiare e interpretare nella nostra Calabria e oltre. E’ il caso degli Armeni, vittime della persecuzione ottomana durante la Prima guerra mondiale e del primo genocidio del Novecento.

Durante la nuova ondata anti cristiana di siriani e turchi islamizzati, verso la fine dell’ottavo secolo d.C., gli Armeni approdarono anche sulla coste calabresi, in particolare sul litorale reggino, per rifugiarsi sulle alture. Pare che un gruppo si fosse raccolto in solitaria preghiera tra le montagne – secondo le regole del monachesimo orientale diffusosi anche in Armenia grazie all’opera di San Basilio – per sfuggire alle incursioni degli arabi provenienti dal mare. Qui coltivarono usi e tradizioni religiose e intrapresero attività agricole come la vinificazione, con la creazione di veri e propri Silos per custodire le derrate alimentari.

Di questi ultimi tracce esistono ancora tra i ruderi di Brancaleone, a Reggio Calabria. Segni significativi di questo passaggio armeno sopravvivono oggi nella toponomastica (la Discesa Armena a Bova o la Rocca Armena a Bruzzano Zeffirio), nell’onomastica e nell’archeologia, con alcuni reperti che richiamano i motivi religiosi della Croce e dei Pavoni rinvenuti negli attuali comuni di Ferruzzano, Casignana e Staiti, sempre nel reggino. Tra questi luoghi in Calabria, uno ha rievocato, proprio nel 2015 in cui ricorreva il centenario del primo genocidio del XX secolo che ebbe come vittime gli armeni, il primo popolo Cristiano della storia, la presenza di questa antica Comunità.

Questo luogo è stato Brancaleone (anticamente denominato Sperlinga dal termine latino e greco significante caverna), di fondazione greca, culla dei Locresi prima del loro avanzamento, promontorio strategico unitamente a Reggio, Gerace e Bruzzano Zeffirio, dove oggi il rudere di un antico castello, denominato proprio Rocca Armenia, custodisce in una grotta segni di celebrazioni religiose tipiche della cultura del più antico popolo Cristiano. Brancaleone superiore con lo sviluppo della Marina, nella seconda metà del Novecento, fu abbandonato. Oggi conserva il fascino di un luogo antico che custodisce anche i ruderi di una chiesa rupestre, probabilmente unica nel suo genere a queste latitudini e di cui ne esisterebbe una simile solo in Georgia.

All’interno di essa, nell’ambito dell’attività di valorizzazione e promozione del territorio della Pro Loco di Brancaleone guidata da Carmine Verduci, al seguito degli appassionati come il medico scrittore Vincenzo De Angelis e Sebastiano Stranges, già ispettore onorario del Ministero dei Beni Culturali, si è svolta nel 2015 una cerimonia con canti armeni e fiori di ginestra posti dove un tempo sorgeva l’altare e dove ora è possibile intravedere, su un muro di antica arenaria, una Croce armena e un Pavone adorante. Al centro della grotta l’emblematico Albero della Vita. Una delle tracce più significative che attestano l’antica presenza del popolo armeno in questi luoghi. Oggi tale chiesa rupestre appare posta sotto il castello Ruffo eretto ne 1300, di cui divenne la prigione. Accanto ad essa dei cunicoli scavati nella roccia (silos).

Poco più su, ciò che rimane della Chiesa proto papale che sorgeva nell’antica Brancaleone e che, secondo le ricostruzioni, era di stile romanico con campanile e orologio, tre navate e affreschi ai lati. Essa crollò nel 1944, ma già nel 1935 era stata edificata quella dell’Annunziata poco più giù, abbandonata unitamente all’intero borgo in modo definito nel 1956.

In quello che oggi è ormai il parco archeologico urbano di Brancaleone Vetus, accanto alle tracce armene, vi è anche ciò che resta della devozione alla Madonna del Riposo. E’ un legame antico quello tra la Calabria e il popolo Armeno. Tra i tanti punti di contaminazione anche la storia di Paolo Piromalli, arcivescovo cattolico e missionario, originario di Siderno, e autore nel Seicento del dizionario Armeno.

Una storia da riscoprire che contribuisce a riscattare l’identità di un popolo di cui – pensando alla ostinata e intransigente posizione negazionista della Turchia sul genocidio – si perseguita anche la memoria.

 

Si ringrazia Anna Foti per questa straordinaria testimonianza

 

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Pollìschio; la città scomparsa.

Luoghi, misteri, leggende, avvenimenti storici e luoghi che la terra ha inghiottito nel silenzio. Civiltà che diedero vita ai nostri paesi Aspromontani e pedemontani.  Ci troviamo a sud della Calabria, e precisamente nel territorio di Staiti (borgo medievale a 13 Km dalla costa jonica, posto a 550mt s.l.m.). La località in questione, si trova a pochi passi dall’abazia di Santa Maria di Tridetti accanto al torrente Fiumarella (oggi un rigagnolo ma un tempo di portata consistente). Questo edificio di origine Bizantina, ma con chiare influenze normanne e motivi decorativi arabi, risale probabilmente al VII-VIII secolo, o addirittura al XI secolo, (come ritiene il grande archeologo Paolo Orsi, sovrintendente alle antichità e alle belle arti della Calabria, che scoprì l’Abbazia di Tridetti nel 1912).

La leggenda vuole che l’abazia sia stata costruita sui resti di un antico tempio dedicato al Dio Nettuno, edificato dai Locresi Zefhiri nel V-VI secolo A.C.; tesi resa attendibile (come rilevato alcuni ritrovamenti di monete coniate in onore della divinità, con impresse l’immagine del Dio Nettuno), oltre che da testi antichissimi ad opera di cronisti d’epoca, che ci narrano di un’imponente statua raffigurante il Dio Nettuno, impreziosita da un mantello pregiatissimo con ricami in oro e pietre preziose che la ricoprivano. Secondo alcuni, pare che Annibale, passando da questo luogo (attraccato con la sua nave al porto di Capo Bruzzano (dove sbarcarono i primi coloni greci) attratto dal pregiatissimo mantello se ne impossessò, sotto lo sguardo attonito della sua milizia che chiese ad Annibale il perchè del gesto. Annibale rassicurò le truppe asserendo che la divinità avesse caldo, e che lo avrebbe riportato alla divinità con l’arrivo della stagione fresca.

Intorno al VIII-IX Sec. gruppi di monaci Basiliani sfuggiti dall’ oriente, a causa della persecuzione musulmana prima, e iconoclasta dopo, approdarono sulle coste Calabresi spinti dalla necessità di trovare luoghi nascosti per sfuggire alle persecuzioni. Si spinsero in luoghi nascosti dell’entroterra, trovando rifugio in anfratti naturali e zone inaccessibili dove professare liberamente il loro credo. Nacquero così piccole comunità religiose che creebbero dando poi vita a cenobi, laure, monasteri, grangie e abbazie come nella vallata dove oggi sorge l’Abazia di Santa Maria di Tridetti, il luogo viene ancora oggi chiamato “Badìa”.

Si narra ancora oggi che proprio nelle vicinanze, sia esistito un’antica città dal nome Pollìschìo e su che fine abbia fatto, resta ancora oggi un mistero. Sorse in una località conosciuta ancora oggi con il toponimo di Fracasso. Su questa teoria la questione sembra essere ammantata di mistero. Ipotesi che meritano senz’ altro una più attenta ed approfondita analisi che speriamo in futuro attraverso ricerche possa tradursi in rivelazione.

Il Dott. Francesco Giuseppe Romeo che pubblicò nel 1985 il libro “Santa Maria di Tridetti a Staiti, storia di una abbazia Basiliana” descrive questo luogo avvalendosi oltre che degli studi effettuati su registri e documentazione d’archivio, anche raccogliendo testimonianze tra gli abitanti di Staiti. Sulla sua pubblicazione scrive: …in località denominata “Turco” i proprietari di una casa durante i lavori di restauro, rinvennero dei resti umani di scheletri, probabilmente resti di una necropoli appartenuti al vicino nucleo abitato Pollìschìo, in un’altra nota aggiunge, che un Signore di nome Giovanni Patti di Staiti mentre coltivava il suo appezzamento di terra, in località detta “Fracasso”, rinvenne una croce metallica di ottima fattura artigianale.
Visto che il testimone in questione morì in età avanzata (nel 1935), si suppone che l’episodio del ritrovamento avvenne sicuramente negli anni antecedenti la sua morte. Il toponimo “Fracasso”, potrebbe forse derivare da un catastrofico episodio o terremoto di difficile datazione, che secondo i racconti degli anziani potrebbe essere aver cancellato l’antica città di Pollischìo. Sul toponimo fracasso una teoria che potrebbe essere ricondotta al toponimo potrebbe essere riferita a qualche incursione saracena. Solitamente queste incursioni avvenivano seguiti da un gran baccano ad opera dei Turchi che annunciavano l’invasione ed i saccheggi nei villaggi, tale considerazione ci viene dalle crono-storie riportate a noi oggi grazie a studi e ricerche, per cui ipotesi da non sottovalutare.

Detto territorio un tempo aveva un’economia molto fiorente, basata sull’agricoltura e la pastorizia, gli abitanti erano sparsi sulla vallata (chiamata ancora oggi “Badìa”) e molti nomi e toponimi ancora oggi in uso nel linguaggio locale, riconducono senza ombra di dubbio a quelli che furono sicuramente insediamenti monastici e religiosi con annesse presenze laiche (per la maggior parte umili pastori e contadini) come ad esempio le località; Magazzini, Stuppia,San Cesareo, San Gregorio, San Nicola e San Biagio, quest’ultime non solo ci danno una chiara interpretazione di come i Santi Armeni siano stati i più venerati del comprensorio, ma ci indicano numerose presenze umane sparse o verosimilmente più organizzati come villaggi e contrade.

L’avvento di Internet, per quanto discutibile possa essere, oggi dà l’opportunità di confrontare le notizie storiche con le varie analogie espresse dai frequentatori appassionati, ma anche dai conoscitori degli avvenimenti storici, spesso queste persone generano interessanti confronti e scambi di opinioni, che innescano interesse e curiosità. Ed è proprio su Facebook che qualche anno fa ebbi uno scambio di opinioni con il Sig. Giuseppe Micheletti su un gruppo dedicato proprio a Staiti. Mi colpì un “post” che faceva riferimento Pollìschio, argomento su cui stavo lavorando da mesi. Contattai privatamente Micheletti che vive all’estero da molti anni al quale spiegai che stavo cercando informazioni atte a ricostruire la vicenda di Pollìschio dal punto di vista leggendario, mi resi subito conto di aver avuto la possibilità di raccogliere la testimonianza importante. Micheletti con molta cortesia mi scrisse testualmente: <<quel che so di Fracasso è che certamente non si chiamava cosi`, ma dal fatto che sia successo qualcosa di grave, più grande di quello che noi pensiamo… Allora forse si chiamava Pollìschio. Io credo che esistesse un piccolo paese, che viveva esclusivamente d`agricoltura ,con lavorazione dei metalli, del legno e custureri (sarti) …Intorno a questo paese vi era gente che abitava in pagliai e qualche abitazione sparsa… Non dobbiamo dimenticare che era una zona molto boscosa e la fiumara di Bruzzano era un tempo navigabile. Forse Annibale è arrivato a Tridetti entrando da lì. I romani che avevano bisogno di legno hanno praticato il disboscamento di questi luoghi. Ritornando a Fracasso, mi ricordo che negli anni 50, il fosso zona limitrofa era molto attivo e coltivato dappertutto. Con case-fienili ricovero per gli animali d’allevamento ,vacche , capre, e pecore , maiali ecc… Si produceva tutto per il fabbisogno della famiglia dalla lana al grano, dalle fave all’ avena. Questo paese forse è scomparso a causa di un’alluvione, una frana ma potrebbe essere stato cancellato a causa di violentissimo terremoto>> .

A questa testimonianza vanno sicuramente aggiunti i racconti dei natii di queste zone, che di certo non avvalorano nessuna tesi a riguardo ma, alimentano altresì molta curiosità, alla quale servirebbe creare un interesse di studio maggiore. In questo lembo di terra di Calabria, sono molti gli idiomi ancora oggi in uso per identificare un luogo, una zona, un punto preciso del territorio. Pollìschio potrebbe essere stato di origine antecedente alla costruzione dell’Abbazia di Tridetti e quindi di origine (Greca)? O si tratta solo una leggenda priva di fondamento? Il toponimo “fracasso”, potrebbe riferirsi ad un catastrofico evento meteorologico o geofisico (appunto un fracasso)? Oppure si tratterebbe solo di inquietanti coincidenze? Ad oggi è difficile dirlo con certezza!

Stando alle ricerche condotte dal ricercatore Carmine Laganà, dato che il nucleo di Staiti prese il nome dalla Famiglia Stayte (di origine Messinese intorno al 1590), e che come dimostrano i registri esaminati, il Feudo risulta riscattato da Federico Stayte a causa dei debiti lasciati dalla Madre, è ipotizzabile che Pollìschìo, fu trasferito nell’attuale Staiti in questa occasione.

E’ dunque tra i boschi di queste aspre colline che sono caratterizzate da una fitta e rigogliosa vegetazione tipica di macchia mediterranea che si nascondono tanti segreti, che varrebbero la pena essere approfonditi per comprenderne la storia e le origini di questi luoghi che oggi potrebbero rappresentare un enorme patrimonio archeologico immenso.

Solo attraverso lo studio dei toponimi, che si potrà approfondire l’origine ed il declino stesso di queste antiche civiltà, scomparse nel silenzio delle montagne, divenute ormai, scrigni di segreti e misteri. Luoghi inaccessibili, dove ancora risuonano echi di storie, e civiltà che attraverso le leggende vivono tra i dialetti dei paesi pedemontani dell’area Grecanica Calabrese

Sicuramente la storia di “Pollìschio”, potrebbe rivelarci molto di più della leggenda narrata, potrebbe rivelarci tasselli di storia ancora celata sotto foreste vergini e antiche civiltà sconosciute.

By Carmine Verduci

antonello gagini

Il Marmo che vive attraverso l’opera di Antonello Gagini

Il Rinascimento in Italia ebbe una notevole rivoluzione nelle arti, in un periodo storico che fu sicuramente contraddistinto dall’ innovazione scientifica unito ad una fiorente concezione dell’arte espressa in ogni modo, dalla pittura alla scultura, passando per l’architettura e la filosofia. In Calabria non è difficile trovarsi di fronte ad un’opera di bottega Gaginiana, ciò equivale a fare un salto nella storia dell’arte Italiana e nella storia del meridione d’Italia intesa come “espressione artistica” che mostra la sua massima diffusione già sul finire del 1400 e fino gli inizi del 1600.

Antonello Gagini (o Gaggini) 1478 figlio d’arte, allievo del Padre Domenico Gagini, scultore Ticinese che operò in Italia e specialmente in Sicilia, dove insegnò al figlio l’arte della scultura fu un grande scultore e architetto, alla sua morte nel 1536 la sua opera proseguì grazie ai figli Giandomenico e Antonino avuti dalle seconde nozze, che continuarono il mestiere del padre, (dunque la Bottega Gagini) ha poi continuato a produrre gran parte delle opere citate, per cui vanno le precisazioni dovute. Alla morte di quest’ultimi Giandomenico e Antonio i figli proseguirono i fino alla terza generazione che lavorò per tutte le committenze in Sicilia, Calabria e in tutto il centro Italia, realizzando numerose opere sacre e monumenti funebri fino alla morte dell’ultimo erede di famiglia Giacomo Gaggini morto intorno al 1627.

Molte sono infatti le opere incompiute del padre che dopo la sua morte, vennero poi completate da Antonello.

La scultura di Antonello, il tocco del suo scalpello, la ricerca nei particolari e nei volumi nelle figure rappresentate, sono una firma inconfutabile. Difficile non rimanere estasiati di fronte un’opera Gaginiana (o di Bottega). I drappi delle sue figure, le espressioni dei volti che caratterizzano ogni scultura, caratterizzano in maniera incisiva la maestranza nel saper rendere quasi viventi ed eteree le figure da lui rappresentate. Sculture che sembrano farci percepire lo stato d’animo dell’opera, per la maggior parte figure sacre, di Madonne sotto vario titolo. La voluminosità delle stoffe che ricoprono il corpo dei personaggi sono l’espressione più evidente delle tecniche che oggi portano la firma del rinascimento del meridione d’Italia. Sembra che l’artista con il suo tocco volesse far vivere il marmo bianco di Carrara con cui ama plasmare i corpi delle figure. Opere, che gli vennero commissionate in tutta Italia da parte di alti prelati o più comunemente da nobili famiglie dell’epoca. Sculture che oggi si trovano in numerosi santuari e chiese del Sud Italia … soprattutto nell’ area della bassa Calabria. Antonello Gagini ci lascia oggi un patrimonio di inestimabile valore storico e di immane bellezza, spesso al centro di numerose diatribe sull’ attribuzione. Fra questi non possiamo non menzionare il gruppo marmoreo dell’ Annunciazione, venerata nella Chiesa di S. Teodoro a Bagaladi (RC) dove le figure sembrano dialogare fra di loro, con una naturalezza tale che sembrano rievocare il momento, con un gioco di sguardi ed espressioni che riescono a disarmare lo spettatore.

Annunciazione a Bagaladi (RC) – Photo Nicola Santucci

Come non stupirsi delle fattezze della statua della Madonna col Bambino a Roccaforte del Greco (RC). Non possiamo però dimenticare anche il mezzobusto di Maria Santissima della Lica o dell’Alìca (attualmente custodito nella chiesa parrocchiale dello Spirito Santo a Pietrapennata, frazione di Palizzi (RC) anticamente venerata in un monastero dedicato alla stessa, che oggi ridotto in rudere, è diventato meta di studiosi ed escursionisti.

Madonna dell’ Alica Pietrapennata di Palizzi (RC)

Ma l’esempio degli esempi, che rende l’opera di Antonello Gagini suprema ed eccelsa è sicuramente la Madonna della grotta di Bombile (Rc), una statua di straordinaria bellezza dalle fattezze sovrumane e forse una delle opere più belle dell’artista, che più rappresenta la bottega Gaginiana in Calabria. Su quest’opera aleggiano misteriose leggende. Si racconta infatti che la statua sia stata scolpita da mani angeliche, un miracolo divino che trasformò il modello in gesso non ancora terminato dallo scultore, nella statua di marmo d’alabastro che conosciamo oggi. Un prodigio, che pare si verificò poco prima di tutti gli altri miracoli, che portò alla sua collocazione in quello che fu il luogo dove venne venerata da fedeli nel mese di Maggio in un Santuario scavato nella roccia tufacea che il 28 maggio 2004 una frana sepolto definitivamente sotto tonnellate di roccia, cancellando cosi secoli e secoli di storia. Il questa triste occasione fortunatamente la statua è rimasta illesa nel crollo. Oggi la statua si trova nella chiesa parrocchiale dello Spirito Santo del paese di Bombile (RC) che accoglie ogni anno centinaia di fedeli provenienti da Sicilia e Calabria.

Madonna della Grotta Bombile di Ardore (RC)

Vi è da dire, che un po in tutta l’area Grecanica vi sono opere dello scultore Palermitano, esistono infatti anche molte opere non ancora riconosciute o presumibilmente attribuite ad altri scultori, come ad esempio la Vergine col Bambino a Bova (RC) nella concattedrale dell’ Isodìa dove sull’altare maggiore troneggia questa bellissima scultura a mezzobusto della Madonna, fino a qualche tempo fa, si pesava fosse opera di Antonello Gagini, ma stando agli studi sull’opera si è rilevato che la statua fu commissionata allo scultore siciliano Rinaldo Bonanno. Caso analogo è stato anche a Staiti (RC) piccolo borgo medievale alle propaggini sud orientali dell’Aspromonte dove all’ interno della chiesa dedicata a Santa Maria della Vittoria vi è collocata su una nicchia laterale una Statua della Vergine col Bambino che è stata attribuita per anni alla bottega Gaginiana, ma in realtà la statua datata 1622 risulterà opera dello scultore Martino Regi come appunto rileva il basamento nel retro che porta la sua firma incisa.

Madonna col Bambino a Staiti (RC)- Photo Carmine Verduci

Altre opere di grande pregio e bellezza non possono passare inosservate, fra tante troviamo a Soverato superiore (CZ), nella chiesa dell’addolorata, come non rimanere incantati di fronte alla Pietà del Gagini che esprime la tenerezza e la compassione della Vergine Maria con il Cristo in braccio. E infine il Trittico del Duomo di S. Leoluca a Vibo Valentia eseguito negli anni 1524-34, opera commissionata dal Duca di Monteleone e vicerè di Sicilia Ettore Pignatelli per la chiesa di S. Maria de Jesu, e poi ancora; la Madonna col Bambino della chiesa di S. Bernardino d’Amantea (CS), commissionata dal nobile Nicola d’Arco; e la Madonna degli Angeli della collegiata della Maddalena di Morano Calabro (CS).

La Pietà a Soverato (CZ) – Photo Luigina Larizza

Molte altre opere disseminate sul territorio Calabrese non sono state ancora attribuite o nella maggior parte dei casi, si pensa abbiano a che fare con la bottega Gaginiana come il caso della statua della Madonna della Catena a Bruzzano Zeffirio (RC) custodita proprio nel piccolo santuario sorto sul luogo del miracoloso ritrovamento, recentemente restaurata, ma che denota molti dubbi sull’attribuzione al Gagini in tal senso.Come ad esempio la statua della Madonna della Neve custodita e venerata nella Chiesa Matrice a Bovalino Superiore (RC), per citarne alcune…

Madonna delle Catene Bruzzano Zeffirio (RC) – Photo: Sonia Musitano

La scultura Gaginiana in Calabria è una ricca costellazione di opere di grande pregio, che oggi arricchiscono importanti chiese e Santuari. Tutte queste opere rappresentano per noi, popolo calabrese una ricchezza di inestimabile valore, da custodire, ammirare e divulgare, specialmente nelle scuole. E’ dunque impensabile non annoverare tali esempi del Rinascimento Italiano che si avvale di maestranze artistiche che appresero dai grandi maestri Fiorentini dell’epoca tecniche e segreti, portando la scultura sacra a livelli equiparabili ai virtuosismi dei grandi maestri rinascimentali che noi tutti oggi conosciamo.

 

(By Carmine Verduci)

La Sibilla Aspromontana. Leggenda o verità?

Le manifestazioni nel cielo, ​ così come quelle sulla terra, ci danno segni. Cielo e terra mandano segni univoci, ognuno per proprio conto, ma non indipendentemente, perché cielo e terra sono interconnessi. Un segno cattivo in cielo, è anche cattivo in terra; un segno cattivo in terra, è anche cattivo in cielo.” ( Da una tavoletta di Scuola teologica di Babilonia ) Uno schianto improvviso distolse la sua attenzione, mentre era intenta a pestare dentro il piccolo mortaio di pietra le erbe raccolte in mattinata nella piccola piana sottostante. Sibilla abbandonò il lavoro. Si avvicinò sul bordo della grotta che dava sullo strapiombo e sbirciò fuori. Un grosso torello si era inerpicato chissà come lungo l’erta salita. Questa portava a quella che un tempo fu una torre del suo castello. Adesso era soltanto un’aspra ed alta pietra che proteggeva l’ingresso di quel che rimaneva del suo maniero. Il bovino apparteneva di sicuro alle mandrie dei Potamiòti che avevano eletto a loro territorio i pascoli impervi della Montagna Bianca. Poco probabile invece, che appartenesse ai Panduriòti, loro non si spingevano quasi mai oltre la Grande Pietra. Rispettavano il confine invisibile che dai vecchi Tempi delimitava il territorio che a lei apparteneva.

Gli animali ormai erano diventati i soli esseri viventi che le tenevano compagnia tra quelle forre abbandonate molti secoli addietro dagli Uomini. Lei viveva lì da diversi millenni oramai, aveva assistito allo scorrere inesorabile del Tempo e degli eventi che si erano consumati tra quelle montagne. Ricordava ancora il suono delle voci degli Umani distribuiti su quel territorio selvatico quando era ancora la loro casa. Era vecchia Sibilla. La più piccola delle Sette Figlie di Lámia, una delle ultime rimaste ancora in vita. Delle altre non ne aveva saputo più niente, tranne di Scilla. Scilla viveva nascosta su un’altra montagna sul mare, di fronte all’isola dei Sicáni. Nascosta dentro una grotta da Lámia per sottrarla all’ira di Era. Era aveva già ucciso le altre sorelle. Scilla Urlava, lo malediceva quel mare ogni volta che vi s’immergeva e sfogava la sua rabbia contro gli incolpevoli e ignari marinai che vi si avventuravano. Erano rimasti in pochi i figli dei vecchi Numi che avevano abbandonato quella Dimensione, lasciando i semidei rimasti in balìa dei nuovi Dei che avevano preso il loro posto. Il loro Potere era cresciuto grazie agli Umani che avevano dimenticato così presto i loro Creatori. Avevano distrutto i vecchi Templi e dimenticato gli antichi riti, le consuetudini nate con loro. Nei secoli passati gli stessi umani le avevano fatto non poche visite. Desideravano ottenere responsi su quanto sarebbe avvenuto nelle loro brevi ed insignificanti vite. Attendevano che le nebbie del tempo squarciassero il velo mostrassero attraverso lei il Passato e il Futuro. Poche volte avevano capito. Poche volte le frasi che diceva erano state di facile comprensione, ma quelle poche volte gli eventi da lei vaticinati si erano rivelati terribilmente precisi. Arrivavano carichi di doni e di speranza, molto spesso accompagnati dal terrore che lei suscitava nei loro fragili e piccoli cuori, certi che avrebbero avuto dall’Oracolo la loro chiave del Mistero. Da quasi un millennio però, non riceveva più quelle visite. Un nuovo e potente Dio aveva occupato il cuore e le menti di quella gente. Li aveva spinti lontano da quei boschi, dai quei luoghi nascosti dove resistevano pochi e fievoli bagliori dei Tempi Antichi. Erano fuggiti via da quelle aspre montagne dove una volta volteggiavano le grandi aquile e i terribili grifoni, dove erano rimaste solo poche rovine, ultimi segni delle loro presenze. Di uno di loro, l’ultimo che era venuto, conservava il ricordo chiaro e netto, anche a distanza dei molti secoli trascorsi. Era arrivato sopra un grande cavallo nero, coperto da una veste di metallo che doveva servire a proteggerlo dagli attacchi dei nemici. Sudava copiosamente sotto i raggi roventi di Elios, in quella primavera inoltrata che aveva assunto da alcuni giorni le temperature torride dell’estate.

Lei invece aveva appena fatto in tempo a mutare aspetto. Si era trasformata in una capra dalle ampie corna, forma che utilizzava sempre, soprattutto per l’agilità e la velocità che le conferiva quello stato. Si mise a seguire il cavaliere fino alla Fonte nascosta. L’uomo sembrava conoscere bene il luogo, così sembrava dal passo spedito e sicuro con il quale si avvicinava al piccolo laghetto che raccoglieva le acque cristalline. Era ancora presto per trovarci le piccole Naráde e i Tritoni intenti a giocare lungo il ruscelletto che scompariva con piccoli salti nel vallone sottostante della fontana. Sibilla in veste caprina si inerpicò tra i fitti cespugli di erica, cercando di non dar nell’occhio allo straniero e in attesa di capire chi fosse. Dopo averlo osservato bere avidamente l’acqua che scendeva incanalata dentro una “ceramìda” lo vide dirigersi alla destra della fonte. Egli aveva individuato come se lo conoscesse da sempre il vecchio sentiero che da moltissimi anni nessuno aveva più percorso. Quello che portava a ciò che era rimasto del rudere in pietra della casa del Vecchio Pàpas che lo aveva abitato per qualche tempo diversi secoli addietro. « Ecco svelato l’arcano!» Pensò Sibilla nel vedere il giovane avvicinarsi alla pietra dove il vecchio aveva conficcato un pezzo di metallo. Era simile ad una spada con l’elsa in alto, lavorata con cerchi che terminavano in un semicerchio rovesciato che assomigliava ad una impugnatura. Lo vide unire le mani come aveva visto più volte fare al Vecchio Pàpas e lo sentì pronunciare le stesse parole che aveva sentito da lui. Parole strane, arcane, intrise di un mistero che lei non era mai riuscita a decifrare. Non aveva mai avuto potere sul Vecchio. In verità, davanti a lui perdeva il potere che le permetteva di trasformarsi. Le si rivelava per come era, una vecchia, molto avanti con gli anni che ogni tanto andava alla fonte per prendere dell’acqua. Lui le aveva detto di chiamarsi Silvestro, di essere un Pápas, un sacerdote del nuovo Dio. Le aveva raccontato che era fuggito dalla persecuzione di un Re potente che voleva ucciderlo. Ma anche il Pàpas aveva capito di trovarsi di fronte ad una Creatura con qualche Potere. Alle domande dell’uomo precise e puntuali, lei non riusciva a sottrarsi. Aveva mentito, per quanto poteva, cercando di celare quanto più possibile l’essenza della sua Natura Antica. Un giorno arrivarono al piccolo rifugio del vecchio molti soldati, lo presero e di lui e del suo destino non ne seppe più niente. Sicuramente il cavaliere era stato indirizzato da qualcuno. Qualcuno che sapeva del Vecchio. Magari il Vecchio aveva raccontato della Maga che abitava quelle montagne lontane ed inaccessibili. Forse quel cavaliere solitario era venuto per lei. Cambiò nuovamente forma, riacquistando il suo aspetto umano e si avvicinò alla fonte, dove il cavallo al vederla emise un nitrito tale da richiamare il cavaliere. Vedendola avvicinare, non si meravigliò più di tanto, confermando a Sibilla il sospetto che aveva avuto poco prima. «Allora era tutto vero!» Esordì il giovane, che da vicino dimostrava i pochi anni d’età, nascosti da una rada peluria che gli ricopriva il viso. Poi s’inginocchiò al suo cospetto. « Chiedo perdono mia Signora, se ho disturbato la quiete della tua dimora, ma ho fatto molto cammino per arrivare fino a qui e non sapevo se avrei trovato quello che sembrava un Mito, o una favola, di quelle che si raccontano ai bambini nelle fredde serate d’inverno per farli dormire. Sei tu l’Antica Signora di questo Regno che conosce quello che è stato e quello che deve ancora avvenire? Sei tu l’Oracolo che riesce a scrutare nel Tempo e nei suoi Misteri?» Era tanto che Sibilla non sentiva una voce umana risuonare in quei luoghi. Ci mise qualche secondo a decifrare le parole del cavaliere e il suo sguardo fisso, mentre le ginocchia premevano la terra. «Cosa cerchi giovane guerriero in queste montagne sperdute dove vivono soltanto animali selvatici e uccelli rapaci e questa vecchia pazza che incute timore e paura ai temerari che si arrischiano al suo cospetto? Cosa ti ha spinto fino a me? Parla dunque!» «La tua fama e il tuo segreto mi sono stati rivelati da una leggenda che si racconta ancora oggi tra i Cavalieri di Re Carlo» – rispose il cavaliere «essi mi hanno raccontato delle tue doti di Maga e di veggente, che tu e tu soltanto mi puoi essere d’aiuto. Mi chiamo Guerrino e sono alla ricerca dei miei genitori, che non ho mai conosciuto. Nessuno ha saputo dirmi chi fossero e dove avrei potuto trovarli. Confido nella tua benevolenza sicuro che tu possa disvelare la verità sulla mia nascita!» Poi, prese un fagotto di stoffa dal cavallo e lo aprì ai suoi piedi, svelando dei gioielli e delle pietre preziose. «Ah,» pensò Sibilla, «quanto sciocchi e incomprensibili sono gli Umani, che credono che qualche pietruzza luccicante e del metallo per loro prezioso, possano ripagare i servigi di una Dea!»

Ma decise di aiutarlo e non per tutto il cammino che il cavaliere aveva percorso pur di incontrarla, ma perché in fin dei conti nessuno mai se ne era andato via senza aver ottenuto da lei un responso. La sua giovane età le ispirava strane ed inspiegabili sensazioni materne. Gli recise una ciocca dei capelli intimandogli contemporaneamente di attenderlo presso la fontana per tutto il tempo che sarebbe occorso per ottenere il responso richiesto. Lontana dal suo sguardo si trasformò di nuovo in capra e con pochi e agili balzi si inerpicò fino alla sua caverna, lì si mise ad armeggiare con i funghi, erbe, foglie di alloro essiccate unite ai ciuffi di capelli. Il tutto serviva per penetrare nello stato mistico che le avrebbe provocato visioni divinatorie. Mise il composto dentro un piccolo braciere di pietra e dopo averlo acceso, ne inspirò profondamente i fumi che ne scaturirono e si preparò ad entrare lì dove Passato e Futuro si mescolavano in un groviglio di immagini e voci. Sembrava non esserci logica apparente in quello scorrere del Tempo e dello Spazio che gli disordinatamente gli si svelava. In quel continuum dove le sensazioni arrivavano come onde. Plausibili o folli e irreali. Stava a lei riuscire a mettere ordine e a rendere comprensibili le risposte che le venivano da quelle visioni. Stava a lei trasformarle in parole dal senso più o meno chiaro. Era quasi sera quando tornò dal giovane Guerrino. Dopo averlo scrutato gli rivelò quello che aveva visto nel suo passato e cosa sarebbe accaduto nel suo immediato futuro. « Ho visto il padre di tuo padre cavalcare come te in queste contrade, al seguito di un Re potente. Egli combatteva contro guerrieri dalla pelle scura sotto una bandiera raffigurante una croce come quella che il vecchio Pápas adorava sulla pietra davanti alla sua dimora. Tu sei figlio di uno dei quattro figli avuti da lui. Il suo nome è Milone. Il Re per il quale ha combattuto lo ha fatto Principe della città di Taranto. È lì che lo troverai, così avrà termine il tuo lungo viaggio e la tua ricerca.» All’alba del giorno seguente il giovane cavaliere ripartì, dimenticando o lasciando volutamente vicino alla Fontana, i gioielli recati in dono a Sibilla. Da quel giorno, riscoprendo una femminilità insospettata, la donna iniziò ad indossarli, in ricordo di quel giovane Cavaliere, di quell’ultimo umano con cui aveva scambiato delle parole. Li aveva osservati per gli anni e i secoli seguenti, i pochi Umani che arrivavano vicino alla sua grotta. Erano quasi sempre pastori alla ricerca di qualche animale perso tra quelle rocce. Aveva osservato i Pápas solitari, che portavano una veste di lana grezza con un cappuccio che lasciava scoperto il capo rasato sopra le folte barbe incolte. Abitavano come lei nelle caverne scavate nelle rocce vicino alla Grande Pietra, rifugio che con le sue insenature e i suoi crepacci servivano da riparo anche alle bestie selvatiche nei giorni in cui Zeus scagliava i suoi fulmini dall’Olimpo ed Eolo slegava l’otre dei venti ad inseguire e percorrere le nubi cariche di pioggia sotto un cielo buio avaro di stelle. Della vecchia casa vicino alla Fonte rimaneva solo qualche pietra.

La croce arrugginita caduta dalla pietra era stata trovata da un pastore che cercava un vitello disperso. Quella Croce adesso era venerata dentro un Tempio dedicato ad una nuova Dea che regnava su quelle montagne attirando carovane di gente nelle calde giornate di fine estate, con processioni di suoni e di canti, che si sentivano fino dalla sua grotta. Ormai diventata una spelonca dalla quale ogni tanto una vecchia capra dalle ampie corna scendeva con salti sicuri ad osservare incuriosita, nascosta dalla fitta vegetazione, quella nuova Umanità ignara del suo Passato e di un Futuro incerto nascosto nelle pieghe del Tempo.

 

By: Mimmo Catanzariti

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