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LA VIA DEI BORGHISAN GIORGIO MORGETO

Domenica 4 Ottobre La Via dei Borghi a San Giorgio Morgeto (RC)

Torniamo a percorrere LA VIA DEI BORGHI amici. Il 4 di ottobre prenderà il via la terza edizione del progetto nato dalla sinergia tra Il Giardino di Morgana e Kalabria Experience. La destinazione sarà eccezionale: San Giorgio Morgeto con il suo fascino medievale ed i suoi paesaggi pazzeschi sulla Piana e sul Mar Tirreno.
Moltissime le attrazioni di giornata: Il Convento dei domenicani, la Chiesa dell’Annunziata, Palazzo Oliva, il Busto Florimo, Palazzo Florimo, San Gennaro(o San Giuseppe), la Chiesa Sant’Antonio, Palazzo Ambesi (centro visita), la Chiesa del Carmine, l’arco di San Giacomo, la Chiesa dell’Assunta, Palazzo Fazzari, la scala Beffarda, il Passetto del Re, il Castello, la Fontana Bellissima, Palazzo Milano.

Questo dimostra che ogni angolo della Calabria esprime storie e curiosità che attendono solo di essere raccontate. Dopo la pausa pranzo (PRANZO A SACCO), ci lasceremo stregare dalle capacità degli artigiani e produttori locali.

Due gli appuntamenti.Faremo visita al maestro Cestaio Aldo Mammoliti e dopo incontreremo la storia dell’azienda Olearia San Giorgio.

PROGRAMMA:

Ore 09:00 Raduno dei partecipanti presso lo slargo posto all’inizio di via Morgeto (vicino alimentari Ligato) GUARDA LINK GOOGLE E MAPS
Ore 09:30 Visita del borgo
Ore 13:00 Pausa pranzo (pranzo a sacco)
Ore 14:00 spostamento verso il cestaio Aldo Mammoliti e successivamente IN MACCHINA raggiungeremo l’azienda Olearia San Giorgio
Ore 17:30 Saluti e rientro.
ALL’INTERNO DELLA GIORNATA:
FOTO CONTEST INSTAGRAM: #IuntamuSanGiorgioMorgeto
SCHEDA TECNICA:
Escursione di tipo: “T” (TURISTICO)
Grado di difficoltà: FACILE
Percorso: Urbano
SERVIZIO BUS FACOLTATIVO A CURA DI FULLTRAVEL:
Il servizio verrà attivato al raggiungimento di otto adesioni
– BRANCALEONE STAZIONE FERROVIARIA ore 7:30
– BOVALINO DI FRONTE RISTORANTE VILLA DENISE ore 8:25 
– LOCRI STAZIONE DI SERVIZO ESSO ore 8:10
EQUIPAGGIAMENTO CONSIGLIATO:
Calzature adeguate al tipo di percorso in centro storico (scarpe da ginnastica) vestiario a cipolla, k-way, impermeabile, cappellino, occhiali da sole, scorta d’acqua almeno 1/5 lt), indumenti di ricambio, macchina fotografica o smartphone, telo per pic-nic, MASCHERINA E GEL IGIENIZZANTE PERSONALE!
PER ADERIRE ALL’INIZIATIVA:
E’ OBBLIGATORIA LA PRENOTAZIONE ENTRO IL 3 OTTOBRE 2020 alle 12.00
telefonando al numero 392 400 9180
Quota di partecipazione: 15€ (Max partecipanti: 40)
calabria

Ci voleva una pandemia per far scoprire la Calabria!

“…a chi l’ha sempre snobbata o ritenuta pericolosa (no, non anneghiamo i turisti nel cemento dei piloni della Salerno Reggio Calabria; no, non correte il rischio di finire in mezzo a una sparatoria… per quanto qui in estate il “mezzogiorno di fuoco” sia una certezza, ma per ragioni climatiche!”

La Calabria, complice il bassissimo numero di contagi, quest’anno è stata presa d’assalto dai turisti (e in parte dagli stessi calabresi, che la conoscono pochissimo!). Mentre io ho continuato a viverla come ho sempre fatto: senza filtri. Che resta il miglior modo per scoprirla e capirla. La Calabria funziona per sottrazione. Tra essere e apparire qui vince sempre la prima. Nessun brand, nessuna moda, nessun Vip. Un’estate senza: niente borse da mare griffate, niente telo e pareo trendy, niente zoccoli con tacco 12. Mare e spiaggia senza vestiti, senza lidi fashion, senza lettini, senza sdraio e ombrellone, senza cappello , senza occhiali da sole. Già è tanto avere su il costume… nonostante in effetti sia un filtro anche quello!  Ciabattine rasoterra, asciugamano su una spalla, libro. Direttamente in mano, neanche una sacca per contenere il tutto. Figurarsi avere dietro soldi o portamonete, tanto non c’è niente da comprare dove vado io… non un chiosco o un bar.

Brancaleone Vetus (RC)

Il mare in Calabria per me è il telo steso direttamente sulle pietre o sulla sabbia, è camminare sui sassi senza scarpe (si diventa fachiri da piccoli! Invece di comprare sandali e scarpette gommate ai bambini lasciateli irrobustirsi a piedi nudi…). In Kenya riuscii a impressionare uno dei ragazzi locali proprio per questa mia capacità di camminare scalza sulle pietre… secondo lui, una cosa assolutamente atipica per una “mzungu”, una bianca. Per quanto bianca possa essere una calabrese!

Sarà stata la clausura forzata da Covid19 in cui una delle cose che più mi è mancata era proprio il mare, ma ora come non mai ho questa necessità fisica di sentire tutto sulla pelle. Che forse non ci avete mai pensato, ma è il nostro organo più esteso e il meno usato. In un’epoca in cui i filtri sui cellulari sono più numerosi dei rossi in una carta dei vini (e con nomi altrettanto altisonanti), io sono senza filtri come i bambini. E i matti. Senza filtro è come vivo la vita, non solo la vacanza. Niente trucchi. Neanche quelli che si mettono sul viso, tanto per capirci… la verità è nuda e cruda come un’ostrica. Il mio scrub naturale è fatto di sabbia che leviga la pelle, mentre le pietre del bagnasciuga provvedono alla pedicure. Il mio parrucchiere è il vento e la salsedine che arriccia i capelli, il mio fondo tinta è il sole che colora il viso e fa sparire i pori allargati. Il mio profumo è un distillato di acqua di mare, ginepro, brezza salmastra e tamerici. L’onda è la mia massaggiatrice. Instancabile e gratuita.
Senza filtro un pezzo di carbone residuo di qualche falò diventa utensile d’arte per disegnare sulle pietre come fossero una tela.

La Calabria senza filtri è così: selvaggia e genuina, tagliente e vellutata, inaccessibile e succulenta. Con questa luminosità africana che rende inutile qualsiasi fotoritocco, i colori vividi per natura nell’assolato mezzogiorno e morbidi al tramonto.

I filtri (pensateci ora che siete obbligati ad averne uno come la mascherina su naso e bocca) rendono schiavi: quando li usi la prima volta dovrai farlo per sempre. Perché una volta che abitui il pubblico alla versione di te “ritoccata”, con la luce giusta, con il software che snellisce o leviga le rughe chi avrà più il coraggio di farsi un selfie “naturale”? Al naturale ormai vuol dire con i difetti. In genere troppi da sopportare. L’autenticità richiede una certa dose di coraggio e spavalderia.

“Senza filtro è dire quello che si pensa, direttamente. Senza studiare una strategia. Solo perché va detto. Perché la verità è sempre senza filtro. E voi, che preferite? Una consolante bugia o la scomoda verità?”

 

MARIA ROSARIA TALARICO:

Sono nata in Calabria, vivo a Roma con un marito e una valigia sempre pronta. Ho viaggiato in una cinquantina di Paesi diversi, ma non mi sono ancora stancata di vederne di nuovi. Oltre agli articoli, sforno torte. Ho una fattoria brigantesca www.fiego.it
Ho vinto diversi premi giornalistici tra cui il Premio Maurizio Rampino (con l’inchiesta sul riciclaggio internazionale e il traffico di cash), il Premio Natale – Unione cattolica stampa italiana (per il reportage sul precariato nel mondo della scuola) e il premio Val di Sole per un giornalismo trasparente (con il sito internet www.ilbarbieredellasera.com, antesignano dei blog e di cui, con lo pseudonimo Pennina, è stata una delle colonne della redazione). Il premio più importante resta essere diventata giornalista nonostante i miei genitori non lo fossero. Giornalista professionista, portavoce, musicista, docente, militare, imprenditrice agricola. Nella mia vita sono stata molte cose. Ho un lungo curriculum e nessuna condanna in tribunale. Nonostante questo svantaggio di partenza mi sono candidata lo stesso alle ultime elezioni europee. Non ho vinto, ma è stato bellissimo partecipare! Per chi vuole saperne di più: http://www.rosariatalarico.it/biografia/

Alla scoperta del borgo di Pentedattilo (RC)

Pentedattilo: cinque dita. Cosi è chiamato questo piccolo borgo arroccato sul monte Calvario nel comune di Melito di Porto Salvo. Un borgo che cattura l’attenzione anche del più distratto, non solo per la morfologia della rocca su cui sorge ma anche per la bellezza della disposizione delle case distribuite lungo una ripida e instabile scoscesa. L’immagine di questo borgo silente è suggestiva tanto da meritargli l’appellativo di “borgo fantasma”.

Dell’antico paese di Pentedattilo si hanno notizie scritte per la prima volta nel IX secolo d.C., epoca in cui era già una cittadella fortificata, e il territorio cui faceva capo era molto esteso – dalle zone marine di Saline Joniche, passando per la Valle del Tuccio e infine arrivando alle zone pedemontane di Bagaladi. Costituì anche un centro nevralgico per l’amministrazione dell’economia agricola relativa ai terreni monastici di tutto il territorio melitese.

Nel 1500 Pentedattilo ebbe per la prima volta un proprietario laico, cioè Michele Francoperta, figlio di Ferrante; nel 1509 il feudo venne acquistato dalla famiglia Alberti di Messina che furono in gran parte protagonisti del clima di rinascita culturale ed economica che il nuovo secolo portò con sé; la casata degli Alberti è diventata famosa in Calabria a causa di un evento funesto: l’eccidio della nobile famiglia, compiuto a opera del barone Abenavoli del Franco di Montebello Jonico.

La strage si consumò la notte di Pasqua del 1686 a causa di dispute sui confini e in parte del rifiuto da parte del fratello di Antonia Alberti di concedere la stessa in sposa a Bernardino Abenavoli. In quella tragica notte venne dato l’assalto al castello e gran parte della famiglia Alberti venne massacrata: non vennero risparmiati né donne né bambini. Nei secoli a seguire Pentedattilo venne dapprima danneggiata dal terremoto del 1783 e in seguito cedette il passo a Melito di P.S., diventando una sua frazione. Oggi la parte antica del borgo è parzialmente in abbandono; ma grazie all’impegno di alcune associazioni sta divenendo un suggestivo centro di cultura e per l’artigianato locale, che si può ammirare nelle casette riadattate a bottega.

Dalla statale 106 è possibile ammirare la sua particolare collocazione che, soprattutto di sera, lo trasforma in un vero e proprio presepe. E’ facilmente raggiungibile in auto ed è possibile visitarlo interamente anche attraverso un percorso di trekking ad anello che consente di ammirarlo nella sua totale bellezza. In modo particolare, al calar del sole, la punta delle dita di questo gigante dormiente si colorano di rosso mentre il tepore dell’aria si fa sempre più denso.

Lo sguardo si perde in mezzo alle infinite vallate circostanti, solcate dalla fiumara Sant’Elia che partendo dagli altopiani dell’Aspromonte e costeggiando le frazioni del comune di Montebello raggiunge la spiaggia di Melito di P.S. per poi perdersi nelle trasparenti acque del mar Jonio. L’erosione di questa rocca di arenaria causata dagli eventi atmosferici la stanno lentamente consumando; anche i ruderi del castello, visibili solo in parte, si stanno progressivamente sgretolando. Probabilmente in futuro resterà ben poco delle antiche vestigia, ma la storia e la memoria di questo borgo continuerà a viaggiare attraverso i racconti e gli scritti, perché la conoscenza non muore ma si conserva nella memoria di chi ama la propria terra.

By Cristian Politanò

La Sibilla Aspromontana. Leggenda o verità?

Le manifestazioni nel cielo, ​ così come quelle sulla terra, ci danno segni. Cielo e terra mandano segni univoci, ognuno per proprio conto, ma non indipendentemente, perché cielo e terra sono interconnessi. Un segno cattivo in cielo, è anche cattivo in terra; un segno cattivo in terra, è anche cattivo in cielo.” ( Da una tavoletta di Scuola teologica di Babilonia ) Uno schianto improvviso distolse la sua attenzione, mentre era intenta a pestare dentro il piccolo mortaio di pietra le erbe raccolte in mattinata nella piccola piana sottostante. Sibilla abbandonò il lavoro. Si avvicinò sul bordo della grotta che dava sullo strapiombo e sbirciò fuori. Un grosso torello si era inerpicato chissà come lungo l’erta salita. Questa portava a quella che un tempo fu una torre del suo castello. Adesso era soltanto un’aspra ed alta pietra che proteggeva l’ingresso di quel che rimaneva del suo maniero. Il bovino apparteneva di sicuro alle mandrie dei Potamiòti che avevano eletto a loro territorio i pascoli impervi della Montagna Bianca. Poco probabile invece, che appartenesse ai Panduriòti, loro non si spingevano quasi mai oltre la Grande Pietra. Rispettavano il confine invisibile che dai vecchi Tempi delimitava il territorio che a lei apparteneva.

Gli animali ormai erano diventati i soli esseri viventi che le tenevano compagnia tra quelle forre abbandonate molti secoli addietro dagli Uomini. Lei viveva lì da diversi millenni oramai, aveva assistito allo scorrere inesorabile del Tempo e degli eventi che si erano consumati tra quelle montagne. Ricordava ancora il suono delle voci degli Umani distribuiti su quel territorio selvatico quando era ancora la loro casa. Era vecchia Sibilla. La più piccola delle Sette Figlie di Lámia, una delle ultime rimaste ancora in vita. Delle altre non ne aveva saputo più niente, tranne di Scilla. Scilla viveva nascosta su un’altra montagna sul mare, di fronte all’isola dei Sicáni. Nascosta dentro una grotta da Lámia per sottrarla all’ira di Era. Era aveva già ucciso le altre sorelle. Scilla Urlava, lo malediceva quel mare ogni volta che vi s’immergeva e sfogava la sua rabbia contro gli incolpevoli e ignari marinai che vi si avventuravano. Erano rimasti in pochi i figli dei vecchi Numi che avevano abbandonato quella Dimensione, lasciando i semidei rimasti in balìa dei nuovi Dei che avevano preso il loro posto. Il loro Potere era cresciuto grazie agli Umani che avevano dimenticato così presto i loro Creatori. Avevano distrutto i vecchi Templi e dimenticato gli antichi riti, le consuetudini nate con loro. Nei secoli passati gli stessi umani le avevano fatto non poche visite. Desideravano ottenere responsi su quanto sarebbe avvenuto nelle loro brevi ed insignificanti vite. Attendevano che le nebbie del tempo squarciassero il velo mostrassero attraverso lei il Passato e il Futuro. Poche volte avevano capito. Poche volte le frasi che diceva erano state di facile comprensione, ma quelle poche volte gli eventi da lei vaticinati si erano rivelati terribilmente precisi. Arrivavano carichi di doni e di speranza, molto spesso accompagnati dal terrore che lei suscitava nei loro fragili e piccoli cuori, certi che avrebbero avuto dall’Oracolo la loro chiave del Mistero. Da quasi un millennio però, non riceveva più quelle visite. Un nuovo e potente Dio aveva occupato il cuore e le menti di quella gente. Li aveva spinti lontano da quei boschi, dai quei luoghi nascosti dove resistevano pochi e fievoli bagliori dei Tempi Antichi. Erano fuggiti via da quelle aspre montagne dove una volta volteggiavano le grandi aquile e i terribili grifoni, dove erano rimaste solo poche rovine, ultimi segni delle loro presenze. Di uno di loro, l’ultimo che era venuto, conservava il ricordo chiaro e netto, anche a distanza dei molti secoli trascorsi. Era arrivato sopra un grande cavallo nero, coperto da una veste di metallo che doveva servire a proteggerlo dagli attacchi dei nemici. Sudava copiosamente sotto i raggi roventi di Elios, in quella primavera inoltrata che aveva assunto da alcuni giorni le temperature torride dell’estate.

Lei invece aveva appena fatto in tempo a mutare aspetto. Si era trasformata in una capra dalle ampie corna, forma che utilizzava sempre, soprattutto per l’agilità e la velocità che le conferiva quello stato. Si mise a seguire il cavaliere fino alla Fonte nascosta. L’uomo sembrava conoscere bene il luogo, così sembrava dal passo spedito e sicuro con il quale si avvicinava al piccolo laghetto che raccoglieva le acque cristalline. Era ancora presto per trovarci le piccole Naráde e i Tritoni intenti a giocare lungo il ruscelletto che scompariva con piccoli salti nel vallone sottostante della fontana. Sibilla in veste caprina si inerpicò tra i fitti cespugli di erica, cercando di non dar nell’occhio allo straniero e in attesa di capire chi fosse. Dopo averlo osservato bere avidamente l’acqua che scendeva incanalata dentro una “ceramìda” lo vide dirigersi alla destra della fonte. Egli aveva individuato come se lo conoscesse da sempre il vecchio sentiero che da moltissimi anni nessuno aveva più percorso. Quello che portava a ciò che era rimasto del rudere in pietra della casa del Vecchio Pàpas che lo aveva abitato per qualche tempo diversi secoli addietro. « Ecco svelato l’arcano!» Pensò Sibilla nel vedere il giovane avvicinarsi alla pietra dove il vecchio aveva conficcato un pezzo di metallo. Era simile ad una spada con l’elsa in alto, lavorata con cerchi che terminavano in un semicerchio rovesciato che assomigliava ad una impugnatura. Lo vide unire le mani come aveva visto più volte fare al Vecchio Pàpas e lo sentì pronunciare le stesse parole che aveva sentito da lui. Parole strane, arcane, intrise di un mistero che lei non era mai riuscita a decifrare. Non aveva mai avuto potere sul Vecchio. In verità, davanti a lui perdeva il potere che le permetteva di trasformarsi. Le si rivelava per come era, una vecchia, molto avanti con gli anni che ogni tanto andava alla fonte per prendere dell’acqua. Lui le aveva detto di chiamarsi Silvestro, di essere un Pápas, un sacerdote del nuovo Dio. Le aveva raccontato che era fuggito dalla persecuzione di un Re potente che voleva ucciderlo. Ma anche il Pàpas aveva capito di trovarsi di fronte ad una Creatura con qualche Potere. Alle domande dell’uomo precise e puntuali, lei non riusciva a sottrarsi. Aveva mentito, per quanto poteva, cercando di celare quanto più possibile l’essenza della sua Natura Antica. Un giorno arrivarono al piccolo rifugio del vecchio molti soldati, lo presero e di lui e del suo destino non ne seppe più niente. Sicuramente il cavaliere era stato indirizzato da qualcuno. Qualcuno che sapeva del Vecchio. Magari il Vecchio aveva raccontato della Maga che abitava quelle montagne lontane ed inaccessibili. Forse quel cavaliere solitario era venuto per lei. Cambiò nuovamente forma, riacquistando il suo aspetto umano e si avvicinò alla fonte, dove il cavallo al vederla emise un nitrito tale da richiamare il cavaliere. Vedendola avvicinare, non si meravigliò più di tanto, confermando a Sibilla il sospetto che aveva avuto poco prima. «Allora era tutto vero!» Esordì il giovane, che da vicino dimostrava i pochi anni d’età, nascosti da una rada peluria che gli ricopriva il viso. Poi s’inginocchiò al suo cospetto. « Chiedo perdono mia Signora, se ho disturbato la quiete della tua dimora, ma ho fatto molto cammino per arrivare fino a qui e non sapevo se avrei trovato quello che sembrava un Mito, o una favola, di quelle che si raccontano ai bambini nelle fredde serate d’inverno per farli dormire. Sei tu l’Antica Signora di questo Regno che conosce quello che è stato e quello che deve ancora avvenire? Sei tu l’Oracolo che riesce a scrutare nel Tempo e nei suoi Misteri?» Era tanto che Sibilla non sentiva una voce umana risuonare in quei luoghi. Ci mise qualche secondo a decifrare le parole del cavaliere e il suo sguardo fisso, mentre le ginocchia premevano la terra. «Cosa cerchi giovane guerriero in queste montagne sperdute dove vivono soltanto animali selvatici e uccelli rapaci e questa vecchia pazza che incute timore e paura ai temerari che si arrischiano al suo cospetto? Cosa ti ha spinto fino a me? Parla dunque!» «La tua fama e il tuo segreto mi sono stati rivelati da una leggenda che si racconta ancora oggi tra i Cavalieri di Re Carlo» – rispose il cavaliere «essi mi hanno raccontato delle tue doti di Maga e di veggente, che tu e tu soltanto mi puoi essere d’aiuto. Mi chiamo Guerrino e sono alla ricerca dei miei genitori, che non ho mai conosciuto. Nessuno ha saputo dirmi chi fossero e dove avrei potuto trovarli. Confido nella tua benevolenza sicuro che tu possa disvelare la verità sulla mia nascita!» Poi, prese un fagotto di stoffa dal cavallo e lo aprì ai suoi piedi, svelando dei gioielli e delle pietre preziose. «Ah,» pensò Sibilla, «quanto sciocchi e incomprensibili sono gli Umani, che credono che qualche pietruzza luccicante e del metallo per loro prezioso, possano ripagare i servigi di una Dea!»

Ma decise di aiutarlo e non per tutto il cammino che il cavaliere aveva percorso pur di incontrarla, ma perché in fin dei conti nessuno mai se ne era andato via senza aver ottenuto da lei un responso. La sua giovane età le ispirava strane ed inspiegabili sensazioni materne. Gli recise una ciocca dei capelli intimandogli contemporaneamente di attenderlo presso la fontana per tutto il tempo che sarebbe occorso per ottenere il responso richiesto. Lontana dal suo sguardo si trasformò di nuovo in capra e con pochi e agili balzi si inerpicò fino alla sua caverna, lì si mise ad armeggiare con i funghi, erbe, foglie di alloro essiccate unite ai ciuffi di capelli. Il tutto serviva per penetrare nello stato mistico che le avrebbe provocato visioni divinatorie. Mise il composto dentro un piccolo braciere di pietra e dopo averlo acceso, ne inspirò profondamente i fumi che ne scaturirono e si preparò ad entrare lì dove Passato e Futuro si mescolavano in un groviglio di immagini e voci. Sembrava non esserci logica apparente in quello scorrere del Tempo e dello Spazio che gli disordinatamente gli si svelava. In quel continuum dove le sensazioni arrivavano come onde. Plausibili o folli e irreali. Stava a lei riuscire a mettere ordine e a rendere comprensibili le risposte che le venivano da quelle visioni. Stava a lei trasformarle in parole dal senso più o meno chiaro. Era quasi sera quando tornò dal giovane Guerrino. Dopo averlo scrutato gli rivelò quello che aveva visto nel suo passato e cosa sarebbe accaduto nel suo immediato futuro. « Ho visto il padre di tuo padre cavalcare come te in queste contrade, al seguito di un Re potente. Egli combatteva contro guerrieri dalla pelle scura sotto una bandiera raffigurante una croce come quella che il vecchio Pápas adorava sulla pietra davanti alla sua dimora. Tu sei figlio di uno dei quattro figli avuti da lui. Il suo nome è Milone. Il Re per il quale ha combattuto lo ha fatto Principe della città di Taranto. È lì che lo troverai, così avrà termine il tuo lungo viaggio e la tua ricerca.» All’alba del giorno seguente il giovane cavaliere ripartì, dimenticando o lasciando volutamente vicino alla Fontana, i gioielli recati in dono a Sibilla. Da quel giorno, riscoprendo una femminilità insospettata, la donna iniziò ad indossarli, in ricordo di quel giovane Cavaliere, di quell’ultimo umano con cui aveva scambiato delle parole. Li aveva osservati per gli anni e i secoli seguenti, i pochi Umani che arrivavano vicino alla sua grotta. Erano quasi sempre pastori alla ricerca di qualche animale perso tra quelle rocce. Aveva osservato i Pápas solitari, che portavano una veste di lana grezza con un cappuccio che lasciava scoperto il capo rasato sopra le folte barbe incolte. Abitavano come lei nelle caverne scavate nelle rocce vicino alla Grande Pietra, rifugio che con le sue insenature e i suoi crepacci servivano da riparo anche alle bestie selvatiche nei giorni in cui Zeus scagliava i suoi fulmini dall’Olimpo ed Eolo slegava l’otre dei venti ad inseguire e percorrere le nubi cariche di pioggia sotto un cielo buio avaro di stelle. Della vecchia casa vicino alla Fonte rimaneva solo qualche pietra.

La croce arrugginita caduta dalla pietra era stata trovata da un pastore che cercava un vitello disperso. Quella Croce adesso era venerata dentro un Tempio dedicato ad una nuova Dea che regnava su quelle montagne attirando carovane di gente nelle calde giornate di fine estate, con processioni di suoni e di canti, che si sentivano fino dalla sua grotta. Ormai diventata una spelonca dalla quale ogni tanto una vecchia capra dalle ampie corna scendeva con salti sicuri ad osservare incuriosita, nascosta dalla fitta vegetazione, quella nuova Umanità ignara del suo Passato e di un Futuro incerto nascosto nelle pieghe del Tempo.

 

By: Mimmo Catanzariti

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