Dopo le abbuffate del Martedì Grasso tra polpette e salsicce, risate e commozione, muore Carnevale, onorato con cortei funebri, roghi e altri riti ancora in uso in molti paesi calabresi. Resta il dolore della moglie di Carnevale, la vedova Corajisima che nell’immaginario popolare è rappresentata da una vecchia, alta e secca, dall’aspetto inquietante avvolta in stracci neri.
In molti centri della nostra regione, si tramanda che da mezzanotte di martedì grasso Corajìsima, comincia ad aggirarsi per le vie del paese ed è solita disporre, in un luogo appartato, dei pentoloni pieni di acqua bollente per scottare la gola di quanti non rispetteranno le privazioni del periodo quaresimale.
Dal mercoledì delle ceneri, ancora oggi, è molto facile vedere, fuori dalle abitazioni, alle finestre, ai balconi, sulle porte o sospese a un fino teso da una casa all’altra, delle rudimentali pupattole vestite con un lungo abitino nero, dalle faccine di stoffa bianca sulle quali risaltano gli occhietti neri, il naso e la bocca ricamati. Sono le corajìsime, fantocci rituali dalle origine remote, rappresentate nell’atto di filare, che reggono tra le mani il fuso e la conocchia, unite dal filo, che rappresenta lo scandire del tempo, di questi quaranta giorni di penitenza e digiuno dalle carni, comportamenti sobri e in generale privi di eccessi alimentari, un tempo osservati da tutti con un certo rigore.
Infatti molto spesso le corajisime sono addobbate con collane di castagne, uvetta, fichi secchi, o laddove le pupe sono sospese ad una corda, sulla stessa possiamo ritrovare sarde, aringhe, code di baccalà e altri simboli del magro.
Ai piedi, o sulla testa delle pupattole, a seconda delle località, viene posta un arancia selvatica o anche una patata, con conficcate sette penne di gallina. Ogni domenica che passa, se ne strappa una.
Un tempo il più giovane della famiglia assumeva il compito di tirare l’ultima penna nel giorno del Sabato Santo, quando le campane riprendevano a suonare a festa per annunciare la resurrezione di Cristo.
In alcune località, era previsto un rito di eliminazione del fantoccio, un modo per vendicarsi con Corajisima per le sue dure privazioni. Era comune bruciare la bambola per allontanare le negatività, ma c’era anche chi la conservava per riesporla nell’anno seguente. Nell’immaginario popolare, quandu spara ‘a Gloria Pasqua scaccia via Corajisima dicendo:
Nesci tu sarda salata
ca trasu eu la ricriata.
Ma recriu sti zzideddhi
cu li beddhi cuzzupeddhi.
E’ finalmente possibile per i bambini, e non solo, consumare i desiderati dolci pasquali (come le gute, le cuzzupe ecc ) e ritornare a mangiare i cibi grassi.
Di Andrea Bressi