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Calabria misteriosa; i racconti del focolare…

Che la Calabria fosse piena di miti, leggende e misteri è cosa ormai assodata! La fantasia dell’uomo ha sempre cercato di trovare delle spiegazioni logiche a strani fenomeni che insistono su luoghi, castelli, borghi e foreste dell’intero territorio, così come in ogni parte d’Italia non è difficile trovare storie di spiriti, fantasmi e strane creature.

Oggi ci focalizzeremo sui misteri che si tramandano per generazioni nella nostra regione e che sembrano in qualche modo, condurci in atmosfere e tempi lontani, in un passato che ancora esiste e vuole esistere nel nostro immaginario.

Sono gli anziani che ci consentono di fare un passo indietro nel tempo alla scoperta di storie e vicende che vuoi o non vuoi, rimangono ancora incarnate dentro quelle mura precarie che hanno attraversato secoli di vita e vicissitudini dai contorni indefiniti e dai significati simbolici profondi.

Tra le leggende che ancora oggi si tramandano di generazione in generazione nella nostra Regio emerge quel forte senso di appartenenza ad un passato le cui leggende erano parte integrante della vita quotidiana, che aveva una concezione sicuramente più simbolica che altro.

PROVINCIA DI REGGIO CALABRIA

REGGIO CALABRIA: La Fata Morgana

Sulle rive dello Stretto, dal “chilometro più bello di Italia”, come definì il lungomare di Reggio Calabria D’Annunzio, si può osservare la Fata Morgana, un fenomeno ottico simile a un miraggio che si può vedere dalla costa calabra quando aria e mare sono immobili. La costa siciliana, vista da quella calabrese, sembra distare pochi metri. Si possono distinguere molto bene le case, le auto e addirittura le persone che camminano nelle strade di Messina. Il tutto avviene quando sulla superficie del mare, minuscole goccioline di acqua rarefatta, fanno da lente di ingrandimento. Si racconta che al tempo della conquista normanna di tutto il Sud, avendo gli Altavilla compiuto l’unificazione di tutta la parte meridionale della penisola, Ruggero di Altavilla, meditasse sulla conquista della Sicilia. Fu così che la Fata Morgana lo tentò, facendogli avvicinare la costa siciliana a pochi metri. Ruggero, però, non accettò l’aiuto della fata, non volendo prendere l’isola con l’inganno. E così, senza l’aiuto del sortilegio, impiegò ben 30 anni per completarne la conquista. Un’altra leggenda racconta di un capo barbaro, che, arrivato a Reggio, bramasse di prendere l’isola siciliana. Una bella donna gli si presentò e gli fece toccare con mano l’isola. Convinto di poter passare lo Stretto con una breve nuotata, il condottiero barbaro scese da cavallo e si tuffò in mare. subito la fata ruppe l’incantesimo e il capo barbaro affogò miseramente in mare. In realtà, consisterebbe in un fenomeno visivo che si verifica in particolari condizioni atmosferiche. Un’illusione ottica dovuta ad un’inversione di temperatura negli strati bassi dell’atmosfera, quelli che sono a contatto con il mare, soprattutto nelle prime ore del mattino, quando il cielo è più terso, a causa della diversa densità dell’aria; dalla sponda è possibile vedere le immagini dell’altra costa riflesse e persino moltiplicate dal mare, trasformato in un immenso specchio.

Pentedattilo (RC) La stage degli Alberti

In provincia di Reggio Calabria, incastonato tra le montagne del versante jonico dell’Aspromonte, sorge Pentedattilo, il nome stesso del piccolo borgo prende il nome da una conformazione di roccia sulla quale si innalza simile ad una mano gigante (dal greco penta daktilos, ovvero cinque dita). Edward Lear, celebre artista e scrittore e viaggiatore inglese, nel suo “diario di un viaggio a piedi” parla della bellezza del luogo e delle sue meravigliose rocce, maestose e selvagge. Ecco come appariva al visitatore il piccolo borgo verso la metà dell’800. <<selvagge sommità di pietra spuntano nell’aria, aride e chiaramente definite in forma (come dice il nome) le case di Pentedattilo sono incuneate all’interno delle spaccature e dei crepacci di questa spaventosa piramide selvaggia, le abitazioni alla sua superficie consistono in poco più che un piccolo villaggio>>. Durante il periodo greco-romano il piccolo borgo era tutt’altro che un “paese fantasma” rappresentando un fiorente centro economico per tutta l’area circostante. l’epoca bizantina per Pentedattilo ha rappresentato l’inizio di un declino causato dai continui saccheggi da parte dei saraceni. A seguito della conquista dei normanni per volere del Re Ruggiero d’Altavilla il paese divenne uno dei possedimenti della famiglia Abenavoli. Nel 1783 ci fu il terremoto, che devastò gran parte del territorio reggino, di cui alcuni abitanti usarono alcune macerie del castello per poter rinforzare le abitazioni. Il terremoto ed alcune scosse di quell’anno contribuirono all’allontanamento degli abitanti stessi. negli anno ’90 Pentedattilo incominciò ad essere popolato grazie all’aiuto di alcuni volontari che avviarono un lento percorso di recupero cosicchè ha portato il borgo ad essere un centro artistico e culturale di notevole valore. Il barone di Montebello, Bernardo Abenavoli e la famiglia degli Alberti sono i protagonisti della famigerata “strage degli Alberti “ da cui derivano le storie e leggende che avvolgono ancora oggi Pentedattilo. I protagonisti di questa storia sono due giovani innamorati di due famiglie, di cui non scorre buon sangue. Si racconta che tra la famiglia Alberti, marchesi di Pentedattilo, e la famiglia Abenavoli marchesi di Montebello Ionico, vi era una rivalità per questioni legate ai confini comuni. nel 1680, il Vicerè di Napoli desiderava che nelle zone regnasse pace, ma la tensione tra le due famiglie andava scemando. Il capostipide della famiglia Abenavoli, Bernardino, aveva intenzione di prendere come moglie la figlia della famiglia Alberti, Antonietta, di cui si era innamorato e di cui aveva il suo amore corrisposto. Il Marchese Domenico Alberti aveva promesso la mano della propria figlia a Bernardino Abenavoli solamente quando essa avesse raggiunto l’età per il matrimonio. Alla morte del Marchese Domenico, poco prima della morte, del padre gli succedette al figlio Lorenzo di sposare la figlia del Vicerè di Napoli Caterina Cortez. Fu in occasione del matrimonio il Vicerè di Napoli accompagnato dalla moglie, con la futura sposa e il fratello Don Petrillo Cortez che Don Petrillo trattenutosi per il matrimonio a causa della sua malattia ebbe modo di conoscere Antonietta e di innamorarsene, chiese quindi Lorenzo di poter sposare Antonietta e il Marchese Alberti consentì le nozze, non tenendo in considerazione la promessa del padre al barone Bernardino. Il Barone, venuto a conoscenza del matrimonio tra Don Petrillo e Antonietta, si vendicò contro la famiglia Alberti. La notte di pasqua il 16 aprile 1686, grazie al tradimento di Giuseppe Scrufari, servo infedele della famiglia Alberti, riuscì a introdursi nel castello arrivando alla camera di Lorenzo e lo uccisero, addirittura i suoi uomini andarono in altre stanze uccidendo un bambino di soli nove anni nonchè fratello di Antonietta. Da questa sanguinosa strage vennero risparmiati Caterina Cortez, Antonietta Alberti, la madre Donna Giovanna e don Petrillo Cortez. Quest’ultimo fu preso come garanzia contro eventuali ritorsioni da parte del Vicerè di Napoli. Dopo la strage, Bernardino portò Antonietta al castello a Montebello e la sposò il 19 aprile 1686. ll Barone di Montebello grazie a vari espedienti, riuscì a fuggire con Antonietta, e dopo averla rinchiusa in un convento a Reggio Calabria, scappò prima dai cugini a Brancaleone e poi salpò per Malta dove trascorse qualche periodo per poi dirigersi a Vienna dove si arruolò nell’esercito Austriaco. Bernardino trovò la morte in battaglia nell’agosto del1692 mentre Antonietta, cui matrimonio venne sciolto dalla sacra rota in quanto contratto per effetto di violenza, finì i suoi ultimi istanti di vita rinchiusa in un convento addolorata e triste perchè si era resa conto che era stata lei la causa per la fine della sua famiglia.
Si dice che nelle notti tempestose, dalle guglie del monte dove insisteva il complesso del castello, si odono delle urla, e una mano insanguinata ancora sia visibile tra le rocce che sovrastano l’area del castello.

Brancaleone (RC) i saraceni dell’antico castello di Capistrello

A Brancaleone esiste un antico maniero chiamato Capistrello (posto sull’altra sponda del torrente Altalìa che separa le colline di Pressocito e Brancaleone. Si racconta infatti, che in questo luogo i Saraceni convivessero pacificamente con gli indigeni locali e che questo castello che fosse collegato da un ponte sospeso che lo collegava all’ antica “Sperlinga” (ovvero Brancaleone), questo ponte veniva costruito di giorno e distrutto di notte per paura che i saraceni saccheggiassero Brancaleone. Una notte di tanti secoli fa, questi saraceni si recarono in paese per compiere razzìa, credendo fosse Pasqua, ma avendo sbagliato settimana e non trovando nulla da saccheggiare tornando indietro a Capistrello urlando sconsolati alle loro donne questa frase: “scucinè scucinè ca non è pasca, ma è iornu i frasca”  che tradotto starebbe a significare “non cucinate, che oggi non è Pasqua me giorno delle Palme”.

Bova (RC) L’impronta della Regina ed il tesoro del castello

Nell’antico borgo di Bova esiste un castello Normanno scavato sulla roccia le fonti descrivono di un imponente castello fondato in epoca normanna e potenziato nel 1494 dagli Aragonesi. Il castello era costruito su una roccia e gli ambienti ancora esistenti era fatti su tre livelli di cui al piano inferiore c’era un grande “salone” al quale si accedeva attraverso un lungo corridoio al piano superiore due stanze e ancora più in alto vi era una cappella rettangolare e coperta con volta a botte e affrescata, di cui ancora oggi rimangono le tracce. Intorno al castello sono nate diverse leggende, si narra infatti che tra le rovine del maniero, si trova l’orma del piede di una donna che la leggenda vuole sia appartenuto alla Contessa Matilde di Canossa, e che se l’orma di una fanciulla corrispondesse alla stessa, questi avrebbe scoperto di discendere da questa nobile stirpe. Un’altra leggenda parla dell’orma della Regina e diceva se il piede di una fanciulla avesse combaciato perfettamente a quello della Regina la roccia si sarebbe aperta, facendogli scoprire un tesoro, protetto da un grande serpente, di cui su una di queste rocce che caratterizzano l’area del castello è rimasta una traccia incisa.

San Giorgio Morgeto (RC): Il Re Morgete, la Scala Beffarda e le Jovisse

Fiore all ’occhiello della provincia di Reggio Calabria, il borgo medievale di San Giorgio Morgeto resta tra i più caratteristici dell’entroterra calabrese, distintivo di una cultura, una storia da scoprire e da vivere; il profumo di tradizione e bellezza che si diffonde tra le vie antiche, i palazzi e i monumenti, la fierezza negli occhi della gente del posto, innamorata di questo piccolo paradiso culturale, sono ragione di orgoglio non solo per la provincia reggina, ma per l’intera regione. Maestoso e imponente, sulla cima del colle di San Giorgio Morgeto, regna sul paese e le valle sottostanti il Castello Normanno di Re Morgete, finestra su un panorama mozzafiato sulla piana del Tauro, con una vista che dal Monte Sant’Elia spazia fino a Capo Vaticano e che, nelle giornate più favorevoli, consente di intravedere in lontananza anche le isole Eolie. I ruderi di quella che era una possente fortificazione, sono stati e tutt’oggi sono sfondo di inquietanti e sconvolgenti leggende che gli anziani del luogo raccontano; una in particolare narra di come il Re Morgete, che in seguito alla sua morte veniva adorato come Dio, apparisse dal luogo della sua sepoltura ogni giorno, allo scoccare della mezzanotte, esclusivamente al popolo di Morgeto per predire eventi futuri. Una diversa versione narra che il Dio, dispensatore di oracoli, manifestasse le sue visioni da interpretare tra le mura del castello, al lume di fiaccole o della luna piena.

Non molto distante dalla chiesa dell’Assunta, si giunge in una delle particolarità urbanistiche medievali di San Giorgio Morgeto; Conosciuta con il nome “Scala Beffarda” essa è un particolare esempio di scalinata sfalsata e davvero singolare. Per la sua caratteristica unica nel suo genere, numerose leggende aleggiano attorno a questa scalinata che spesso sembra di percepire attraverso gli spifferi d’aria che tra gli stretti vicoli narrano storie e leggende incredibili.

Altra suggestiva leggenda riguarda le “Jovisse” (leggiadre figlie di Giove), che potevano vedersi aggirare tra i boschi intorno alla fortezza o per le stanze dell’antico maniero, mandando in confusione chiunque li avesse incontrate.

San Luca (RC) La leggenda della Principessa Atì

La leggenda del castello di Atì nasce sulle sponde orientali del mar Ionio, nella zona di San Luca (Pietra Castello. Qui, infatti, si notano distintamente le rovine di quello che fu l’antico castello di Atì. Questa fu fatto costruire da un Conte della città di Potamìa, distrutta da un violento terremoto nel ‘300, che aveva un carattere davvero scontroso ed arrogante. A causa dei suoi atteggiamenti, il conte si era fatto tanti nemici nella sua città. L’ennesimo litigio con un concittadino, però, finì male e quest’ultimo rimase ucciso. Per sfuggire alla vendetta dei parenti della vittima, così, il conte si costruì questo grande castello, dove si trasferì con la bellissima figlia Atì, che al contrario del padre aveva un carattere mite e amichevole ed un suo paggio, che dilettava i suoi padroni con le sue poesie e la musica del suo liuto. Il castello, costruito in un luogo praticamente inaccessibile, era dotato di un grande mulino a vento e di una cisterna per l’acqua piovana, permettendo ai suoi abitanti di rimanervi rinchiusi senza il pericolo di rimanere sprovvisti di cibo. Fra le mura del castello il conte smise di preoccuparsi dei suoi nemici, che pure di tanto in tanto giungevano nei pressi del ponte levatoio, costantemente chiuso, per urlargli cattive parole e per lanciare sassi e frecce contro le impenetrabili pareti della fortificazione. Il paggio e la dolce Alì, invece, anche a causa dell’isolamento dalla vita esterna, passavano molto tempo insieme e finirono per innamorarsi. I due cominciarono a vedersi in segreto, poiché lo spocchioso conte mai avrebbe concesso la mano della nobile figlia al modesto servo. I nemici del conte, tuttavia, erano sempre in agguato fuori dalle mura e per caso sentirono i canti innamorati che il paggio dedicava ad Atì. Così, dopo vari tentativi, riuscirono a far arrivare un messaggio al paggio in cui gli promettevano di eliminare il conte, che avrebbe sempre osteggiato il suo amore per Atì, se il ragazzo avesse fatto trovare loro il ponte levatoio abbassato. Il ragazzo, sdegnato, non ci pensò minimamente a tradire il suo padrone. Ma i giorni passavano e nel suo cuore cresceva l’insofferenza per un amore che doveva rimanere celato. Così un giorno compose una ballata religiosa che aveva come tema il tradimento di Giuda. I nemici del conte, incuriositi, accorsero alle mura e ricevettero un messaggio del giovane. Durante la notte del successivo venerdì, infatti, avrebbe cantato un verso che recitava le seguenti parole: «E disse Cristo agli Apostoli suoi, quando volete entrare sta solo a voi». Dopo aver recitato quelle parole, il paggio avrebbe abbassato il ponte, permettendo ai nemici del conte di entrare nel castello. Arrivati al venerdì successivo, il ragazzo così fece, finendo però nella trappola degli invasori che, oltre al conte, rapirono anche lui. Ma quando costoro andarono a cercare Atì, tuttavia, trovarono solo la sua stanza vuota. Sulla sua scrivania notarono una candela che illuminava il Vangelo, che era aperto alla pagina in cui san Matteo racconta il tradimento di Giuda. Delusi e arrabbiati, decisero di gettare il conte e il paggio giù dal dirupo per poi incendiare il castello. Della giovane Atì, invece, non si seppe più nulla. Molti pastori della zona, però, sono sicuri di aver intravisto nelle notti, una giovane e bellissima donna avvolta da un velo tra le rocce della scogliera. Dal fondo del burrone, invece, sorgerebbero ancora le grida dei fantasmi del conte e del paggio, che pagarono con la vita gli sbagli commessi in vita.

Samo (RC) Il brigante “Nino Martino” detto il “Cacciadiavoli”

Vissuto nel ‘500, se ne contendono i natali e le gesta sia la provincia di Reggio che quella di Cosenza (anche se le ragioni di Reggio sono storicamente maggiormente fondate). Nino Martino fu talmente celebre che intorno alla sua figura fiorirono storie, ballate e racconti, come ad esempio una celebre ballata in dialetto silano. Brigante buono e generoso, leale e coraggioso, colui il quale vendicò i torti della gente e divenne a causa di ciò “santo”: per questo era ovviamente lo spauracchio dei nobili calabresi. Dopo anni passati fra le montagne, stanco di quella vita di pericoli e sangue, decise di tornare nel paese natìo, anche per poter riabbracciare la madre, da anni abbandonata ed odiata da tutti perché madre di un brigante. Un giorno, però, sentì la predica di un frate, e, raccolti i suoi compagni, li esortò a deporre le armi e si ritirò in un luogo solitario fra le montagne, suscitando dapprima l’incredulità e successivamente il dubbio dei suoi compagni (che erano per altro consci del fatto che non sarebbero potuti entrare nel paese senza l’aiuto delle armi), i quali lo raggiunsero e lo denunciarono ai nobili che gli si lanciarono addosso crivellandolo a morte; coprirono poi il suo corpo con dei sassi e lo abbandonarono. La notizia della morte di Nino corse molto velocemente e giunse sino alle orecchie della madre che, profondamente affranta, andò con i nobili a recuperare sui monti il cadavere del figlio. Rimosse con le sue mani il mucchio di sassi e, come per incanto, trovò il corpo del suo figliolo ancora intatto, bello e roseo, come se fosse addormentato: le ferite sembravano petali di fiori, il suo volto calmo e rassegnato in un’espressione di pace eterna. Il corpo fu poi condotto presso la casa della madre che non ebbe però il coraggio di seppellirlo e lo depose così sotto la grande botte della sua cantina, per poterlo vedere sempre. Dopo dei mesi che il cadavere era stato posto lì, un giorno, la povera donna, non riuscì a spostare la botte e ne rimase profondamente sorpresa, poiché quell’anno non aveva fatto vino; in seguito l’aprì e notò che da essa zampillava invece un ottimo vino, che subito distribuì a chiunque lo richiedesse; notò poi che tale botte si riempiva costantemente, quasi fosse una fontana. Era tuttavia amareggiata, perché non poteva più vedere il volto del figlio, nascosto dietro la botte. Fece dunque chiamare un bottaio per far togliere il tappo della botte e capire quanto vino contenesse: uno spettacolo meraviglioso si presentò agli occhi del bottaio e della vecchia madre: in fondo alla botte era disteso, fresco e intatto, come se dormisse, il corpo di Nino Martino e da una delle sue ferite vicino al cuore era nata una pianta di vite che egli alimentava col suo sangue. Portava sui tralci una miriade di grappoli sempre maturi che si rinnovavano tutte le volte che la donna spillava il vino. Fu a causa di ciò che a Nino Martino venne in seguito dato l’appellativo di “Santo”, il santo dell’abbondanza, invocato dalla gente quando si calpestano i grappoli dell’uva, perché, attraverso il suo sangue, faccia avere abbondanza del prezioso liquido.

 

Palmi (RC) La leggenda di Donna Cànfora

Donna Cànfora gentildonna ricchissima, adorna delle più gentili virtù e di suprema bellezza. Amica fortuna l’aveva colma di beni: le sue vigne versavano ogni anno vino a flutti nelle ampie bigonce; su’ suoi campi sterminati biondeggiava sempre abbondante la messe; e lana e latte e burro le mandavano i prati della montagna, che nutriva per lei numerose mandrie di buoi e di capre. Di tanta ricchezza Donna Cànfora, tra le cui virtù fioriva grande la carità, teneva per sé il necessario e dispensava ai poveri il superfluo. Sicché dalla sua casa, benedetta da Dio, salivano le benedizioni dei miseri sfamati, delle fanciulle povere strappate da lei al disonore, dagl’infermi, ai quali mandava il vino più generoso delle sue cantine e la tela più fine delle sue casse. La fama di tanta carità volò per quella contrada e per altre ancora, e con essa la fama della bellezza di Donna Cànfora. Giacché, alta, dal profilo purissimo, dalle forme flessuose, circonfusa da un’intensa vita spirituale, piena di grazia e dignità, pareva ella uscita dallo scalpello di Prassitele. Si estese, dunque, così la fama, che schiere di poveri pellegrini picchiavano alla sua porta, mentre invano lanciavano su di lei frecce di amore legioni di cavalieri da lontani paesi a bella posta venuti. Non già che Donna Cànfora avesse cuore deserto di affetti, ché anzi era stata moglie amorosa, e la vita del marito aveva resa felice e con le grazie del corpo e più con la soavità dell’anima. Rimasta vedova, ella, giovanissima ancora, consacrò la fiorente bellezza alla memoria dell’infelice consorte. E a molti, i quali invaghiti di lei o delle sue ricchezze, la chiedevano in isposa, ella rispondeva, ragionando essere uno il marito dato alla donna da Dio, e a quell’uomo doversi ogni donna mantenere unita in ispirito; giacché, se i corpi muoiono e si disuniscono, non così gli spiriti, che sono immortali, e l’uno quindi non si distacca mai dall’altro. Sparsasi dovunque la nuova di così bella fedeltà, crebbe in tutti gli animi l’ammirazione già grande per donna tanto virtuosa; e dalle madri Donna Cànfora era additata per esempio alle figliuole e dai mariti alle mogli. Un giorno la cameriera di Donna Cànfora rincasò con una bella notizia. Era giunta dall’oriente una nave carica di seriche stoffe, di grosse gemme, di piume candide come la spuma del mare, di pelli, di tappeti rarissimi, di maioliche stupendamente dipinte. Tutti, patrizi e plebei correvan giù alla marina, per ammirare tanta dovizia di cose belle, esposte sulla corsìa della nave, alle murate, agli alberi, a prora, a poppa, dovunque, fra mille vivi colori.
– Son meraviglie, – diceva la cameriera a Donna Cànfora, la quale aveva abbandonato l’arcolaio per ascoltarla, – meraviglie che si vedono una volta sola nella vita. Andiamo, signora; troverete laggiù le vostre amiche, ché tutte sono accorse. Su, voglio vestirvi subito subito, venite…
Ma Donna Cànfora era assai triste quel giorno; aveva brutti presentimenti.
-Stamane, – disse – l’arcolaio cigolava troppo. Che ne dici? Non è un avviso del Signore?
Ma che dite?? L’arcolaio è unto da pochi giorni. E’ mai possibile che cigoli? E poi che avviso! Di che?
– Non so… – riprese a dire Donna Cànfora – mi batte il cuore; e più volte mi è paro di vedere qui, dinanzi a me, lui, il povero mio marito. Che sarà mai? Certo non bene…Io sento…come se dovessi morire.

Prima di uscire Donna Cànfora volle visitare tutta la casa; poi pregò inginocchiata la Madonna; sull’uscio si rivolse per dare alla pace, che abbandonava, un ultimo sguardo e finalmente si avviò sospirando. Sulla riva del mare, infatti, gran folla. La quale, appena Donna Cànfora comparve, si divise in due ali, per farvela passare in mezzo come un’amata regina. Il capitano della nave le andò incontro con viso sorridente, e le disse: La fama della vostra virtù, o madonna, giunse fino ai lidi più lontani dell’Arabia e della Persia, e la vostra visita, da noi aspettata, c’è premio, del quale non sappiamo come ringraziarvi. Donna Cànfora, cui il cuore palpitava sempre più forte, ringraziò e si lasciò guidare fin sulla tolda. Le magnificenze narrate dalla cameriera, rimasta sulla riva tra la folla, eran vere; ed ella andava ammirandole ad una ad una, accompagnata dal gentile capitano. A un tratto i sostegni si rompono, e la nave scivola sul mare: i remi son pronti, i rematori al loro posto, e la nave fila diritta come una freccia. Dalla riva s’alzano grida furibonde, imprecazioni disperate, e cento giovani gagliardi si slanciano nelle onde, per raggiungere a nuoto i finti mercanti, gli esecrati corsari. La patria si allontanava, circonfusa in un pulviscolo dorato, e il tumulto della spiaggia più non si udiva. Donna Cànfora pareva serena: un’aria di dignitosa rassegnazione era sparsa sul suo viso pallido. Chiese in grazia di esser lasciata libera un istante, per dare l’ultimo saluto alla terra natale; e diritta sulla poppa, gli occhi profondi e lucenti, guardava le curve delle montagne baciate dagli ultimi raggi del sole presso al tramonto. La brezza vespertina folleggiava con la candida veste, coi riccioli neri cadenti sulla fronte severa. Donna Cànfora guardò, guardò a lungo. Poi, sollevati gli occhi al cielo, come per chiedere perdono al Signore, si lanciò fra le onde. Il capitano della nave non ebbe il tempo di gridare e di accorrere, che già ella, abbracciata dal nuovo sposo, il mare, scomparve senza un lamento, senza un singulto.

Motticella di Bruzzano Zeffirio (RC) La leggenda della Rocca di San Fantino

Ci troviamo a Motticella piccola frazione di Bruzzano Zeffirio, dove vi abitano poco più che una manciata di abitanti per lo più anziani che si dedicano ancora con tanta passione e determinazione alla pastorizia e all’agricoltura. Il borgo sull’orlo del torrente Bampalona o Torno è dominato dal maestoso il Monte Scapparone (1058 mt s.l.m.). Proprio nelle vicinanze del paese, alle pendici del monte Fasoleria nel comune di Ferruzzano, vi è una località chiamata San Fantino.
La località è caratterizzata da un monolite di arenaria che si erge come un dito in uno scenario davvero unico al mondo, non distante dai resti medievali di chiese bizantine e antiche chiesette che costellano il territorio di Bruzzano Zeffirio. Si racconta che in località  “Junchi” tra i paesi di Motticella e Ferruzzano, nelle vicinanze della  “rocca di san fantino” vivesse un frate eremita di nome Phentino o Phantino, esperto nelle pratiche mediche delle piante medicinali e agricole, tanto che le genti del luogo spesso ricorrevano a lui per consigli relativi alle semine, potature, innesti ed tanto altro. A Mottticella viveva una bellissima ragazza di nobile famiglia, come in tutte le storie di paese pare che questa ragazza avesse un amante segreto per il quale il padre non fosse d’accordo alla relazione. un giorno la ragazza si accorse di essere in attesa di un figlio, certa che il padre non sarebbe stato contento decise di tenere nascosta la gravidanza. Un giorno si recò presso questo frate eremita a chiedere consigli, insieme convennero che poco prima del parto la ragazza si sarebbe recata presso il piccolo asceterio con la scusa che sarebbe andata a trovare alcuni perenti in un paese lontano da Motticella. e così accadde, la ragazza partorì un bel bambino, rimase con il frate per più di un mese finche’ il bambino non cominciò a nutrirsi di latte di capra. di tanto in tanto la donna si recava di nascosto sul luogo a trovare il bambino che cresceva sempre più  bello. un giorno il bambino si ammalò, forse di bronchite, ed il frate non riuscì a curarlo con le sue erbe tanto che di li a poco il bambino morì. A questo punto il frate disperato per l’accaduto si recò in cima alla rocca, pose il corpicino senza vita del bambino sulla cima e si mise a pregare pregare e pregare tanto con tutta la sua forza e tutta la sua fede, sperando in un miracolo divino. pregando e pregando si addormentò, e durante il sonno corvi e cornacchie mangiarono il corpicino del povero bimbo. Il frate al suo risveglio fece la macabra scoperta. Dopo alcuni giorni la ragazza si recò nuovamente a trovare il figlio, ma giunta da frate venne a conoscenza dell’orribile fine e in preda al dolore si avventò sul frate percuotendolo con forza fino a mordergli il naso. la donna ritornò a casa piangendo disperata, tanto che per il dolore diventò matta. infatti la famiglia della donna fu costretta a rinchiuderla in una stanza della casa senza finestre ) in pratica una cella, dove la ragazza vi rimase fino alla sua morte. Il frate invece, a causa dell’infezione del morso sul naso di li a poco morì anche lui. Sembra proprio che la rocca, nasconda un tesoro, e che pare fosse stato nascosto proprio da fra Phantino. Pare anche che che fosse un serpente (o un demone) a proteggerlo. La leggenda vuole che, per poter entrare in possesso di questo tesoro bisogna recarsi sulla rocca in una notte di luna piena con un neonato per sacrificarlo al serpente, uccidendo il bimbo e cucinarlo in una pentola mai usata prima, a questo punto, il serpente dovrebbe aprire la rocca lasciando accesso a questo tesoro, contenuto in un pentolone di rame colmo di monete d’oro e diamanti e rubini.

Roghudi (RC) Le Anarade ed il Drago

Tra le tante leggende che vengono tramandate dagli anziani di Roghudi ve n’è una che racconta la storia di particolari donne con i piedi a forma di mulo, che risiedevano di fronte al loro borgo, nella contrada “Ghalipò” e chiamate Anarade. Le Anarade, riposavano durante il giorno e di notte, a cavalcioni di un ramo di sambuco, andavano alla ricerca di uomini per accoppiarsi. Erano infatti solite modificare la loro voce, assumendo per esempio quella di un congiunto delle loro vittime. Cercavano di attirare le donne roghudesi che si recavano alla fiumara per lavare i panni, con l’intento di ucciderle e avere così i loro uomini. Gli abitanti del paese decisero allora, di chiudere il paese con tre cancelli sistemati in tre differente entrate, per proteggersi dalle Anarade, i cancelli sono tutt’oggi esistenti e sono quelli di Pizzipiruni, Plachi e Agriddhea. Non molto distante da Roghudi, sorge la frazione di Ghorio di Roghudi, anche questa completamente abbandonata. La caratteristica di questa frazione è rappresentata da un particolare masso da una forma particolare , nota come a Rocca tu Draku, il cui significato risale al termine ellenistico Draku che vuol dire occhio. Secondo le leggende di Roghudi, infatti, si tratterebbe della testa di un drago che sul colle custodiva un tesoro inestimabile. vicino la pietra della testa del drago è presente un’altra roccia particolare a forma di groppe. Secondo le credenze popolari si trattava delle sette caldaie o caddareddhi che permettevano al drago di nutrirsi. Il tesoro custodito dal drago, secondo le leggende di Roghudi, veniva assegnato soltanto a un combattente coraggioso, capace di superare una prova. Il cavaliere per poter ottenere il tesoro del drago doveva sacrificare tre esseri viventi maschio: un neonato, un capretto e un gatto nero. Nessuno ebbe mai il coraggio di sfidare il furioso drago fin quando un giorno venne alla luce un bambino con delle malformazioni, che venne affidato a due uomini affinché se ne sbarazzassero. Cosi i due uomini, pensando alla vecchia leggenda, decisero di prepararsi alla prova di coraggio per il sacrificio e ottenere il tesoro del drago. L’altare era pronto e il gatto e il capretto erano già stati sacrificati. Nel momento in cui stavano per uccidere il bambino, una violenta e improvvisa tormenta di vento scaraventò i due uomini contro le caldaie del drago, uccidendo uno dei due. In seguito nessuno osò sfidare il drago mentre l’uomo sopravvissuto visse in tormenta del diavolo fino alla fine dei suoi giorni.

PROVINCIA DI COSENZA:

Cosenza: U crucifissicchiu di Cosenza

Nella zona Arenella, a Cosenza, lungo il fiume Crati, si trova una chiesetta detta “U Crucifissicchiu”: il piccolo crocifisso, dove si venera un’impronta di una croce su una pietra posta sull’altare. Un giorno, una donna raccolse dal letto del fiume una pietra e se la portò a casa per i suoi domestici. La notte le venne in sogno Gesù e le disse di riportare la pietra nel luogo in cui era stata raccolta e di erigere una chiesetta in quel punto. Al mattino, la donna si accorse che sulla pietra era presente l’impronta di un crocifisso, segno che non era presente al momento della raccolta. La notizia fece il giro di Cosenza e si iniziò la costruzione della chiesa, dove sopra l’altare fu posta la pietra del crocifisso. Dal giorno della consacrazione della chiesa, mai, straripando, il fiume allagava la chiesa, limitandosi solo a lambire il piccolo edificio. Solo in un’occasione, una grande piena entrò nella chiesa, ma al calare delle acque, i fedeli trovarono accesa la lampada situata vicino al crocifisso, e nonostante la patina del fango segnasse che la piena era arrivata fino al soffitto, la lampada ardeva ancora e il crocifisso era pulito.

 

San Sisto dei Valdesi (CS): la leggenda di Marco Berardi

La storia di Marco Berardi è considerata da sempre molto affascinante. Risuonò attraverso i boschi della Sila, tramandata da padre in figlio, cantata da poeti e menestrelli, giungendo fino ai giorni nostri. “Giovane popolano, ma dall’ingegno eletto e di cuore caldo di amore patrio, e non amò in vita che la libertà, l’indipendenza, la grandezza vera della Calabria; non odiò che gli Spagnuoli, i Baroni, gl’Inquisitori. Inoltre, “Marco aprì il suo cuore ad una giovane valdese di San Sisto, figlia di Valdesi forse residenti nella località “Guardia” o nei suoi pressi” , e come vedremo poi, “ Fu proprio l’amore per questa fanciulla a spingerlo a essere consigliere e guida di questi Valdesi della contrada “Guardia” che, per primi si ribellarono alle imposizioni dell’Inquisizione e che uccisero, persuasi e diretti da Marco Berardi, il Governatore di Montalto il “Barone de Castagnedo”. La rivolta di questo gruppo di Valdesi determinò la reazione della regia Corte e della Santa Inquisizione, che culminò con la cosiddetta “Crociata del Querceto” e l’eccidio dei Valdesi di San Sisto. Marco Berardi viene rappresentato nella storiografia come un uomo forte e coraggioso, difensore dei deboli. Egli era diventato un brigante non per avidità, ma per sete di giustizia. Dopo l’assassinio del Barone de Castagnedo, Marco Berardi fu fatto prigioniero, torturato e condannato ad essere arso al rogo. Con modalità ancora non note, Berardi riuscì ad evadere dalla prigionia ed a fuggire nei boschi con l’aiuto di alcuni abitanti di San Sisto e si diede alla macchia per i boschi della Sila dove radunò un esercito sempre più numeroso. Nel 1562 assunto il nome di Re Marcone riuscì a liberare tutti i paesi della presila dal dominio Spagnolo. Egli sognava di fondare una Repubblica Calabrese, con capitale Crotone, libera dal dominio spagnolo e dalla Santa Inquisizione, che avevano oppresso e causato lutti tra la sua gente. Nel 1563 tentò di conquistare la città di Crotone, combattendo contro l’esercito del Marchese di Cerchiara e, nonostante il suo esercito fosse numericamente inferiore, riuscì a sconfiggerlo per tre volte. Fu scomunicato e sulla sua testa fu posta una taglia per fare in modo che venisse abbandonato dai suoi seguaci. La strategia dei suoi nemici risultò vincente, sfuggito al tradimento del suo migliore amico, con un numero di fedelissimi sempre più esiguo, si perde nella leggenda la vicenda della sua morte. Si narra che i corpi di Marco e Giuditta siano stati ritrovati abbracciati in una grotta della Sila ed il corpo del Re della Sila sia stato portato a Cosenza e issato sul campanile della Chiesa di San Francesco di Assisi per fare da monito a quanti volessero provare nuovamente la via della ribellione. Le sue idee però non sono state fermate e la sua leggenda aleggia ancora oggi nei vicoli di San Sisto e sull’altopiano della Sila.
(Fonte: DeaKalabria)

 

Cardinale (CS) La Baronessa Maria Erichetta Scoppa

Nel cuore delle Serre calabresi, a poco più di mille metri d’altezza, c’è un luogo misterioso e spettrale, e la storia legata a questo castello ha qualcosa ai confini fra verità e leggenda si tratta di Maria Enrichetta Scoppa, Baronessa di Badolato, ricca proprietaria terriera realmente esistita a cavallo fra Otto e Novecento. Oggi ciò che resta del Castello della Lacina, è un piccolo e affascinante maniero di origini cinquecentesche ormai in stato di rudere, ubicato in una zona chiamata “Chianu da Jannara”, nel territorio di Cardinale (Catanzaro). Si racconta inoltre che nei pressi del Castello ci fosse una chiesetta, forse sorta su un antico tempio rurale intitolato alla dea greca Hera Lacinia (venerata nel grande santuario di Capo Colonna, a Crotone), il che forse spiegherebbe il toponimo Lacina, ma in realtà del presunto tempio, non c’è alcuna traccia. Da oltre un secolo una leggenda locale ha reso la Baronessa Scoppa protagonista di vicende degne del famigerato Gilles de Rais. La Baronessa “storica”, nata nel 1831 e morta nel 1910, è in realtà nota alle cronache come una donna nubile di fervente religiosità che viveva nel borgo di Sant’Andrea Apostolo dello Jonio (Catanzaro) dove nel 1897 fece costruire il collegio e la chiesa della Congregazione del Santissimo Redentore, supportò diversi seminaristi, elargì doti a fanciulle povere, fece restaurare la chiesa madre e l’acquedotto di Niforio e lasciò il palazzo di famiglia in eredità alle Suore Riparatrici del Sacro Cuore, con l’impegno di fondarvi un Orfanotrofio. Tuttavia la leggenda le attribuisce un lato oscuro che proprio nel Castello della Lacina, indicato come sua residenza estiva, avrebbe trovato efferato sfogo. Si racconta infatti che la nobildonna, sebbene da giovane avesse fatto voto di verginità, andasse segretamente alla continua ricerca di esperienze erotiche e che allo scopo attirasse nel suo castello fra i boschi giovani e prestanti uomini dei dintorni con cui consumava torridi rapporti carnali, i suoi occasionali amanti pare venissero fatti puntualmente sparire nelle sabbie mobili presenti nel territorio circostante, affinché non rimanesse traccia delle inconfessabili abitudini della donna. Infatti pare che nei paraggi vi sarebbero delle zone paludose coperte di giunchi secchi, dette nel dialetto locale vizzichi o uocchie e mare, perché si credeva fossero in comunicazione col Mar Jonio. Si racconta che un tempo nell’area ci fossero colture di grano e che quindi non fosse raro il passaggio di carri trainati da buoi, a taluno dei quali pare sia capitato di finire risucchiato in queste subdole torbiere. Per la cronaca la sua fu dunque una vita da ricca latifondista, oltre che da donna afflitta da una esasperante forma esteriore di devozione religiosa, come tale vissuta fino a quel febbraio 1910 quando spirò a Villa Condò, non prima di aver lasciato i suoi beni alla nipote Enrichetta Di Francia, sposa del marchese Armando Lucifero. Una vita a cui si è ispirato il romanzo “La Lacina e il casino della baronessa” della scrittrice calabrese Rosina Andreacchi.

 

PROVINCIA DI CROTONE:

Le Castella (KR) Annibale e la Madonna sorella di sette.

Moltissime leggende sono legati al grande tempio di Hera Lacinia a Capocolonna, si narra che Tetiche avesse regalato ad Hera il promontorio e il “vago bosco” secondo l’espressione di Timeo; quello di suo figlio Achille in memoria dal quale le donne crotoniati usavano vestire di nero un giorno all’anno, e recatesi al tempio, manifestavano il loro dolore per la morte del grande Achille “alto nove cubiti”. Altro mito legato al tempio del Lacinio è quello di Elena, di cui, si narra, vi fosse una grande immagine dipinta, che il famoso pittore Zeusi aveva realizzato prendendo a modello le fanciulle crotonesi, la cui bellezza era proverbiale, e ritraendo di ciascuno i particolari più belli. La leggenda intorno al tempio di Hera Lacinia sono innumerevoli: per esempio, si narra che se qualcuno incideva il suo nome su una tegola del tempio, l’iscrizione sarebbe durata fino alla morte dell’uomo che l’aveva scritta, che nel vestibolo del tempio vi fosse un altare le cui ceneri nessun vento poteva smuovere e che Annibale vi avesse dedicata un’ara con l’iscrizione delle sue imprese in caratteri punici e greci. Il nome di Annibale è legato a Le Castella, che anticamente si chiamavano Castra Hannibalis, perché, si tramanda, che in questa località il condottiero cartaginese avesse posto i propri accampamenti e che qua fossero accaduti tragici avvenimenti. Pare infatti, che Annibale, avendo ricevuto da Cartagine l’ordine di ritirarsi, preparava l’imbarco delle sue truppe. Avendo con sé un contigente di mercenari italici e non volendo lasciarli liberi, nel timore che potessero passare al nemico, ordinò loro di accompagnarlo in Africa. Gli Italici si rifiutarono e Annibale, condotti sulla riva, li fece massacrare.
Ancora oggi il mito rivive rielaborato nelle leggende legate ai riti mariani. Una leggenda popolare racconta che la Madonna di Crotone è sorella della Madonna Greca di Isola e che, disperse in vari luoghi, vi sono in tutto sette sorelle. Al di ciò che la tradizione tramanda ed i sentimenti, tela leggenda rammenta senz’altro il mito della Pleiadi, delle sette sorelle diventate poi la costellazione che conosciamo.

PROVINCIA DI VIBO VALENTIA

Vibo Valentia; La leggenda di Scrimbia

Scrimbia è una zona della città, nei pressi del Duomo, dove sono stati rinvenuti tantissimi reperti archeologici. Una simpatica leggenda, così narra della Ninfa: “Scrimbia, era una giovane fanciulla ipponiate che non riuscendo a darsi pace per la morte del giovane amante, piangeva ininterrottamente. Gli dei, rattristati e commossi per il continuo suo piangere, la tramutarono in una sorgente di acque fresche ed abbondanti affinché abbeverasse tutta la città”. In suo onore fu costruita una fontana di cui, rimangono solo alcuni pezzi, mal collocati in un arido muro di cemento posto su Via A. De Gasperi . Con la Ninfa Scrimbia si apre il racconto storico scolpito da Giuseppe Niglia nel 1975, sulle porte del Tempo del Duomo della Città. Inoltre, a lei si è ispirato l’artista locale Reginaldo D’Agostino nel realizzare la statua collocata all’interno della vasca che si trova in piazza Martiri d’Ungheria o Piazza Municipio.
Nella seconda versione conosciuta si dice che Scrimbia era una ninfa che scorazzava felice nelle selve attorno ad Hipponion; poi un giorno patì la sventura d’innamorarsi d’un uomo senza essere ricambiata e per lo struggimento cominciò a consumarsi in un pianto senza fine. Gli dei, allora, ne ebbero pietà e siccome era un vero peccato fare andar perse tutte quelle lacrime, la mutarono in una sorgente perenne, quella che una volta scorreva liberamente sulla collina Ipponiate, rendendola ricca di piante sempreverdi, e che poi gli abitanti del centro Magnogreco incanalarono fino ad un fontana, tutt’ora esistente, per sfruttarla come inesauribile risorsa idrica.

I sette martiri di Vibo Valentia

Narrano i cronisti che la mattina dell’8 maggio (altri dicono 8 giugno) del 1508 sette teste umane penzolavano dai merli del castello Normanno di Vibo Valentia e i corpi erano attaccati alle mura. I nomi dei 7 “martiri” (così furono definiti dalla tradizione) sono: Giovanni Recco, Ortensio Recco, G. Battista Capialbi, Domenico Milana, Francesco D’Alessandro, Sante Noplari, Tolomeo Ramolo. Dopo l’eccidio e l’insediamento dei Pignatelli i nobili monteleonesi, in segno di protesta, si trasferirono a Tropea. La leggenda vuole che ogni notte dell’8 giugno fino al giorno in cui i martiri non furono vendicati, scendesse dal castello e percorresse le vie principali della città, un cavallo che lanciava terrificanti nitriti e sprigionava faville dagli zoccoli. Diana Recco, sorella e figlia di due martiri, allora aveva 12 anni essendo nata nel 1498 e dopo il fatto tragico emigrò anche lei con il resto della famiglia a Tropea . Arrivò alla fine il momento della vendetta: donna Caterina Recco, madre di Diana , con la complicità di alcuni nobili monteleonesi trapiantati a Tropea, fece invitare la figlia al seguito di Joannes Baptiste Spinellus, firmatario insieme al Barone Lo Tufo delle “Gratie e privilegi” concessi alla città di Monteleone da Ettore Pignatelli il 13 marzo 1504 cioè 4 anni prima della strage. Durante i festeggiamenti per le nozze di Margherita Lo Tufo, Diana, poco più che ventenne, uccise con il pugnale Giovanni (o Giacomo ) Lo Tufo nel palazzo baronale di Lavello in Lucania. Catturata venne processata e giustiziata.

San Gregorio d’Ippona (VV) La leggenda di Santa Ruba

A circa 2 km dal paese lungo la statale 182 verso Vibo Valentia sorge una chiesetta oggi chiamata Santa Ruba, che secondo una leggenda fu fatta costruire da Ruggero il Normanno per espiare un suo peccato confessato solo al fratello, papa Callisto II. Questa chiesa è costituita da una cupoletta centrale a forma di ombrello “lanciata con grazia sui tamburi cilindrici ornata di lesene e di merlatura” che ricorda l’architettura bizantina. La chiesa è circondata da una leggenda suggestiva. Si dice che essa doveva essere consacrata da Callisto II. Ma durante il suo viaggio verso Monteleone (oggi Vibo Valentia) Ruggero morì. Sua moglie Adelaide, per paura che il papa non avrebbe officiato la consacrazione e di perdere così la propria reputazione gli tenne nascosto, inventando delle scuse, la morte di Ruggero fino a cerimonia avvenuta. Callisto II sconvolto dal dolore la maledì dicendole che colui che gli aveva suggerito l’inganno le avrebbe roso il cervello. Adelaide, per paura, si fece costruire un sepolcro nella chiesa di Santa Ruba, con la pietra più pesante che esistesse. Ma il serpente penetrò lo stesso nel sepolcro rodendole il cervello. Così la leggenda vuole che il fantasma della contessa si aggiri per la chiesa e che durante le notti di tempesta si odano ancora le sue grida isteriche. Secondo un’altra leggenda, si crede che durante la dominazione francese a Monteleone (1806- 1815), i soldati nascosero un tesoro nella chiesa di Santa Ruba. Per ritrovarlo i cittadini di Monteleone e di Piscopio vi entrarono di notte e distrussero il pavimento poiché sognarono che il tesoro si trovasse dietro l’altare della Madonna, ma ad un certo punto furono colpiti da una pioggia di pietre e così fuggirono via. Si gridò al miracolo. Si crede anche che tale tesoro sia nascosto sotto la cupola e che solo tre fratelli riusciranno a recuperarlo ma soltanto uno di essi ne godrà visto che gli altri due moriranno.
Un’altra leggenda dice che la chiesa di Santa Ruba fu costruita da un ricco romano, in voto alla Madonna della Sanità per sfuggire alla pena del taglione. Si crede anche che la chiesa ed i suoi locali furono adibiti al Lazzaretto nel periodo delle epidemie e che Santa Ruba fosse una Santa orientale a cui i monaci Basiliani dedicarono la chiesa e il loro cenobio.

 

Si ringraziano: i volontari del Servizio Civile Universale di Brancaleone: Alessandra Sgrò, Antonino Guglielmini, Leonardo Condemi, tutti gli autori delle immagini, le fonti ed i vari siti per le informazioni utili fornite.

Riflessioni; l’alluvione del ’51 che colpì Africo e Casalinuovo

Sull’alluvione che nell’Ottobre del 1951 ha causato la tragica fine di Africo e di Casalnuovo, si sono spesi fiumi di parole, si sono dati giudizi contrastanti, ognuno l’ha giudicata in modo personale. Io cerco di dare il mio parere da storico, oltre che da africese, uno degli ultimi nati nella vecchia Casalnuovo d’Africo.
Indubbiamente, Africo ha avuto una storia difficile, storia di sacrifici e di terremoti, una storia complessa e complicata, una storia di gente povera e laboriosa, fiera e tenace, mai arrendevole, il cui punto nevralgico è rappresentato proprio dall’alluvione del ‘51, vero e proprio spartiacque di due mondi diversi e contrastanti: Africo “prima dell’alluvione”, Africo “dopo l’alluvione”.
La prima parte è rappresentata da secoli di vita fatta di grandi sacrifici e di poche gioie, durante i quali la gente africese percorre in maniera lenta e faticosa il duro percorso verso la modernità, adattandosi e accettando passivamente una vita vissuta ai limiti della sopravvivenza, come fosse stata decisa da un fato di greca memoria, che le abbia precluso ogni sorta di prospettiva di migliore futuro. In effetti, alla vigilia dell’alluvione (“fine anni quaranta”) Africo si dimena in una estrema condizione di povertà, economica, sociale, culturale. Pur dopo l’eclatante e (in parte) fruttuosa indagine-inchiesta del meritorio Umberto Zanotti Bianco che all’epoca, 1928, colpì in maniera eclatante l’opinione pubblica nazionale e mondiale, venuta a conoscenza delle tristi e degradate condizioni in cui versava la popolazione dei due centri, in realtà, ad Africo e a Casalnuovo nulla cambiato, se è vero, come è vero, che nel 1948 un’altra importante inchiesta promossa da “L’Europeo” ripropone la stessa situazione di degrado e di abbandono.
Sono passati vent’anni dalla venuta in Africo e Casalnuovo di Zanotti Bianco, c’è stata la guerra, la caduta di Mussolini e del fascismo, il nuovo assetto istituzionale rappresentato dalla Repubblica, che ha soppiantato la Monarchia.
Ebbene, Africo e Casalnuovo sono ancora fermi agli “anni venti”, come ci dimostra l’inchiesta di Tommaso Besozzi con il reportage fotografico di Tino Petrelli che mostrò al mondo una situazione non dissimile da quella rilevata nel 1928, come se il tempo si fosse lì fermato! Africo continua ad essere uno dei paesi più poveri, anzi, come dice il Besozzi, “il più povero, il più triste, il più infelice della Calabria”.
Ma, come nella Storia spesso accade, sono i grandi eventi straordinari, non previsti né prevedibili, penso alle guerre, ai terremoti, alle rivoluzioni, a ribaltare il destino dei popoli e a cambiare la vita e il percorso degli stessi.
Per i nostri due paesi, affratellati in una secolare condizione di vita misera e degradata, che sembrava immodificabile e perpetua, è l’alluvione l’evento straordinario che li affranca da quel destino che sembrava ineluttabile, ma che io ritengo altamente provvidenziale, favorevole. Da lì nasce e si sviluppa, infatti, un percorso che cambierà completamente, e in positivo, il corso e la qualità della loro vita, perché se da un lato quella traumatica tragedia, umana e ambientale, porta, per tutti, lutti e sacrifici d’ogni genere, dall’altro, e per il popolo di Africo e di Casalnuovo in particolare, rappresenta l’inizio di un percorso che, attraverso varie vicissitudini, li farà pervenire al loro attuale “status” di “paese al passo con i tempi”.
Certo, abbiamo dovuto pagare un prezzo molto alto, abbandonare i luoghi natii, lasciare per sempre l’amato paese dei nostri padri, piangere la morte di ben nove nostri compaesani (tre ad Africo e sei a Casalnuovo), peregrinare per anni come profughi in terra straniera, lottare allo spasimo per mantenere la propria identità di popolo, ma alla fine il risultato è positivo
E, infatti, se prima l’uomo africese (quando parlo di “africese” io intendo l’ “africoto” e il “tignanisi” messi insieme) aspetta con fatale rassegnazione il domani senza possibilità di cambiamento sostanziale con il passato, dopo i tragici fatti del ’51, invece, egli comincia a prendere, socraticamente, coscienza di se stesso e delle sue grandi potenzialità di incidere sul proprio destino, chiedendo e facendo prevalere i suoi diritti.
Sorgono così lotte che uniscono e che fanno in parte integrare questo popolo “venuto dalle montagne” con i paesi limitrofi. Gli anni post-alluvione sono anni difficili, la ricostruzione fisica e morale in marina è lenta, ma col tempo il popolo africese riesce ad emergere dal grigiore in cui era abbandonato e a pervenire ad una condizione socio-economica onorevole, mettendo i suoi figli in condizione di poter raggiungere grandi obiettivi nei più svariati campi della società.
Se, oggi, siamo quello che siamo, lo dobbiamo a quel tragico, traumatico e luttuoso evento, e, per questo, non dobbiamo cadere nella trappola della dimenticanza e dell’oblio. In questo contesto mi duole rilevare che siamo, inavvertitamente, divenuti una comunità “smemorata”, quasi irriconoscente verso quel mondo antico da cui deriviamo. I giovani poco o nulla sanno del passato del nostro popolo, perché abbiamo, tutti quanti noi, colpevolmente, trascurato di trasmettere la nostra memoria storica nella maniera più opportuna e necessaria.
Non basta partecipare, annualmente, ai pellegrinaggi del 18 Ottobre (“Commemorazione Alluvione ’51”) o del 5 maggio (“San Leo”), per comprovare l’amore per il proprio paese o per onorare i propri avi! Sarebbe, invece, più opportuno attivamente adoperarsi per il recupero dei due borghi scomparsi, oggi divenuti ruderi invasi dalla vegetazione o per introdurre lo studio della millenaria storia di Africo e di Casalnuovo nella Scuola Media cittadina, ma, soprattutto, per ristrutturare la odierna odonomastica urbana, “in toto”, oggi, dedicata a persone e personaggi che con l’identità e gli interessi della comunità africese non hanno alcun legame. Quanto sarebbe bello, e più utile, che i giovani d’oggi e le generazioni future, percorrendo le vie del paese o, magari, sostando nelle piazze cittadine, potessero, virtualmente, “incontrare” e “dialogare” con i molteplici protagonisti della millenaria storia africese persone che “si sono spese” per il proprio paese!
Tutti noi conosciamo, a ragione, quanti furono i re di Roma e, tranquillamente, snoccioliamo i loro nomi; ricordiamo, giustamente, con facilità scrittori, poeti e artisti vissuti secoli fa; sappiamo il nome di chi è stato il primo uomo a toccare il suolo sulla Luna o, per restare “in loco”, conosciamo la “Villa Romana” di Casignana o i famosi “Bronzi di Riace”.
Non conosciamo, invece, i nomi dei nostri “nove eroi” (tre di Africo e sei di Casalnuovo), tra i quali spicca quello di una giovane donna di diciotto anni, Annunziata Sculli, tragicamente caduti in quella fatidica alluvione del ’51 e verso i quali manca, ad oggi, quell’opera di consacrazione che la loro triste fine avrebbe meritato. Quanto sarebbe bello intitolare una via, una piazza, una istituzione comunale al sacrificio dei “nove caduti”, con una “Via Vittime dell’Alluvione del ’51” o “Piazza dei Nove caduti nell’Alluvione ’51”. Diventerebbero, essi, immortali!
Sarebbe la maniera più onesta e sacrosanta che il popolo di Africo possa fare per onorare e ricordare il loro santo sacrificio!!! Varrebbe di più e meglio di tante celebrazioni, pur necessarie, ma valide e utili solo a fini formali e rievocativi.

Il borgo di Casignana, tra Storia e fascino

Casignana ha origine dall’antica borgata Potamìa, fondata tra il IX e il X secolo dalle popolazioni joniche che, a causa delle invasioni saracene, abbandonarono le proprie terre. Il piccolo centro, costruito su un’alta rupe, era dominato da un imponente castello dal quale si potevano sorvegliare le vie carovaniere che andavano da Pietra Lunga a Pietra Cappa. Nel 1349, però, un violento terremoto distrusse quasi completamente il centro abitato e parte dei cittadini furono costretti a cercare rifugio nelle zone circostanti.

I profughi, dunque, fondarono il paese di Casignano (modificato in Casignana nel XVIII secolo). Successivamente i cittadini rimasti a Potamìa abbandonarono definitivamente le proprie case e diedero origine all’attuale centro di San Luca.

Tra il 1496 e il 1589 Casignana fu casale della baronia di Condojanni (oggi S. Ilario dello Jonio) dalla quale passò in seguito alla famiglia Carafa, come avvenne anche a molti altri paesi vicini, per rimanere in suo possesso fino all’eversione dalla feudalità e il 19 gennaio 1807 fu elevata a Università nel governo di Bianco. Quattro anni più tardi (1811) il paese divenne Comune del circondario di Bianco.

Il centro storico di Casignana sembra essere costituito da due realtà opposte. Da un lato un borgo fantasma dove stradine sterrate si insinuano tra case in pietra ormai diroccate e cadenti; dall’altro il nucleo dell’abitato nuovo.

Palazzo Moscatello;

Si trova nella zona “Chiesa Vecchia o Matrice”, oggi rimane soltanto la struttura in pietra con balconcini in ferro battuto recentemente restaurata e riqualificata. Le finestre del piano superiore hanno cornici lavorate. Le calamità naturali e le epidemie succedutesi nel corso degli anni, in ultimo il terremoto del 1908 costrinsero i Casignanesi ad allontanarsi dal primitivo insediamento urbano e spostarsi più a monte, contribuendo alla nascita del nuovo borgo.

La Chiesa Matrice (San Giovanni Battista);

Nel cuore dell’antico nucleo urbano, fu probabilmente edificata nel XIV sec. l’edificio aveva una pianta di croce greca con cripta (la quale fu demolita, perché pericolante, in seguito al terremoto del 1908). Frammenti di marmo rinvenuti in situ, farebbero ipotizzare l’esistenza o la provenienza da un tempio pagano dedicato alla Dea Venere sul quale venne costruita la chiesa. Oggi è possibile ammirare ciò che rimane dell’altare e della cripta che era adibita a celebrare anche riti sacri.

Dal 1650 al 1820 divenne luogo di sepoltura dei fedeli. Con la Riforma Napoleonica, tale usanza fu poi vietata.

Della piccola chiesa dell’Annunziata, più a monte, non vi e più traccia.

La Chiesa di San Rocco;

L’edificio risale al 1773 oggi ospita la parrocchia di S. Giovanni Battista. Sono poche le notizie sulla struttura originaria. Si trattava probabilmente di una piccola chiesa a navata unica  in cui si venerava un quadro raffigurante San Rocco di Montpellier. La tela fu poi sostituita da una statua lignea del 1756 di scuola Napoletana scolpita in un unico blocco.

L’edificio fu danneggiato dal terremoto del 1783 ed in seguito ricostruita con l’attuale pianta a tre navate nel 1852 grazie alle offerte dei fedeli.

Nuovamente danneggiata dal terremoto del 1908 fu ricostruita e riabilitata al culto solo nel 1914. La chiesa è caratterizzata da una facciata in stile romanico su cui si aprono tre porte d’ingresso divise da due ordini di lesene.

Il portale principale è in legno con ampia cornice in muratura. Si accede alla chiesa attraverso una scalinata. All’interno nell’abside semicircolare, l’altare maggiore è arricchito in marmi policromi sormontato dalla statua della Vergine col bambino, probabilmente del XVII sec. circondata da due ordini di colonne corinzie. In alto la cupola decorata con stucchi di motivi floreali e angeli. Sul soffitto della navata centrale un dipinto raffigurante S. Rocco del 1914.

Nella navata destra un particolare Crocifisso sostenuto da angeli è datato 1925.

Sempre all’interno della chiesa due tele raffiguranti una la deposizione del Cristo e l’altra San Giuseppe, una delle quali viene attribuita ad Antonello da Messina.

Nella Chiesa, insieme a vari arredi sacri, si trovano inoltre frammenti di marmo di epoca medievale dal pregiato valore artistico, oltre ad una pregevole statua lignea di San Giuseppe, un crocefisso ligneo del XVII secolo e una campana del XV secolo.

Il culto di San Rocco di Montpellier

Le notizie sulla sua vita del santo sono molto frammentarie per poter comporre una biografia in piena regola, elaborando una serie di notizie sulla sua vita, sono state proposte alle date tradizionali del 1295-1327, quella che oggi sembra la più consolidata sembra essere il 1345- ‘50, morto a Voghera fra il 1376-‘79 molto giovane a non più di trentadue anni di età. Secondo tutte le biografie i genitori Jean e Libère De La Croix erano una coppia di esemplari virtù cristiane, ricchi e benestanti, ma dediti ad opere di carità. Rattristati dalla mancanza di un figlio, rivolsero continue preghiere alla Vergine Maria dell’antica Chiesa di Notre-Dame des Tables fino ad ottenere la grazia richiesta. Secondo la devozione il neonato, a cui fu dato il nome di Rocco (da Rog o Rotch), nacque con una croce vermiglia impressa sul petto. Intorno ai vent’anni di età perse entrambi i genitori e decise di abbracciare Cristo, vendette tutti i suoi beni, si affiliò al terz’ordine francescano.  Indossato l’abito del pellegrino, fece voto di recarsi a Roma a pregare sulla tomba degli apostoli Pietro e Paolo. Bastone, mantello, cappello, borraccia e conchiglia sono i suoi ornamenti.

Le statue di San Rocco lo rappresentano in veste di pellegrino, con il tabarro, il cappello a tesa larga, un bastone da viaggio a cui erano assicurate conchiglie per raccogliere l’acqua e una zucca vuota per conservarla, la bisaccia a tracolla. Altre statue di San Rocco lo raffigurano mettendo in evidenza le sue doti di guaritore:

egli era anche un ex studente di medicina, e così viene presentato con in mano le lancette che venivano utilizzate per incidere i bubboni della peste. E dal momento che anche lui venne contagiato, a un certo punto, viene presentato anche con i segni del morbo, una ferita sulla coscia che sembra stillare sangue.  Si dice che egli avesse una voglia a forma di croce sul petto, all’altezza del cuore, per questo i ritratti di San Rocco presentano spesso questo particolare decoro sugli abiti del Santo. Sempre nelle raffigurazioni di San Rocco troviamo un angelo e un cane: entrambi confortarono il Santo durante la malattia, il primo promettendogli la guarigione, il secondo portandogli ogni giorno un tozzo di pane perché potesse sostentarsi. Non è possibile ricostruire il percorso prescelto per arrivare dalla Francia nel nostro Paese: forse attraverso le Alpi per poi dirigersi verso l’Emilia e l’Umbria, o lungo la Costa Azzurra per scendere dalla Liguria il litorale tirrenico.

Certo è che nel luglio 1367 era ad Acquapendente, una cittadina in provincia di Viterbo, dove ignorando i consigli della gente in fuga per la peste, il Santo chiese di prestare servizio nel locale ospedale mettendosi al servizio di tutti. Varie tradizioni segnalano la presenza del Santo a Rimini, Forlì, Cesena, Parma, Bologna. Certo è che nel luglio 1371 è a Piacenza presso l’ospedale di Nostra Signora di Betlemme.

Qui proseguì la sua opera di conforto e di assistenza ai malati, finché scoprì di essere stato colpito dalla peste. Di sua iniziativa o forse scacciato dalla gente si allontana dalla città e si rifugia in un bosco in una capanna vicino al fiume Trebbia. Qui un cane simile ad un Épagneul Breton lo trova e lo salva dalla morte per fame, portandogli ogni giorno un tozzo di pane, finché il suo ricco padrone seguendolo scopre il rifugio del Santo. Intanto in tutti i posti dove Rocco era passato e aveva guarito col segno di croce, il suo nome diventava famoso. Tutti raccontano del giovane pellegrino che porta la carità di Cristo e la potenza miracolosa di Dio. Dopo la guarigione San Rocco riprende il viaggio per tornare in patria.

Le ipotesi che riguardano gli ultimi anni della vita del Santo non sono verificabili. La leggenda ritiene che San Rocco sia morto a Montpellier, dove era ritornato.

E’ invece certo che si sia trovato, sulla via del ritorno a casa, implicato nelle complicate vicende politiche del tempo: San Rocco è arrestato come persona sospetta e condotto a Voghera davanti al governatore. Interrogato, per adempiere il voto non volle rivelare il suo nome dicendo solo di essere “un umile servitore di Gesù Cristo”. Gettato in prigione, vi trascorse 5 anni, vivendo questa nuova dura prova come un “purgatorio” per l’espiazione dei peccati. Quando la morte era ormai vicina, chiese al carceriere di condurgli un sacerdote; si verificarono allora alcuni eventi prodigiosi, che indussero i presenti ad avvisare il Governatore. Le voci si sparsero in fretta, ma quando la porta della cella venne riaperta, San Rocco era già morto: era il 16 agosto di un anno compreso tra il 1376 ed il 1379.  San Rocco fu sepolto con tutti gli onori. Sulla sua tomba a Voghera cominciò subito a fiorire il culto al giovane Rocco, pellegrino di Montpellier. Il Concilio di Costanza nel 1414 lo invocò santo per la liberazione dall’epidemia di peste ivi propagatasi durante i lavori conciliari.

Secondo la tradizione San Rocco (patrono di Casignana) avrebbe salvato il paese da una terribile pestilenza. In seguito a questo avvenimento fu fondata la confraternita di San Rocco, attiva ancora oggi. Le prime notizie storiche su questo gruppo religioso risalgono al 1894, anno in cui il vescovo Mangeruva ne approvò lo statuto. Dopo la strage di Casignana del 1922 la confraternita si sciolse ricostituendosi soltanto nel 1945. Oggi conta circa quaranta associati e ha un proprio gonfalone.

La Villa Romana in Loc. Palazzi;

Adagiata lungo l’antico itinerario che collegava Rhegion a Locri Epizefiri si trova la Villa romana di età imperiale (risalente circa al I secolo d.C.), in contrada Palazzi: un’area di circa 8.000 mq composta da circa venti ambienti disposti intorno ad un cortile centrale in cui sono presenti terme, una fontana monumentale, le latrine e un giardino decorato a mosaico. Si tratta di uno dei siti archeologici più importanti dell’Italia meridionale, fra quelli di maggiore interesse di tutta la Calabria e conserva splendidi mosaici di grande valore artistico. Il complesso sorge tra Bianco e Bovalino, lungo la Statale 106 affacciato sulla costa del Gelsomini.

Un luogo che trasuda storia e arte, venuto alla luce quasi per caso nel 1963 durante dei lavori per la costruzione dell’acquedotto. Ma è solo alla fine degli anni ’90 che il sito viene interessato dai primi scavi e interventi di restauro.

La villa, probabilmente di proprietà di un console romano, si arricchisce di due grandi aree termali (orientali e occidentali), impreziosite da mosaici pavimentali di grandissimo pregio, composti da marmi policromi provenienti dalla Grecia e dall’Asia Minore e raffiguranti immagini mitologiche quali le Nereidi, le Quattro stagioni, Bacco. Oltre alla sala “absidata” che è l’ambiente più grande che è stato scoperto, la villa si compone anche della “Sala delle Nereidi”, “Sala di Bacco” e “Sala delle quattro stagioni”. Gli studi e le ricerche condotte negli ultimi anni, consentono di stabilire che il complesso sia stato abitato almeno fino al VII secolo d.C..

Di rilievo, inoltre, specie per il contributo fornito agli studi sul culto dei morti in epoca romana, è l’area della necropoli in cui sono presenti tombe ancora integre.

Le Grotte Preistoriche (Loc. Varta)

Caverne naturali, con vestigia d’insediamenti risalenti all’ultima Età della Pietra (Neolitico) e alla prima Età dei Metalli (Eneolitico). Come la Grotta di San Florio (San Grolio) nella collina sovrastante Casignana in  Loc. Faccioli, dove fino a qualche decennio fa, insisteva una grotta a più livelli, che sembra sia stata abitata da San Florio, originario di Samo, il quale giunse in questi boschi per condurre una vita ascetica nella preghiera ed in penitenza.

Purtroppo tra gli anni ‘50/’60 tale grotta venne distrutta per produrre pietre necessarie alla costruzione di un terrapieno per far passare la strada provinciale che oggi collega Casignana al resto del circondario di Bianco.

Le sorgenti di Casignana:

Casignana fu anche un centro conosciuto per le sue acque minerali medicamentose. Infatti a pochi km dal centro di Casignana in loc. Favate, vi è una sorgente termale ancora oggi in uso per le sue proprietà curative delle sue acque e dei suoi fanghi dalle peculiarità riconosciute anche da alcune strutture termali del territorio.

INFO E CONTATTI: Pro Loco Casignana ETS 

Stagione incendi 2022: nessun alibi è più ammissibile!

Già le prime giornate di giugno ci consegnavano la prima afa della stagione e con gli incendi di questi giorni, le immagini dell’estate scorsa si riaccendono nelle nostre menti. Dobbiamo fare tutto il possibile affinché quanto successo l’anno scorso non accada mai più e dobbiamo farlo partendo da noi, senza mai però dimenticare gli Enti titolati all’intervento sia in termini di prevenzione, che di spegnimento, che di repressione del fenomeno. Quello che oggi siamo costretti a chiederci è: cosa è stato fatto da un anno a questa parte? Domanda che abbiamo posto come Coordinamento Aspromonte (costituitosi il 26 marzo a Roccaforte del Greco, per contribuire alle strategie di prevenzione AIB per la stagione 2022) nell’incontro tenuto in Prefettura già il 21 di aprile c.a., a tutti gli Enti coinvolti.
Il tempo delle ipotesi è scaduto, gli alibi sono stati usati tutti e quindi oggi i “diremo”, “faremo”, “agiremo” non hanno altro significato che ammettere la colpa di chi li pronuncia. Né saranno ammissibili scarichi di responsabilità, perché ognuno dovrà rispondere di ciò che avrebbe potuto fare (anche poco) e non ha fatto. Non era e non è nelle nostre corde puntare il dito o fare polemica, né parlare di cose che non conosciamo e abbiamo scelto una strada condivisa e costruttiva. Tutti noi (sono oltre 35 le sigle componenti il Coordinamento) ci siamo impegnati per fornire le nostre competenze e capacità agli Enti che, ad oggi, non hanno ritenuto di voler prendere in considerazione a quanto ne sappiamo.
Abbiamo elaborato proposte concrete e messo nero su bianco dati, studi, elaborazioni grafiche e tutto quanto ci è sembrato utile ed opportuno fornire agli Enti preposti per prevenire e combattere il fenomeno degli incendi boschivi, che oggi torna a far paura.
A tale scopo abbiamo formulato alcune analisi che abbiamo poi trasformato in vere e proprie proposte inviate il 16 maggio a: Regione Calabria, Prefettura di Reggio Calabria, Ente Parco Nazionale dell’Aspromonte, Città Metropolitana di Reggio Calabria e per conoscenza anche a Reparto Carabinieri Parco Nazionale Aspromonte, Azienda Calabria Verde e Comando Vigili del Fuoco di Reggio Calabria.
Nessun Ente interpellato ha ritenuto, ad oggi, di dover chiedere approfondimenti.

Ecco le nostre proposte.

1️⃣ Mappatura delle vie d’accesso ed attraversamento della montagna:

avere contezza della presenza e manutenzione ed in generale dell’accessibilità della rete viaria e dei sentieri carrabili è fondamentale per un pronto e rapido intervento. Per tale motivo, abbiamo elaborato una sorta di catasto delle vie d’accesso all’area del Parco, composto sia dalla rete viaria vera e propria (asfaltata e non) che da alcuni sentieri da considerarsi carrabili, evidenziati in rosso in una cartografia allegata.
Su questi ultimi abbiamo chiesto di porre particolare attenzione agli enti preposti oltre che di verificarne la percorribilità con mezzi anti incendio.
Su queste vie segnalate riscontriamo già diversi problemi di accessibilità ed abbiamo chiesto, quindi, di stimolare gli enti preposti ad intervenire per il ripristino delle situazioni di criticità. Sul punto abbiamo anche espresso la nostra disponibilità a sostenere eventuali iniziative o collaborazioni fattive per le attività di verifica.

2️⃣La visibilità dei focolai:

individuare un focolaio in tempi rapidi è uno degli obiettivi primari di qualsiasi strategia AIB, sia ai fini dell’intervento di spegnimento che repressivi. Per cui la visibilità del territorio dai punti panoramici resta essenziale ed è per questo che abbiamo svolto un’analisi dello stato dell’arte dei punti di avvistamento stabiliti nel piano AIB dell’Ente Parco Nazionale dell’Aspromonte. Dalla nostra analisi emerge che quasi il 70% del territorio non è visibile dai punti individuati che, seppur valenti e strategici, risultano insufficienti. Inoltre, c’è da aggiungere che una parte del territorio scoperto è comunque a minor rischio, ma nonostante questo riteniamo che sia necessario implementarli.
La nostra proposta è, quindi, aggiungere ulteriori punti di controllo nelle zone indicate secondo un nostro studio allegato, dove si trovano le cartografie relative a:
– mappa dello stato dell’arte con i punti attuali;
– mappa scenario 1, con punti aggiuntivi (chiamati delle associazioni);
– mappa scenario 2, con punti di osservazioni attuali ma muniti di UAVs (drone) posizionato a 60 metri dal suolo in posizione di hovering;
– mappa scenario 3, con punti di osservazioni attuali implementati con punti aggiuntivi (chiamati delle associazioni) e tutti muniti di UAVs posizionato a 60 metri dal suolo in posizione di hovering.

3️⃣ I droni nelle fasi di spegnimento e successiva analisi del danno:

Le soluzioni tecnologiche di cui oggi disponiamo possono essere un validissimo aiuto anche nelle strategie AIB. La nostra proposta è di prendere in considerazione lo studio allegato, relativo all’utilizzo di UAVs anche nelle fasi di spegnimento, in ausilio ai DOS (direttore operazioni di spegnimento). Tale attività, già sperimentata negli anni passati, si è dimostrata molto utile consentendo di:
– segnalare le precise coordinate su cui indirizzare eventuali lanci con precisione, grazie a termocamere;
– supportare le operazioni in quelle zone di difficile accesso, identificando (sempre con termocamere) i fronti dell’incendio e la situazione generale;
– monitorare e confermare le operazioni di bonifica;
– analizzare le aree percorse dal fuoco in una fase successiva.
Crediamo, quindi, che tali strumenti, tra l’altro già presenti, debbano essere integrati nelle operazioni AIB.

4️⃣ Contratti di responsabilità:

Estendere il modello del PNA dei Contratti di responsabilità ai Comuni, mettendo a bilancio regionale o metropolitano delle cifre dedicate alle attività AIB, con premialità a contrario, ovvero meno territorio percorso dal fuoco, più fondi trasferiti.

5️⃣ Modello previsionale:

I dati e la loro sistematizzazione potrebbero essere un ausilio fondamentale in tutte le fasi delle strategie AIB. Quello che proponiamo è di costruire un modello unificante di tutti i dati utili tramite GIS, che contenga nei vari strati informativi:
– aree percorse dal fuoco, compreso lo storico;
– strade e sentieri di accesso per mezzi antincendio;
– toponimi;
– punti avvistamento con analisi visibilità;
– posizione squadre, mezzi ed attrezzature;
– posizione bacini idrici e vasche;
– carta vegetazionale (con vegetazione reale e potenziale);
– mappe dei rischi (ad es. frane);
– mappe del valore naturalistico (flora e fauna)
– percorsi e sentieri;
– rete natura 2000;
– punti d’innesco accertati dei focolai;
– limiti amministrativi;
– i divieti di legge;
– etc.
Tali punti sono meramente esemplificativi ed un modello potrebbe contenere tutto ciò di cui si hanno dati, che possa essere ritenuto utile ed opportuno per l’AIB.
Da parte nostra, riteniamo che sia molto utile in tutte le fasi, in particolare in quella di prevenzione e repressione del fenomeno. Un modello di questo tipo potrebbe aiutare ad elaborare strategie di controllo del territorio, meglio posizionare le squadre addette allo spegnimento ed i punti di osservazione, prevedere attività di monitoraggio e prevenzione nelle aree di maggior pregio e molto altro.
In generale, sarebbe uno strumento di armonizzazione dei dati in possesso dei vari Enti, finalizzato alla programmazione di strategie utili e raffinate per combattere il fenomeno degli incendi boschivi.
Pertanto, ci siamo messi a disposizione per sostenere con le nostre competenze l’eventuale realizzazione di tale strumento.

6️⃣ Attività di sensibilizzazione:

Dobbiamo fare tutto il possibile per promuovere i valori di protezione civile e sensibilizzare la popolazione rispetto ai rischi e danni degli incendi.
Per questo abbiamo proposto di svolgere almeno 3 iniziative pubbliche, a cura della Città metropolitana e dell’Ente Parco con la collaborazione di tutti gli Enti.

7️⃣ Un vademecum per tutti:

Strutturazione e pubblicazione di un vademecum per cittadini ed escursionisti, finalizzato a comunicare i comportamenti corretti da tenere e le corrette modalità di segnalazione di un incendio.
Unitamente alle proposte abbiamo, inoltre, fornito una serie di studi preliminari sugli impatti degli incendi 2021, da noi elaborati, oltre che le mappe dei divieti e dei territori percorsi dal fuoco dal 2008 al 2021.
Non vogliamo, né possiamo, sostituirci alle responsabilità e competenze di altri, ma vogliamo semplicemente che ognuno faccia la propria parte, nel rispetto delle proprie competenze.
Da parte nostra ci siamo resi disponibili nei confronti di qualsiasi ente coinvolto, per approfondire ogni singolo tema con riunioni specifiche e fornendo info più dettagliate. Tutto è stato inviato in via ufficiale, per cui non è possibile sostenere che i cittadini non abbiano tentato di aiutare le istituzioni.
Tutti gli allegati, gli studi, le cartografie ed i vari file sono disponibili per la libera consultazione al seguente link:
Nel frattempo, il territorio continua a bruciare e continueremo a chiedere, fino allo sfinimento: è stato fatto tutto il possibile per evitarlo?

Coordinamento Aspromonte

Cavalli infuocati nelle notti d’estate

Difficile stabilire luogo e origine di una tradizione, Bruno Cimino nel suo volume “Tropea perla del Tirreno” scrive che “per ricordare la cacciata definitiva degli infedeli saraceni dal territorio di Tropea… durante la festa de “i Tri da Cruci” si rappresenta una tra le figure più odiate dal popolo, quella dell’infedele turco quando in groppa ad un cammello girava per la città e per i casali con il compito di riscuotere le tasse. La singolare rievocazione si svolge con la cattura dell’usuraio, raffigurato da un fantoccio, che viene legato ad un cammello di legno imbottito di fuochi pirotecnici accesi per l’allegorico “ballo du cameju“.

A Seminara, ci racconta il farmacista Domenico Spinelli, si esce anche con lo “Scavuzzu“, lo schiavetto, uno strano personaggio nero in groppa ad un cammello. Lo Scavuzzo segue il corteo dei giganti che sono preceduti a loro volta da un fantoccio di un cavallo che apre il festoso corteo processionale. Questi fantocci ricoperti di carta velina, di tessuto o nudi di canne legate, sono sempre ciucci, cammelli e cavallucci simulacri di animali arcaici che vengono costruiti per sfilare lungo le strade dei nostri paesi, da soli o con i giganti. Sono animali finti che simboleggiano goffi personaggi del periodo saraceno, l’ingresso dei normanni, il trionfale ingresso a Messina di Ruggero d’Altavilla, o semplicemente voraci belve che mangiano di tutto. Secondo alcuni racconti popolari il ballo si riferisce all’incendio delle navi musulmane ad opera della flotta cristiana nella Battaglia di Lepanto. Altre volte il fantoccio dell’animale viene bruciato e questa operazione ha dei riferimenti propiziatori, di protezione, con una funzione apotropaica: il fuoco purificatore chiude la festa e riporta la normalità del quotidiano vivere.

I camejuzzi i focu sono costruiti da scheletri di canna lavorata e da listelli di legno, che vengono rivestiti di carta e successivamente abbelliti con carta velina di diversi colori. Alla costruzione provvedono di solito sempre le stesse persone, fuochisti che tramandano a familiari le esperienze e le informazioni necessarie. Questi personaggi animaleschi sfilano la sera a conclusione della festa e culmina con l’accensione dei fuochi pirotecnici. Un ballo infuocato per purificare il territorio dalle influenze negative, è questa la profonda simbologia di questo rituale di chiusura delle feste nei nostri paesi.  La tradizione del camejuzzu i focu tende a sottolineare la funzione protettiva dalle negatività con il suo sopravvissuto rituale di esorcizzazione del nemico invasore turco. Per alcuni “u camejuzzu i focu” simboleggia proprio la cacciata dei musulmani che, per un certo periodo, dominarono alcune città della Calabria ed andavano a riscuotere i tributi con i loro cammelli. 

Nel ballo infuocato viene allestito un cammello costruito in modo rudimentale con delle canne riempite di polvere da sparo e cariche esplosive e girandole esplodenti. Quando la festa si conclude un uomo si carica sulle spalle il cammello di canne ed inizia a ballare al ritmo frenetico di tamburi assordanti. Il ballo si protrae per circa un quarto d’ora o mezz’ora tra fumo, spruzzi colorati di fiamme, scoppiettii di petardi e poi I 8n crescendo fino all’esplosione della girandola colorata posta all’altezza della coda”.

 

Fonte: https://www.italiamappata.it/calabria/vv/2105-favelloni/storia/

koinè

Koinè; una nuova stagione per Kalabria Experience

Kalabria Experience, inaugura, se pur virtualmente, una nuova stagione, che vuole essere un monito, un augurio, un linguaggio che unisce la CALABRIA in un unico fattore denominatore. #Koinè è un termine che vuole dar seguito a tutto ciò che in questi anni passati e grazie alle preziose collaborazioni di tutti i soggetti coinvolti; Associazioni, Guide, Aziende, Ricercatori, Fotografi, Video-maker in questo progetto, vuole ribadire quella mission legata all’identità di questa terra, culla di popoli e culture, terra di bellezza e di contraddizioni, di colori e di profumi. L’auspicio che noi possiamo augurare in questa nuova stagione è che la nostra Koinè culturale possa nuovamente tornare e parlarci nel cuore, trasferendoci ancora più forte, quell’amore che ogni giorno possiamo ri-dare al mondo, parlando di bellezza,di storie, di vita, di popoli e di riscatto!

koinè

KOINE’, perchè questo slogan?

La lingua greca comune, basata sul dialetto attico, che a partire dal IV° secolo a. C., con le conquiste di Filippo e di Alessandro il Macedone, si diffuse in tutto il Mediterraneo centro-orientale ellenizzato, limitando e quindi eliminando progressivamente le parlate e i dialetti locali. Quando la cultura greca si estese ai complessi organismi statali sorti sull’impero di Alessandro Magno, si affermò come lingua parlata e come lingua scritta e letteraria, imponendosi anche a parlanti di origine non greca; è alla base del greco moderno con le sue varietà dialettali. Per meglio intendersi è una lingua comune, come uso linguistico accettato e seguito da tutta una comunità nazionale e su un territorio piuttosto esteso, con caratteri uniformi, in contrapposizione ai dialetti locali e alle parlate regionali, territorialmente limitati e disformi.
E appunto, Kalabria Experience vuole essere una lingua comune, uno stile di vita, da poter essere compresa in tutto il mondo, e nel mondo diffondersi e radicarsi sotto una sua identità che accomuna il territorio ed il nostro sentire per questa terra meravigliosa che ci accoglie, che ha voglia di farsi capire, di farci innamorare…

Non abbiamo ancora redatto un calendario con le esperienze che caratterizzeranno questa stagione 2022, stiamo lavorando su un progetto binario a Koinè che speriamo possa vedere luce ad Aprile prossimo!

Ovviamente vi terremo aggiornati sui nostri canali social

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