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Il Racconto di Caterina “La Festa della Madonna Annunziata” a Motticella

Ai piedi del monte Scapparrone (1058mt s.l.m.) incastonato tra le rocce del vallone Bambalona sorge, quello che un tempo è stato uno dei più bei paesini del nostro entroterra pre-aspromontano, tanto antico quanto caratteristico. Ricordiamo che “Motticella” diede i natali a Vincenzo Mollica (noto giornalista Rai), il poeta Luciano Nocera, la poetessa Caterina Zappia, e Domenico Marino (Noto Artista e Fumettista conosciuto anche come Mico Marino).

Oggi Motticella frazione di Bruzzano Zeffirio, è un piccolo borgo che sorge tra il Torrente Bruzzano ed il Torrente La Verde abitato poco più che da una manciata di persone, dove il monte Scapparone o “Scapparruni” (come viene chiamato in dialetto locale) lo veglia fin dalla notte dei tempi con la sua inquietante maestosità che sembra proteggerlo ed abbracciarlo.

Durante una delle mie visite al borgo, ho conosciuto la Sig. Caterina, che vista la mia curiosità interessata proprio alle antiche tradizioni popolari, dopo le presentazioni del caso e qualche breve discorso, non esitò ad invitarmi a casa sua. Eeh si….; la gente qui ha l’ospitalità , insita nel sangue tipica della cultura Greca, che caratterizza la gente della nostra meravigliosa Calabria, che affonda le proprie origini nei tempi più remoti, dove l’accoglienza era un valore primario nella vita quotidiana, in ogni casa e in ogni nucleo familiare. Entrai nella Casa, e sedendomi davanti al fuoco dove la legna scoppiettante scandiva gli attimi di un pomeriggio cupo ed uggioso, tipico di quelle giornate invernali, di quando lo scirocco irrompe dal mar Jonio creando un manto esteso e grigio che non lascia intravedere il cielo azzurro di queste parti. La Signora Caterina, dopo avermi offerto ogni ben di Dio, con voce rotta e nostalgica si rivolge a me ed inizia a raccontarmi:
<<Oggi ti parlerò di quella che una volta era l’icona più venerata della Vallata, e di cui ormai oggi non ci rimane che raccontare a voi giovani, quella che fino agli anni ’60 era una festa molto sentita e partecipata. Parlo della statua della Vergine Annunziata che si trova nella piccola chiesetta al centro del paese intitolata oggi a San Salvatore. Sull’altare minore giace la scultura lignea, risalente probabilmente al 1800, dai colori brillanti e dal volto materno che invaghiscono l’occhio. Ella, è raffigurata inginocchiata davanti all’angelo annunciatore, e porta in capo una corona, che nel corso degli anni è stata cambiata svariate volte dai devoti per grazia ricevuta. Alle spalle della statua c’è un arco con motivi decorativi di fiori in ferro battuto, argento e bronzo, anch’esso dono di devoti per grazia ricevuta. Per i suoi festeggiamenti la statua veniva deposta dall’altare il 24 Marzo di ogni anno, e portata in processione verso la chiesetta del Cimitero, a circa 1Km dal paese per iniziare così la novena.
L’armonia che si creava proprio in quei giorni di festa era incredibile…, sembrava trovarsi dentro una favola, i fedeli provenivano da tutti i paesi vicini: Samo, Bianco, Staiti, Africo, Casignana e perfino da Reggio Calabria. Proprio poco tempo fa, mi è capitato di parlare con un’anziana signora di Africo, che mi ha ricordato di quando proprio nei giorni di festa, partivano con l’asinello seguendo le mulattiere per venire a Motticella a gustare i maccheroni con la carne di capra, che proprio in quei giorni di festa erano presenti su ogni tavola, non sempre c’era la possibilità di mangiare carne, ma in onore della madonna in quell’occasione si ammazzava la migliore “dastra” (la capra).

La statua durante la processione veniva accompagnata dal suono di organetti e tamburelli, che per due giorni non cessavano mai di suonare.

Era ormai primavera… e la festa delle rondini in cielo, le gemme delle ginestre, davano quel tono di colore alle rocce spoglie dette da noi “Staghi”. Le ragazze indossavano la camicetta nuova per l’occasione, i profumi e i suoni dei campanacci delle greggi che pascolavano lungo la vallata, intonavano un armonia melodiosa, con le donne che cantavano lodi a Maria:

Annunziata Vergine Bella
Di Motticella sei la stella
Fra le tempeste deh guida il cuore
Di chi t’invoca, madre d’amore
Siam peccatori ma figli tuoi
Madre Annunziata prega per noi
La tua preghiera onnipotente
O dolce mamma tutta clemente
A Gesù buono deh! Tu ci guida
Accogli il cuore che ti confida!

Il 25 Marzo si diceva “Festa in cielo e festa in terra e mancu l’urceglia fannu a folia”,

intanto gli uomini proprietari terrieri del paese, al “Magazzeni” si riunivano per decidere il prezzo del grano da tenere durante l’anno, che ormai andava verso la mietitura. La sera intanto calava imminente sul paese, e la madonna doveva essere riportata nella chiesa principale, ricordo che prima del crepuscolo la statua doveva essere già sulla stradina adiacente alla chiesa, altrimenti doveva essere portata a Bruzzano! Quante volte hanno cercato di portarla via…(sospira Caterina), ma è andata sempre a finir male (ride). Durante la Processione gli uomini provenienti da ogni dove, facevano a gara per portare in spalla la “Vara”, ecco che ad ogni via si perpetrava “l’Incantu” (Incanto), che avveniva come un passaggio di consegne a staffetta, ogni gruppo di “portatori” dava in offerta alla Madonna dei beni, quali potevano essere: grano, olio, vino, insomma tutto ciò che si produceva nei campi a quel tempo, in una sorta di gara a chi offriva di più in onore e devozione alla Vergine Annunziata, che veniva così presa in spalla, e condotta per un’altra via del paese dove avveniva la stessa cosa con altri gruppi di fedeli.
Sul finire della processione, quando ormai stava arrivando la sera, gli organetti ed i tamburelli ormai allo stremo, continuavano ad aprire la strada semi buia alla Statua, che veniva accolta nella chiesa del paese e riposta così nel suo altare, dove le donne chiedevano le grazie per i loro cari, salutando e lodando la madonna con questo canto:

Bonasira vi dicu a vui Madonna
Alla ‘mbiata Vergini Maria
Mi ‘ndi ccumpagna la notti e lu jornu
Lu jornu comu jamu pe la via

E la matina bongiornu bongiornu
Siti regina di tuttu lu mundu
Supra l’artaru nc’è na gran signora
Maria di la Nnunziata ca si chjama
Iglia a cu cerca grazi si li duna
E cu ‘ndavi cori afflitti si li sana.
Nu indi ‘ndi jamu e stati felici
Ca ccumpagnati cu l’angili stati
E la madonna si vota e ndi dici:
Vajti bonasira e Santa paci…

La Festa della Madonna Annunziata , Continua la Sig. Caterina, era un simbolo di fede e devozione, infatti moltissime sono le persone che ancora oggi portano il nome di Annunziata-Annunziato, e non solo a Motticella, ma anche nei paesi vicini. Intorno agli anni ’30 il Parroco del paese “Todarello”, scriveva così in alcuni suoi versi :

In quel ginocchio di umiltà
La vita flettersi pura, onnipotente
Il core sospinge un dardo
Verso l’infinita sapienza eterna
Si l’eterno amore ,genera il Santo
L’umiltà computa veste
Il Verbo di carne e d’Alma;
un fiore in ogni cuore
santificando ogn’anima pentita.
La bella Icona ogni coscienza abbella
Su questa impervia roccia di Motticella

è così, dice la Signora Caterina tenendomi la mano, che dovrebbe essere tutti i giorni dentro di noi, con l’esempio della Madonna i nostri cuori dovrebbero inondarsi dell’ amore che lo Spirito Santo ha donato a lei. Con le parole di questa straordinaria poesia, continua la Sig. Caterina, composta proprio dal sacerdote Todarello, ognuno può interpretare a modo proprio le parole espresse, ravvivando il ricordo della Festa dell’Annunziata a Motticella, che è stata dagli anni ‘20 fino agli anni ’70, un momento di grande spiritualità, che univa Motticella alla Mamma Celeste, “La Vergine Annunziata”.

Parole, commoventi, profonde, suggestive, che attraverso il racconto della Sig. Caterina possono cogliere l’ essenza di un popolo devoto alla Madonna, che ha fondato una cultura religiosa radicata in quei valori culturali profondi e spiritualmente molto intensi, difficili da comprendersi oggi. Tutto questo tripudio di devozione e fede avveniva all’ombra del monte Scapparrone che alto ed imponente dominava e domina tutt’ora il paesino.

MOTTICELLA, ESPERIENZA AI CONFINI DEL TEMPO…

Un borgo, Motticella, ormai assonnato, vecchio, diruto, quasi morente…, che nonostante tutto riesce ancora a raccontarci tanto e forse non tutto…, a noi popolo di questo secolo immerso in quella modernità idealistica, che talvolta non ci fa comprendere il valore semplice di queste “scene di vita d’un tempo”, che rimangono dei racconti da scrivere, da far rivivere attraverso la semplicità di un racconto.

Motticella è un piccolo borgo abitato da 155 anime frazione di Bruzzano Zeffirio (RC). Sorge ad un’altezza di 120mt, ai piedi del Monte Scapparrone (1058mt slm). La sua particolarità è appunto la sua ubicazione; a nord l’abitato si adagia sulle colline che degradano dal Monte Fasoleria (Ferruzzano) e a sud le abitazioni sorgono sull’orlo dei crepacci del torrente Bampalona (come si evince dall’immagine). Un torrente ricco d’acqua tutto l’anno, che più a valle prende il nome di “Fiumara del Torno” o più comunemente “Fiumara Bruzzano”.
Conosciute per le sue proprietà e benefici sono le acque sulfuree di località “Bagni”, dove anticamente i monaci avevano costituito proprio un luogo per la cura di molte malattie e dove ancora oggi molta gente si reca a prelevare piccole quantità di acqua. I suoi fanghi dicono fossero miracolosi per la cura della pelle ma soprattutto per le malattie delle ossa, tant’è che fino agli anni ’60 anche le famose “Terme di Antonimina” usufruivano prelevando i fanghi nei pressi di questa sorgente.

Purtroppo il destino di questo paese, come molti dei paesi del’entroterra Aspromontano e pre-aspromontano è stato via via abbandonato per l’emigrazione della popolazione verso destinazioni nuove e all’estero. In particolare Motticella, è stato segnato da una brutta pagina di cronaca nera dove perirono numerose persone a causa di una faida scoppiata tra gli anni ’80-’90. Ma, nonostante tutto questo, sopravvive ancora di poche ed umili anime, dedite soprattutto all’agricoltura e alla pastorizia.

Da visitare nei dintorni;

Sicuramente la leggendaria quanto misteriosa “Rocca di San Fantino”, su cui aleggiano numerose storie e leggende, l’antico monastero di San Fantino infatti, sorge a pochi passi dalla rocca. Poi ci sono i mulini sulle sponde del torrente “Torno e Bampalona”, i caratteristici vicoli del borgo, che ancora conservano quei tratti medievali degni di nota. Più in alto, il Palazzo nobiliare (detto il Castello), la piccola e unica chiesa parrocchiale dedicata a San Salvatore (Patrono del borgo), che conserva un particolare cristo in croce realizzato in un unico blocco si legno, oltre a varie statue settecentesche e ottocentesche.
Sono molti gli scorci sulla vallata, da cui è possibile scorgere il mare. Motticella non ha negozi o ristoranti, tuttavia spesso ci si imbatte nelle persone che ancora vi abitano che sono molto cortesi ed ospitali. Vi è ancora un artigiano, che custodisce i segreti dell’intaglio su legno a mano libera.
Qui, vi è ancora l’usanza del saluto e dell’accoglienza come base principale della vita. Tutte brave persone, che spesso ti invitano a bere un bicchiere di vino o ti offrono un caffè. Insomma, Motticella è come una grande famiglia, è un posto per chi sa cogliere l’anima dei luoghi, non è nulla di preconfezionato, è una delle meglio rappresentazioni della Calabria autentica!

di Carmine Verduci

Brancaleone (RC) L’antica Torre di Galati ci svela il suo fascino

Uno scrigno di storia e biodiversità

A pochissimi chilometri dalla piccola e ridente frazione di Galati sorge una splendida torre che si erge su una piccola collinetta naturale a 190mt s.l.m., l’edificio probabilmente è stato costruito alla fine del ‘500 e rientrava nel sistema delle torri di avvistamento volute dal Regno di Napoli su tutte le coste del mediterraneo. Queste torri, oltre a svolgere la funzione di sorveglianza dei mari e in caso di attacchi pirateschi, dovevano comunicare non solo fra di loro, ma anche con l’entroterra, essendo molti i centri abitati che sorgevano nell’entroterra. La torre di Galati oltre ad avere avuto una funzione militare, ha sicuramente svolto un ruolo istituzionale sul territorio, grazie alla sua importante e strategica ubicazione (al confine tra i territori di Palizzi e Brancaleone) Fonti storiche riferiscono che tale edificio ricadeva all’interno delle proprietà del Governo.

L’itinerario

Un ottimo spunto per raggiungere la torre, è quello di approfittare dei periodi meno caldi, come la primavera e l’autunno. Per raggiungere la torre effettuando una piacevole camminata immersi nella natura, è possibile farlo direttamente dalla piccola frazione di Galati che si trova al 59°km sulla SS 106 ionica. Giunti presso il cimitero che sorge vicino alla grande arteria stradale si lascia l’auto nell’ampio parcheggio. Si prosegue a piedi seguendo una sterrata che costeggia un complesso residenziale semi-costruito. La stradina costeggia il piccolo torrente, quasi sempre in secca conosciuto come “vallone Pezzimenti” che ad un certo punto comincia a scavalcare la prima collinetta.

Giunti alla fine della salita, le praterie che si ammirano sono vastissime, in particolare nei mesi di Novembre/Dicembre questi prati profumano di Narcisi selvatici che un tempo venivano raccolti per estrarre l’olio essenziale per l’industria profumiera Francese. Si prosegue verso destra seguendo la mulattiera principale che di li ad 1km giunge presso a dei ruderi di una piccola chiesa che apparteneva ai possedimenti dei proprietari della torre, che sorgono su una piccola collinetta adiacente alla strada e posta in un crocevia. Si svolta a sinistra ed ecco che in cima alla strada irrompe la Torre, che solitaria e imponente appare allo sguardo come un edificio di modeste dimensioni. La natura qui è incontaminata, contraddistinta da appezzamenti di terreno coltivati ad ulivi e vigne.

La torre naturalmente non ha un custode e non vi si può accedere al suo interno, ma grazie alla documentazione fotografica della Pro Loco di Brancaleone è possibile ammirare i due arconi di pietra locale che sorreggono i piani superiori. Tutto intorno sorgono vecchie mura che ci danno l’impressione di unità abitative ed ambienti funzionali, quali ad esempio sul lato destro della torre, un ambiente conserva ancora le vasche dell’antico frantoio, e nella parte retrostante, fra rovi e vegetazione infestante si notano quello che un tempo erano le scuderie, necessarie alla custodia dei cavalli.

Ritornando indietro e ripercorrendo lo stesso itinerario è possibile effettuare una variante, che consiste nel completare l’escursione ad anello, non senza però stare attenti alle mulattiere che si dipanano dallo sterrata principale che riscende le colline e giunge proprio sulle sponde della fiumara Spartivento con sullo sfondo il Faro (che da queste parti è conosciuto col nome di Semaforo), si costeggiano le coltivazioni di una nota azienda agricola di Brancaleone e si mantiene sempre la sinistra della strada sterrata, che ad un certo punto compie una piccola salita dove alla fine con grande sorpresa e meraviglia si arriva alla strada asfaltata, qui si stagliano i Calanchi che offrono all’escursionista un paesaggio lunare a pochi passi dall’abitato e dal mare azzurro che fa da cornice.

Si prosegue scendendo la suddetta strada che di li a poco giunge alle abitazioni e fin verso la SS.106, per ritornare al punto di partenza si segue la direzione nord verso Taranto, attraversando la Chiesa dell’Addolorata, La bottega della frazione, il Bar caffetteria e percorrendo 500mt si giunge all’ingresso della stradina del cimitero che conclude il percorso. In alternativa si rifà il percorso fatto all’andata.

*(Fonti: Carmine Verduci- Kalabria Experience)

Fonti storiche e documentaristiche:

Nel 1626 il governo si vide costretto a mettere all’asta tutte le foreste, ma il principe di Roccella Fabrizio Carafa vantava dei diritti acquisiti sulle stesse, fu così che si arrivò a un accordo economico che prevedeva la cessione delle foreste ai Carafa. Queste proprietà nel secolo precedente appartennero alla Famiglia Marullo da Messina (Conti di Condojanni). Nel 1628 Fabrizio Carafa vendette il feudo di Galati al Magnifico Giovanni Antonio Genoese per 19.000ducati. Nel 1745 risulta che la foresta di Galati unitamente alla Torre, erano intestate al Barone Paolo Filocamo che l’aveva affidata al Dott. Michele Francesco Cafari (del casale di Staiti). In realtà il territorio di Galati era anche la destinazione finale della transumanza del bestiame che giungeva dalle serre Catanzaresi, inoltre nella Torre e negli edifici annessi trovavano ricovero i pastori che conducevano le greggi. Nel 1779 il pastore di Fabrizia Giovanni Monteleone, fece testamento proprio all’interno della “Torre di Galati”, il cui territorio nello stesso atto testamentario viene chiamato “Villa di Galati”. Nel 1800 la Torre ed i suoi possedimenti erano di proprietà della famiglia Retez che furono tra gli ultimi ereditari. Intorno ai primi anni del 2000 la torre in avanzato stato di abbandono venne restaurata, grazie a dei fondi europei e l’interessamento della Regione Calabria, Mibact e Comune di Brancaleone. Si evince che l’intera area della torre aveva non solo ambienti ad uso abitativo, ma anche ambienti come il frantoio, le scuderie ed altri ambienti di servizio che servivano probabilmente a dare stallo ai viandanti, pastori ecc… Ma si hanno notizie che almeno fino agli anni ’50 questa torre fu utilizzata non solo come deposito, ma anche come ricovero di fortuna per gli abitanti dell’omonima Galati.

* (Fonti: Carmine Laganà, Vincenzo De Angelis, Carmine Verduci)

CURIOSITA’

Il toponimo “GALATI” deriverebbe dall’arabo Qualat, ma è un’ipotesi alquanto surreale, se consideriamo che la costa orientale calabrese sia stata caratterizzata da influenze non solo di popolazioni di passaggio ma anche caratteri linguistici che hanno lasciato parecchie forme di derivazione greca dell’onomastica e toponomastica delle nostre zone. Quindi volendo inseguire anche la tesi più accreditabile del nome GALATI potremmo sicuramente dire che derivi dalla lingua greca, ovvero: GALA= Latte. Tesi che trova riscontro proprio con l’ubicazione del luogo che si trova in una porzione di territorio caratterizzato dalla presenza di marne bianchissime che durante le stagioni secche, appena dopo una eccezionale precipitazione abbondante e in condizioni di mare calmo, si riversa in mare l’acqua bianchissima nell’azzurro ionio, fenomeno che crea lunghe strisce bianche sul mare, dando appunto l’impressione del latte. Tesi poetica, ma più verosimile.

Sappiamo come nel periodo Mago-Greco i confini tra Locri e Reggio furono ridisegnati più volte,a distinguere questi confini erano spesso le fiumare, infatti tutta l’area intorno alla torre ed a questi territori è costellata da reperti archeologici come confermano indagini archeologiche condotte dal Prof. D. Cordiano dell’Università di Siena nel 2016, i rilevamenti archeologici e scientifici hanno indagato le località Stracozzara, Monumenti e Cafuni ed i territori tra Brancaleone e Palizzi pubblicati nel saggio: “Carta archeologica del litorale ionico aspro montano” Comuni di Palizzi – Brancaleone – Staiti e d’intorni

*(Fonti: Isidoro Bonfà, Sebastiano Stranges)

 

LA VIA DEI BORGHISAN GIORGIO MORGETO

Domenica 4 Ottobre La Via dei Borghi a San Giorgio Morgeto (RC)

Torniamo a percorrere LA VIA DEI BORGHI amici. Il 4 di ottobre prenderà il via la terza edizione del progetto nato dalla sinergia tra Il Giardino di Morgana e Kalabria Experience. La destinazione sarà eccezionale: San Giorgio Morgeto con il suo fascino medievale ed i suoi paesaggi pazzeschi sulla Piana e sul Mar Tirreno.
Moltissime le attrazioni di giornata: Il Convento dei domenicani, la Chiesa dell’Annunziata, Palazzo Oliva, il Busto Florimo, Palazzo Florimo, San Gennaro(o San Giuseppe), la Chiesa Sant’Antonio, Palazzo Ambesi (centro visita), la Chiesa del Carmine, l’arco di San Giacomo, la Chiesa dell’Assunta, Palazzo Fazzari, la scala Beffarda, il Passetto del Re, il Castello, la Fontana Bellissima, Palazzo Milano.

Questo dimostra che ogni angolo della Calabria esprime storie e curiosità che attendono solo di essere raccontate. Dopo la pausa pranzo (PRANZO A SACCO), ci lasceremo stregare dalle capacità degli artigiani e produttori locali.

Due gli appuntamenti.Faremo visita al maestro Cestaio Aldo Mammoliti e dopo incontreremo la storia dell’azienda Olearia San Giorgio.

PROGRAMMA:

Ore 09:00 Raduno dei partecipanti presso lo slargo posto all’inizio di via Morgeto (vicino alimentari Ligato) GUARDA LINK GOOGLE E MAPS
Ore 09:30 Visita del borgo
Ore 13:00 Pausa pranzo (pranzo a sacco)
Ore 14:00 spostamento verso il cestaio Aldo Mammoliti e successivamente IN MACCHINA raggiungeremo l’azienda Olearia San Giorgio
Ore 17:30 Saluti e rientro.
ALL’INTERNO DELLA GIORNATA:
FOTO CONTEST INSTAGRAM: #IuntamuSanGiorgioMorgeto
SCHEDA TECNICA:
Escursione di tipo: “T” (TURISTICO)
Grado di difficoltà: FACILE
Percorso: Urbano
SERVIZIO BUS FACOLTATIVO A CURA DI FULLTRAVEL:
Il servizio verrà attivato al raggiungimento di otto adesioni
– BRANCALEONE STAZIONE FERROVIARIA ore 7:30
– BOVALINO DI FRONTE RISTORANTE VILLA DENISE ore 8:25 
– LOCRI STAZIONE DI SERVIZO ESSO ore 8:10
EQUIPAGGIAMENTO CONSIGLIATO:
Calzature adeguate al tipo di percorso in centro storico (scarpe da ginnastica) vestiario a cipolla, k-way, impermeabile, cappellino, occhiali da sole, scorta d’acqua almeno 1/5 lt), indumenti di ricambio, macchina fotografica o smartphone, telo per pic-nic, MASCHERINA E GEL IGIENIZZANTE PERSONALE!
PER ADERIRE ALL’INIZIATIVA:
E’ OBBLIGATORIA LA PRENOTAZIONE ENTRO IL 3 OTTOBRE 2020 alle 12.00
telefonando al numero 392 400 9180
Quota di partecipazione: 15€ (Max partecipanti: 40)
calabria

Ci voleva una pandemia per far scoprire la Calabria!

“…a chi l’ha sempre snobbata o ritenuta pericolosa (no, non anneghiamo i turisti nel cemento dei piloni della Salerno Reggio Calabria; no, non correte il rischio di finire in mezzo a una sparatoria… per quanto qui in estate il “mezzogiorno di fuoco” sia una certezza, ma per ragioni climatiche!”

La Calabria, complice il bassissimo numero di contagi, quest’anno è stata presa d’assalto dai turisti (e in parte dagli stessi calabresi, che la conoscono pochissimo!). Mentre io ho continuato a viverla come ho sempre fatto: senza filtri. Che resta il miglior modo per scoprirla e capirla. La Calabria funziona per sottrazione. Tra essere e apparire qui vince sempre la prima. Nessun brand, nessuna moda, nessun Vip. Un’estate senza: niente borse da mare griffate, niente telo e pareo trendy, niente zoccoli con tacco 12. Mare e spiaggia senza vestiti, senza lidi fashion, senza lettini, senza sdraio e ombrellone, senza cappello , senza occhiali da sole. Già è tanto avere su il costume… nonostante in effetti sia un filtro anche quello!  Ciabattine rasoterra, asciugamano su una spalla, libro. Direttamente in mano, neanche una sacca per contenere il tutto. Figurarsi avere dietro soldi o portamonete, tanto non c’è niente da comprare dove vado io… non un chiosco o un bar.

Brancaleone Vetus (RC)

Il mare in Calabria per me è il telo steso direttamente sulle pietre o sulla sabbia, è camminare sui sassi senza scarpe (si diventa fachiri da piccoli! Invece di comprare sandali e scarpette gommate ai bambini lasciateli irrobustirsi a piedi nudi…). In Kenya riuscii a impressionare uno dei ragazzi locali proprio per questa mia capacità di camminare scalza sulle pietre… secondo lui, una cosa assolutamente atipica per una “mzungu”, una bianca. Per quanto bianca possa essere una calabrese!

Sarà stata la clausura forzata da Covid19 in cui una delle cose che più mi è mancata era proprio il mare, ma ora come non mai ho questa necessità fisica di sentire tutto sulla pelle. Che forse non ci avete mai pensato, ma è il nostro organo più esteso e il meno usato. In un’epoca in cui i filtri sui cellulari sono più numerosi dei rossi in una carta dei vini (e con nomi altrettanto altisonanti), io sono senza filtri come i bambini. E i matti. Senza filtro è come vivo la vita, non solo la vacanza. Niente trucchi. Neanche quelli che si mettono sul viso, tanto per capirci… la verità è nuda e cruda come un’ostrica. Il mio scrub naturale è fatto di sabbia che leviga la pelle, mentre le pietre del bagnasciuga provvedono alla pedicure. Il mio parrucchiere è il vento e la salsedine che arriccia i capelli, il mio fondo tinta è il sole che colora il viso e fa sparire i pori allargati. Il mio profumo è un distillato di acqua di mare, ginepro, brezza salmastra e tamerici. L’onda è la mia massaggiatrice. Instancabile e gratuita.
Senza filtro un pezzo di carbone residuo di qualche falò diventa utensile d’arte per disegnare sulle pietre come fossero una tela.

La Calabria senza filtri è così: selvaggia e genuina, tagliente e vellutata, inaccessibile e succulenta. Con questa luminosità africana che rende inutile qualsiasi fotoritocco, i colori vividi per natura nell’assolato mezzogiorno e morbidi al tramonto.

I filtri (pensateci ora che siete obbligati ad averne uno come la mascherina su naso e bocca) rendono schiavi: quando li usi la prima volta dovrai farlo per sempre. Perché una volta che abitui il pubblico alla versione di te “ritoccata”, con la luce giusta, con il software che snellisce o leviga le rughe chi avrà più il coraggio di farsi un selfie “naturale”? Al naturale ormai vuol dire con i difetti. In genere troppi da sopportare. L’autenticità richiede una certa dose di coraggio e spavalderia.

“Senza filtro è dire quello che si pensa, direttamente. Senza studiare una strategia. Solo perché va detto. Perché la verità è sempre senza filtro. E voi, che preferite? Una consolante bugia o la scomoda verità?”

 

MARIA ROSARIA TALARICO:

Sono nata in Calabria, vivo a Roma con un marito e una valigia sempre pronta. Ho viaggiato in una cinquantina di Paesi diversi, ma non mi sono ancora stancata di vederne di nuovi. Oltre agli articoli, sforno torte. Ho una fattoria brigantesca www.fiego.it
Ho vinto diversi premi giornalistici tra cui il Premio Maurizio Rampino (con l’inchiesta sul riciclaggio internazionale e il traffico di cash), il Premio Natale – Unione cattolica stampa italiana (per il reportage sul precariato nel mondo della scuola) e il premio Val di Sole per un giornalismo trasparente (con il sito internet www.ilbarbieredellasera.com, antesignano dei blog e di cui, con lo pseudonimo Pennina, è stata una delle colonne della redazione). Il premio più importante resta essere diventata giornalista nonostante i miei genitori non lo fossero. Giornalista professionista, portavoce, musicista, docente, militare, imprenditrice agricola. Nella mia vita sono stata molte cose. Ho un lungo curriculum e nessuna condanna in tribunale. Nonostante questo svantaggio di partenza mi sono candidata lo stesso alle ultime elezioni europee. Non ho vinto, ma è stato bellissimo partecipare! Per chi vuole saperne di più: http://www.rosariatalarico.it/biografia/

Alla scoperta del borgo di Pentedattilo (RC)

Pentedattilo: cinque dita. Cosi è chiamato questo piccolo borgo arroccato sul monte Calvario nel comune di Melito di Porto Salvo. Un borgo che cattura l’attenzione anche del più distratto, non solo per la morfologia della rocca su cui sorge ma anche per la bellezza della disposizione delle case distribuite lungo una ripida e instabile scoscesa. L’immagine di questo borgo silente è suggestiva tanto da meritargli l’appellativo di “borgo fantasma”.

Dell’antico paese di Pentedattilo si hanno notizie scritte per la prima volta nel IX secolo d.C., epoca in cui era già una cittadella fortificata, e il territorio cui faceva capo era molto esteso – dalle zone marine di Saline Joniche, passando per la Valle del Tuccio e infine arrivando alle zone pedemontane di Bagaladi. Costituì anche un centro nevralgico per l’amministrazione dell’economia agricola relativa ai terreni monastici di tutto il territorio melitese.

Nel 1500 Pentedattilo ebbe per la prima volta un proprietario laico, cioè Michele Francoperta, figlio di Ferrante; nel 1509 il feudo venne acquistato dalla famiglia Alberti di Messina che furono in gran parte protagonisti del clima di rinascita culturale ed economica che il nuovo secolo portò con sé; la casata degli Alberti è diventata famosa in Calabria a causa di un evento funesto: l’eccidio della nobile famiglia, compiuto a opera del barone Abenavoli del Franco di Montebello Jonico.

La strage si consumò la notte di Pasqua del 1686 a causa di dispute sui confini e in parte del rifiuto da parte del fratello di Antonia Alberti di concedere la stessa in sposa a Bernardino Abenavoli. In quella tragica notte venne dato l’assalto al castello e gran parte della famiglia Alberti venne massacrata: non vennero risparmiati né donne né bambini. Nei secoli a seguire Pentedattilo venne dapprima danneggiata dal terremoto del 1783 e in seguito cedette il passo a Melito di P.S., diventando una sua frazione. Oggi la parte antica del borgo è parzialmente in abbandono; ma grazie all’impegno di alcune associazioni sta divenendo un suggestivo centro di cultura e per l’artigianato locale, che si può ammirare nelle casette riadattate a bottega.

Dalla statale 106 è possibile ammirare la sua particolare collocazione che, soprattutto di sera, lo trasforma in un vero e proprio presepe. E’ facilmente raggiungibile in auto ed è possibile visitarlo interamente anche attraverso un percorso di trekking ad anello che consente di ammirarlo nella sua totale bellezza. In modo particolare, al calar del sole, la punta delle dita di questo gigante dormiente si colorano di rosso mentre il tepore dell’aria si fa sempre più denso.

Lo sguardo si perde in mezzo alle infinite vallate circostanti, solcate dalla fiumara Sant’Elia che partendo dagli altopiani dell’Aspromonte e costeggiando le frazioni del comune di Montebello raggiunge la spiaggia di Melito di P.S. per poi perdersi nelle trasparenti acque del mar Jonio. L’erosione di questa rocca di arenaria causata dagli eventi atmosferici la stanno lentamente consumando; anche i ruderi del castello, visibili solo in parte, si stanno progressivamente sgretolando. Probabilmente in futuro resterà ben poco delle antiche vestigia, ma la storia e la memoria di questo borgo continuerà a viaggiare attraverso i racconti e gli scritti, perché la conoscenza non muore ma si conserva nella memoria di chi ama la propria terra.

By Cristian Politanò

La Sibilla Aspromontana. Leggenda o verità?

Le manifestazioni nel cielo, ​ così come quelle sulla terra, ci danno segni. Cielo e terra mandano segni univoci, ognuno per proprio conto, ma non indipendentemente, perché cielo e terra sono interconnessi. Un segno cattivo in cielo, è anche cattivo in terra; un segno cattivo in terra, è anche cattivo in cielo.” ( Da una tavoletta di Scuola teologica di Babilonia ) Uno schianto improvviso distolse la sua attenzione, mentre era intenta a pestare dentro il piccolo mortaio di pietra le erbe raccolte in mattinata nella piccola piana sottostante. Sibilla abbandonò il lavoro. Si avvicinò sul bordo della grotta che dava sullo strapiombo e sbirciò fuori. Un grosso torello si era inerpicato chissà come lungo l’erta salita. Questa portava a quella che un tempo fu una torre del suo castello. Adesso era soltanto un’aspra ed alta pietra che proteggeva l’ingresso di quel che rimaneva del suo maniero. Il bovino apparteneva di sicuro alle mandrie dei Potamiòti che avevano eletto a loro territorio i pascoli impervi della Montagna Bianca. Poco probabile invece, che appartenesse ai Panduriòti, loro non si spingevano quasi mai oltre la Grande Pietra. Rispettavano il confine invisibile che dai vecchi Tempi delimitava il territorio che a lei apparteneva.

Gli animali ormai erano diventati i soli esseri viventi che le tenevano compagnia tra quelle forre abbandonate molti secoli addietro dagli Uomini. Lei viveva lì da diversi millenni oramai, aveva assistito allo scorrere inesorabile del Tempo e degli eventi che si erano consumati tra quelle montagne. Ricordava ancora il suono delle voci degli Umani distribuiti su quel territorio selvatico quando era ancora la loro casa. Era vecchia Sibilla. La più piccola delle Sette Figlie di Lámia, una delle ultime rimaste ancora in vita. Delle altre non ne aveva saputo più niente, tranne di Scilla. Scilla viveva nascosta su un’altra montagna sul mare, di fronte all’isola dei Sicáni. Nascosta dentro una grotta da Lámia per sottrarla all’ira di Era. Era aveva già ucciso le altre sorelle. Scilla Urlava, lo malediceva quel mare ogni volta che vi s’immergeva e sfogava la sua rabbia contro gli incolpevoli e ignari marinai che vi si avventuravano. Erano rimasti in pochi i figli dei vecchi Numi che avevano abbandonato quella Dimensione, lasciando i semidei rimasti in balìa dei nuovi Dei che avevano preso il loro posto. Il loro Potere era cresciuto grazie agli Umani che avevano dimenticato così presto i loro Creatori. Avevano distrutto i vecchi Templi e dimenticato gli antichi riti, le consuetudini nate con loro. Nei secoli passati gli stessi umani le avevano fatto non poche visite. Desideravano ottenere responsi su quanto sarebbe avvenuto nelle loro brevi ed insignificanti vite. Attendevano che le nebbie del tempo squarciassero il velo mostrassero attraverso lei il Passato e il Futuro. Poche volte avevano capito. Poche volte le frasi che diceva erano state di facile comprensione, ma quelle poche volte gli eventi da lei vaticinati si erano rivelati terribilmente precisi. Arrivavano carichi di doni e di speranza, molto spesso accompagnati dal terrore che lei suscitava nei loro fragili e piccoli cuori, certi che avrebbero avuto dall’Oracolo la loro chiave del Mistero. Da quasi un millennio però, non riceveva più quelle visite. Un nuovo e potente Dio aveva occupato il cuore e le menti di quella gente. Li aveva spinti lontano da quei boschi, dai quei luoghi nascosti dove resistevano pochi e fievoli bagliori dei Tempi Antichi. Erano fuggiti via da quelle aspre montagne dove una volta volteggiavano le grandi aquile e i terribili grifoni, dove erano rimaste solo poche rovine, ultimi segni delle loro presenze. Di uno di loro, l’ultimo che era venuto, conservava il ricordo chiaro e netto, anche a distanza dei molti secoli trascorsi. Era arrivato sopra un grande cavallo nero, coperto da una veste di metallo che doveva servire a proteggerlo dagli attacchi dei nemici. Sudava copiosamente sotto i raggi roventi di Elios, in quella primavera inoltrata che aveva assunto da alcuni giorni le temperature torride dell’estate.

Lei invece aveva appena fatto in tempo a mutare aspetto. Si era trasformata in una capra dalle ampie corna, forma che utilizzava sempre, soprattutto per l’agilità e la velocità che le conferiva quello stato. Si mise a seguire il cavaliere fino alla Fonte nascosta. L’uomo sembrava conoscere bene il luogo, così sembrava dal passo spedito e sicuro con il quale si avvicinava al piccolo laghetto che raccoglieva le acque cristalline. Era ancora presto per trovarci le piccole Naráde e i Tritoni intenti a giocare lungo il ruscelletto che scompariva con piccoli salti nel vallone sottostante della fontana. Sibilla in veste caprina si inerpicò tra i fitti cespugli di erica, cercando di non dar nell’occhio allo straniero e in attesa di capire chi fosse. Dopo averlo osservato bere avidamente l’acqua che scendeva incanalata dentro una “ceramìda” lo vide dirigersi alla destra della fonte. Egli aveva individuato come se lo conoscesse da sempre il vecchio sentiero che da moltissimi anni nessuno aveva più percorso. Quello che portava a ciò che era rimasto del rudere in pietra della casa del Vecchio Pàpas che lo aveva abitato per qualche tempo diversi secoli addietro. « Ecco svelato l’arcano!» Pensò Sibilla nel vedere il giovane avvicinarsi alla pietra dove il vecchio aveva conficcato un pezzo di metallo. Era simile ad una spada con l’elsa in alto, lavorata con cerchi che terminavano in un semicerchio rovesciato che assomigliava ad una impugnatura. Lo vide unire le mani come aveva visto più volte fare al Vecchio Pàpas e lo sentì pronunciare le stesse parole che aveva sentito da lui. Parole strane, arcane, intrise di un mistero che lei non era mai riuscita a decifrare. Non aveva mai avuto potere sul Vecchio. In verità, davanti a lui perdeva il potere che le permetteva di trasformarsi. Le si rivelava per come era, una vecchia, molto avanti con gli anni che ogni tanto andava alla fonte per prendere dell’acqua. Lui le aveva detto di chiamarsi Silvestro, di essere un Pápas, un sacerdote del nuovo Dio. Le aveva raccontato che era fuggito dalla persecuzione di un Re potente che voleva ucciderlo. Ma anche il Pàpas aveva capito di trovarsi di fronte ad una Creatura con qualche Potere. Alle domande dell’uomo precise e puntuali, lei non riusciva a sottrarsi. Aveva mentito, per quanto poteva, cercando di celare quanto più possibile l’essenza della sua Natura Antica. Un giorno arrivarono al piccolo rifugio del vecchio molti soldati, lo presero e di lui e del suo destino non ne seppe più niente. Sicuramente il cavaliere era stato indirizzato da qualcuno. Qualcuno che sapeva del Vecchio. Magari il Vecchio aveva raccontato della Maga che abitava quelle montagne lontane ed inaccessibili. Forse quel cavaliere solitario era venuto per lei. Cambiò nuovamente forma, riacquistando il suo aspetto umano e si avvicinò alla fonte, dove il cavallo al vederla emise un nitrito tale da richiamare il cavaliere. Vedendola avvicinare, non si meravigliò più di tanto, confermando a Sibilla il sospetto che aveva avuto poco prima. «Allora era tutto vero!» Esordì il giovane, che da vicino dimostrava i pochi anni d’età, nascosti da una rada peluria che gli ricopriva il viso. Poi s’inginocchiò al suo cospetto. « Chiedo perdono mia Signora, se ho disturbato la quiete della tua dimora, ma ho fatto molto cammino per arrivare fino a qui e non sapevo se avrei trovato quello che sembrava un Mito, o una favola, di quelle che si raccontano ai bambini nelle fredde serate d’inverno per farli dormire. Sei tu l’Antica Signora di questo Regno che conosce quello che è stato e quello che deve ancora avvenire? Sei tu l’Oracolo che riesce a scrutare nel Tempo e nei suoi Misteri?» Era tanto che Sibilla non sentiva una voce umana risuonare in quei luoghi. Ci mise qualche secondo a decifrare le parole del cavaliere e il suo sguardo fisso, mentre le ginocchia premevano la terra. «Cosa cerchi giovane guerriero in queste montagne sperdute dove vivono soltanto animali selvatici e uccelli rapaci e questa vecchia pazza che incute timore e paura ai temerari che si arrischiano al suo cospetto? Cosa ti ha spinto fino a me? Parla dunque!» «La tua fama e il tuo segreto mi sono stati rivelati da una leggenda che si racconta ancora oggi tra i Cavalieri di Re Carlo» – rispose il cavaliere «essi mi hanno raccontato delle tue doti di Maga e di veggente, che tu e tu soltanto mi puoi essere d’aiuto. Mi chiamo Guerrino e sono alla ricerca dei miei genitori, che non ho mai conosciuto. Nessuno ha saputo dirmi chi fossero e dove avrei potuto trovarli. Confido nella tua benevolenza sicuro che tu possa disvelare la verità sulla mia nascita!» Poi, prese un fagotto di stoffa dal cavallo e lo aprì ai suoi piedi, svelando dei gioielli e delle pietre preziose. «Ah,» pensò Sibilla, «quanto sciocchi e incomprensibili sono gli Umani, che credono che qualche pietruzza luccicante e del metallo per loro prezioso, possano ripagare i servigi di una Dea!»

Ma decise di aiutarlo e non per tutto il cammino che il cavaliere aveva percorso pur di incontrarla, ma perché in fin dei conti nessuno mai se ne era andato via senza aver ottenuto da lei un responso. La sua giovane età le ispirava strane ed inspiegabili sensazioni materne. Gli recise una ciocca dei capelli intimandogli contemporaneamente di attenderlo presso la fontana per tutto il tempo che sarebbe occorso per ottenere il responso richiesto. Lontana dal suo sguardo si trasformò di nuovo in capra e con pochi e agili balzi si inerpicò fino alla sua caverna, lì si mise ad armeggiare con i funghi, erbe, foglie di alloro essiccate unite ai ciuffi di capelli. Il tutto serviva per penetrare nello stato mistico che le avrebbe provocato visioni divinatorie. Mise il composto dentro un piccolo braciere di pietra e dopo averlo acceso, ne inspirò profondamente i fumi che ne scaturirono e si preparò ad entrare lì dove Passato e Futuro si mescolavano in un groviglio di immagini e voci. Sembrava non esserci logica apparente in quello scorrere del Tempo e dello Spazio che gli disordinatamente gli si svelava. In quel continuum dove le sensazioni arrivavano come onde. Plausibili o folli e irreali. Stava a lei riuscire a mettere ordine e a rendere comprensibili le risposte che le venivano da quelle visioni. Stava a lei trasformarle in parole dal senso più o meno chiaro. Era quasi sera quando tornò dal giovane Guerrino. Dopo averlo scrutato gli rivelò quello che aveva visto nel suo passato e cosa sarebbe accaduto nel suo immediato futuro. « Ho visto il padre di tuo padre cavalcare come te in queste contrade, al seguito di un Re potente. Egli combatteva contro guerrieri dalla pelle scura sotto una bandiera raffigurante una croce come quella che il vecchio Pápas adorava sulla pietra davanti alla sua dimora. Tu sei figlio di uno dei quattro figli avuti da lui. Il suo nome è Milone. Il Re per il quale ha combattuto lo ha fatto Principe della città di Taranto. È lì che lo troverai, così avrà termine il tuo lungo viaggio e la tua ricerca.» All’alba del giorno seguente il giovane cavaliere ripartì, dimenticando o lasciando volutamente vicino alla Fontana, i gioielli recati in dono a Sibilla. Da quel giorno, riscoprendo una femminilità insospettata, la donna iniziò ad indossarli, in ricordo di quel giovane Cavaliere, di quell’ultimo umano con cui aveva scambiato delle parole. Li aveva osservati per gli anni e i secoli seguenti, i pochi Umani che arrivavano vicino alla sua grotta. Erano quasi sempre pastori alla ricerca di qualche animale perso tra quelle rocce. Aveva osservato i Pápas solitari, che portavano una veste di lana grezza con un cappuccio che lasciava scoperto il capo rasato sopra le folte barbe incolte. Abitavano come lei nelle caverne scavate nelle rocce vicino alla Grande Pietra, rifugio che con le sue insenature e i suoi crepacci servivano da riparo anche alle bestie selvatiche nei giorni in cui Zeus scagliava i suoi fulmini dall’Olimpo ed Eolo slegava l’otre dei venti ad inseguire e percorrere le nubi cariche di pioggia sotto un cielo buio avaro di stelle. Della vecchia casa vicino alla Fonte rimaneva solo qualche pietra.

La croce arrugginita caduta dalla pietra era stata trovata da un pastore che cercava un vitello disperso. Quella Croce adesso era venerata dentro un Tempio dedicato ad una nuova Dea che regnava su quelle montagne attirando carovane di gente nelle calde giornate di fine estate, con processioni di suoni e di canti, che si sentivano fino dalla sua grotta. Ormai diventata una spelonca dalla quale ogni tanto una vecchia capra dalle ampie corna scendeva con salti sicuri ad osservare incuriosita, nascosta dalla fitta vegetazione, quella nuova Umanità ignara del suo Passato e di un Futuro incerto nascosto nelle pieghe del Tempo.

 

By: Mimmo Catanzariti

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